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Autore: Dragon gio    10/04/2016    3 recensioni
Era salito sul taxi e poi… ecco, da lì iniziava il vuoto. Un pesante, inquietante vuoto di memoria. John a stento si rendeva conto di dove si trovasse ma, qualcosa nel suo istinto di soldato gli impose di svegliarsi immediatamente. [...]
A quel punto comprese fin troppo bene di trovarsi in una situazione di pericolo.

John si ritrova a dover fare i conti con una parte del suo passato, con una vita che non è stato in grado di salvare. Ed ora, un uomo grida vendetta e sarà John a doverne pagare le conseguenze.
Genere: Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: John Watson, Lestrade, Mycroft Holmes, Sherlock Holmes
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Let us be brave cap 1
Let Us be Brave

Cap. #1  I'm Not Ready

Riemerse da uno stato di incoscienza molto intenso, la testa gli doleva e si sentiva stanco. Provava un senso di profondo disagio, qualcosa non andava. Il primo dettaglio fuori posto che John Watson avvertì era che c’era un innaturale silenzio attorno a sé, oltre che il buio più totale. Si sentiva confuso, tanto da non riuscire a riordinare i propri pensieri. La mente come annebbiata strano, si disse, prima di coricarsi aveva bevuto solo un paio di birre con Lestrade, niente che non reggesse benissimo.
Un pensiero lo attraversò fulmineo: quando era andato a dormire? Era tornato davvero a casa? Tutto un tratto qualcosa gli trafisse le membra con violenza: flash veloci, ricordi appannati della sua serata.

Coraggio John, fai uno sforzo – incitò se stesso nella speranza di ricordare; era uscito dal 221B perché aveva litigato con Sherlock, di nuovo, e doveva sbollire la rabbia. Per strada aveva incontrato Lestrade e, dato che l’amico si era accorto dello stato in cui versava, lo aveva invitato ad andare con lui al pub. Si erano divertiti chiacchierando del più e del meno, lui aveva bevuto due birre piccole, scure, e Lestrade una media chiara. Alle undici e mezza si erano salutati, John aveva chiamato un taxi mentre Lestrade si era allontanato dalla parte opposta a piedi, perché abitava poco distante.

Era salito sul taxi e poi… ecco, da lì iniziava il vuoto. Un pesante, inquietante vuoto di memoria. John a stento si rendeva conto di dove si trovasse ma, qualcosa nel suo istinto di soldato gli impose di svegliarsi immediatamente. Sollevò piano le palpebre, tentando di mettere a fuoco la stanza, sembrava molto più grande.
Il suo corpo scosso da un freddo pungente e, inoltre, c’era anche un dolore sordo alle braccia, un momento erano tese e legate sopra la sua testa? A quel punto comprese fin troppo bene di trovarsi in una situazione di pericolo. Si sforzò di inspirare a fondo, cercò di muoversi ma ancora non aveva riacquistato la totale  sensibilità del proprio corpo.
Droga, forse era stato drogato. Un rilassante muscolare o un potente sedativo e, a giudicare da come stava, una dose massiccia, iniettata via endovena, o l’effetto non sarebbe stato così rapido. Eppure, nonostante il blackout nella sua mente, era assolutamente certo di non essere stato sfiorato da un ago.
Il petto gli bruciava, appena sopra la spalla, che diavolo era? Quell’intorpidimento così intenso, possibile che invece fosse stato un Taser? Improvvisamente fu come se avesse incastrato a dovere l'ultimo pezzo di un gigantesco puzzle. Sì, ma certo! Ora rammentava: il tassista, era stato lui. Non appena partiti, avevano fatto qualche isolato, poi si era parcheggiato in un vicolo e, non appena John si era sporto per porre domande, si era ritrovato schiacciato sul sedile dalla scossa di un Taser. La scarica era stata violenta e l’incoscienza immediata.

Poco a poco riprendeva le sue piene funzioni fisiche, la vista si stava abituando all’oscurità e poté confermare di trovarsi in un luogo chiuso, ma molto spazioso e relativamente vuoto. I brividi continui erano dovuti alla mancanza di indumenti, si accorse solo in quell'istante che era pressoché mezzo nudo; indossava unicamente i jeans. I piedi, scalzi, sfioravano a fatica il pavimento con la punta delle dita, si trovava letteralmente appeso per le braccia, sostenuto da una corda, o una catena, non ne era certo. Le mani legate strette con qualcosa di acciaio, presumibilmente un paio di manette, la sensazione del metallo sulla pelle era inequivocabile.

Lottò per tentare di divincolarsi, ma era ovviamente impossibile, inoltre, la posizione scomoda gli stava stirando fastidiosamente i muscoli di spalle e addome. Si mise in allerta quando un sinistro eco di passi si fece sempre più vicino. Il cigolio di una porta arrivò alle orecchie di John e, subito dopo, una luce accecante lo costrinse a stringere gli occhi dolorosamente. Una figura, avvolta nell’oscurità, gli puntava contro la luce di una torcia. Da quel poco che riusciva a vedere, doveva trattarsi di un uomo, piuttosto alto, più o meno come Sherlock, no, lo superava di qualche centimetro. John si torturò le corde vocale e le costrinse a rimettersi in funzione, per quanto, pareva fossero ancora addormentate – Chi sei?! – domandò con voce roca, sforzandosi di tenere gli occhi aperti nonostante il fascio luminoso che lo accecava.
- Il mio nome non conta – disse l’uomo misterioso, il tono piatto e gelido – L’unico nome che conta davvero, è quello di Jay Parker. –
- C… cosa? – biascicò John, il nome lì per lì non gli disse nulla, ma poi gli si accese una lampadina in testa – Oddio… Parker? Il caporale Parker?! –
- Esatto. Vedo che almeno non l’ha dimenticato. Ma questo non basta, capitano John Waston. –
John inspirò una boccata d’aria, stava tentando di rimanere lucido per cercare di venire a capo di questa strana situazione – Mi vuoi dire chi sei?! E cosa ci faccio qui? Dove ci troviamo?! –
L’uomo non rispose, si limitò a spegnere la torcia; le pupille di John ringraziarono. Altri passi e poi lo scatto di un interruttore e il luogo venne illuminato da una luce al neon. Non perse tempo e si guardò attorno per analizzare e osservare, proprio come aveva imparato da Sherlock. Sembrava un magazzino in disuso, c’erano rifiuti un po’ ovunque, il covo di un gruppo di senza tetto magari? No, erano difficile da mandare via, specialmente se erano in gruppo, anche se l’uomo in questione che lo aveva sequestrato pareva parecchio determinato.
Gli si fece vicino, interrompendo il flusso dei suoi pensieri, ora finalmente poteva vederlo bene in faccia. Scrutò con attenzione i suoi lineamenti; sulla sessantina, viso squadrato, mascella prominente, capelli corti e neri, occhi chiari. No, non lo conosceva, anche se ebbe l’impressione che somigliasse a – Parker? –
L’uomo non mutò espressione a parte quell’impercettibile tic che ebbe al labbro, il suo sguardo fermo e puntato su John con rabbia – No. Suo padre. Barry Parker.–
- Oh mio Dio… Mi avevano detto che era morto in un incidente! –
- E le hanno detto il vero. Io sono morto – colse lo smarrimento che pervase John a quelle parole, così proseguì il suo discorso senza indugio - Sono morto il giorno in cui lei ha lasciato morire mio figlio, se lo ricorda dottore? Rammenta quel giorno?! –
Deglutì a vuoto, la risposta era palese e non fece nulla per nasconderla – Sì, me lo ricordo bene. –
Credeva di aver seppellito abbastanza in profondità quelle memorie, ma non era così. Non gli fu affatto difficoltoso estrapolare e rivivere ogni attimo come se fosse accaduto solo ieri anziché quattro anni prima.

Deserto, Afghanistan, missione a Kabul, lui era con il gruppo di Mike quel giorno; assieme a loro c’erano Vincent lo smilzo, Chad l’afroamericano e poi Parker, il più giovane della squadra. Stavano attraversando un tratto di strada, apparentemente sgombro, quando caddero in un imboscata. In un attimo furono travolti da proiettili e bombe a mano, nel caos generale il caporale Parker, nel tentativo di aiutare un civile, venne colpito in pieno da una granata.
Quando John riuscì finalmente ad avvicinarsi a sufficienza per prestare soccorso, era troppo tardi. Anche se, analizzando le ferite, il povero Parker era morto sul colpo non appena il suo corpo era stato travolto dall’esplosione. Non avrebbe potuto fare nulla per lui, nemmeno se fosse stato lì al suo fianco un secondo dopo che la granata era implosa. Per questo John, nonostante lo shock per aver visto morire un ragazzino di appena vent’anni, non si era mai sentito in colpa. Lui era una delle tante vittime di guerra, non era stato il primo e non fu nemmeno l’ultimo.

- E’ stato sfortunato… - Tentò di spiegare John, anche se, non capiva bene il motivo per cui dovesse giustificarsi con un uomo che lo aveva tramortito, rapito e imprigionato.
- No, la sfortuna non c’entra dottore. Mio figlio è morto perché lei non lo ha salvato! – sbottò irato Parker senior, degrinando i denti come un cane rabbioso. John non ci mise molto a capire che era caduto nelle mani di un individuo mentalmente disturbato, forse aveva avuto un crollo psicotico a causa della morte del figlio. Il lutto, nella sua mente, non era mai stato elaborato ed ora, a distanza di molti anni, cercava ancora un capro espiatorio su cui riversare tutta la sua frustrazione.
- Mi ascolti, non è stata colpa mia. Si è trattato di un tragico incidente di guerra! –
- Io non credo. E lei caro dottore, mi dirà la verità. –
Si allontanò, sparendo per un istante dalla visuale di John, gli ricomparve dinanzi con un secchio. Ne riversò il contenuto addosso a John, bagnandolo dalla testa ai piedi. Il liquido era a dir poco gelido, inodore e incolore, pareva proprio essere semplice acqua. John doveva aspettarsi di tutto da quell’uomo, ma almeno per ora aveva scartato l’ipotesi di essere stato cosparso di un qualche tipo di accelerante.
Quando vide che stava avvicinando una batteria per auto e preparando dei fili scoperti, John dedusse con orrore che l’acqua serviva da tramite. Iniziò ad agitarsi, cercando di liberarsi in qualche modo. Non appena il suo aguzzino ebbe finito di indossare dei guanti spessi di gomma, portò i due fili a contatto verificando che trasmettessero la giusta dose di corrente elettrica. Rivolse poi uno sguardo malevolo verso John, il cui respiro era palesemente accelerato perché ben cosciente di cosa stesse per fargli. Era stato un soldato, conosceva le tecniche base per torturare, ne aveva dovuti curare gli effetti in alcuni casi su dei commilitoni. Non potendo fuggire, cercò solo di prepararsi psicologicamente; fece dei respiri profondi e socchiuse gli occhi, sforzandosi di visualizzare nella sua mente qualcosa di sereno a cui aggrapparsi per sopportare il dolore.
Non ci fu alcuna esitazione da parte di Barry: posò i fili al centro del petto di John, lasciando che il suo intero corpo fosse pervaso dalle scariche elettriche. Se avesse potuto, non gli avrebbe dato la soddisfazione di sentirlo urlare, ma voleva evitare di mordersi la lingua, l’ultima cosa di cui aveva bisogno era soffocarsi con il suo stesso sangue. La scossa durò pochi secondi, ma a John parvero interminabili minuti. Purtroppo per lui, la sua agonia era solo all’inizio.

Quando rinvenne dovevano essere passate ore, la stanza nuovamente immersa nel buio, di Barry Parker nessuna traccia. Non era cambiato molto, lui ancora stava appeso come un merluzzo, con la differenza che ora era intontito e sofferente per le numerose scariche elettriche a cui era stato sottoposto. Tremava per il freddo, ma non vi era molto che potesse fare per riscaldarsi. Non riusciva a capire da quanto fosse rinchiuso in quel luogo, stava già perdendo di lucidità, non andava bene.
Fece appello a tutta la sua concentrazione mentale per poter elaborare una strategia di fuga. Le gambe non erano legate, per quanto faticasse a muoverle in questo momento, poteva usarle a suo vantaggio. Studiò accuratamente svariate versioni nella sua testa di come attuare tale piano, se Sherlock fosse stato presente sarebbe stato fiero di lui. A proposito di Sherlock, chissà se lo stava cercando. Magari era addirittura preoccupato, non poteva esserne sicuro, d’altro onde stavamo parlando di un uomo così eccentrico che in pochi riuscivano a comprenderlo. Ma John lo conosceva bene e in cuor suo non poteva fare a meno di immaginarsi il suo coinquilino che stava insultando Lestrade e mezza Scotlan Yard perché non avevano colto determinati dettagli “palesi”.
Sì, Sherlock sarebbe giunto in suo soccorso, sicuramente, ma intanto John doveva riuscire a sopravvivere e magari liberarsi. Barry era mentalmente instabile, Dio solo sapeva a quali e quante torture lo avrebbe sottoposto.


Dall’altra parte di Londra, intanto, precisamente al 221B di Baker Street, il solo e unico consulente investigativo stava digitando freneticamente alla tastiera del suo pc. Erano già trascorse ventiquattro ore da quando John era sparito, ma nessuno svanisce senza lasciare traccia. Sherlock aveva ricostruito minuziosamente i passi del suo amico dal momento in cui Lestrade lo aveva lasciato all’uscita del Pub. Sapeva che aveva preso un taxi e aveva scoperto dove si era fermato il rapitore per stordire John e rapirlo. La suddetta vettura era stata trovata abbandonata nel luogo indicato da Sherlock. Le portiere aperte, tracce di sgommate di un'altra auto che partivano in direzione dell’autostrada.
E qui la faccenda si complicava; Sherlock era risalito al modello di auto dalle tracce dei pneumatici, una Ford alquanto vecchia e malconcia, ma il percorso che aveva intrapreso non aveva senso. Si era rifatto la strada mentalmente almeno venti volte, eppure arrivato ad un certo punto, i bivi e le deviazioni erano troppe e non poteva scegliere a caso, doveva controllare ogni possibile via di fuga del rapitore.
Aveva messo sotto torchio l’intera Scotland Yard per farsi aiutare, almeno i loro mezzi e le pattuglie gli sarebbero tornate utili stavolta. Ma gli agenti erano tutti quanti così stupidi, guardavano ma non osservavano, e Sherlock non poteva seguirli tutti contemporaneamente, il che abbassava notevolmente il ritmo di ricerca. E le possibilità di ritrovare John ancora in vita, diminuivano ad ogni minuto perso.
Non aveva ricevuto mail o lettere minatori, quindi non ce l’avevano con lui stavolta, era qualcosa che riguardava John direttamente. Si era fatto passare da Mycroft le password per avere accesso a tutti i fascicoli riguardanti John, stava letteralmente passando al setaccio la sua vita. C’era qualcosa, doveva esserci qualcosa nel suo passato che aveva condotto a questo rapimento.
Aveva anche contemplato la possibilità della “casualità” e cioè l’essere finito nelle mani di un estraneo perché si era trovato al posto sbagliato nel momento meno opportuno. Ma questa pista non lo aveva condotto lontano, no, lui ne era sicuro, si trattava di una persona che ce l’aveva in maniera particolare con John. Il rapimento era stato pianificato con dovizia di particolari, impossibile pensare che fosse una mera coincidenza.

Sherlock praticamente non aveva chiuso occhio, dormito e toccato cibo da quando si era accorto della sparizione di John. Anche volendo, non sarebbe riuscito a fermarsi, l’adrenalina scorreva veloce dentro le sue vene, pulsava come un flusso interrotto, permettendo alla sua attenzione di rimanere alta e la sua mente vigile.
Stava leggendo alcuni rapporti militari relativi il servizio di John in Afghanistan. Nulla di preoccupante, la condotta del capitano Watson era stata impeccabile, era uscito dall’esercito a testa alta senza macchie nella sua carriera.
Questo dettaglio però lo portò a riflettere: se li non c’era nulla, allora di qualunque faccenda si trattasse, pulita  o meno, non era stata riportata in alcun fascicolo. John aveva commesso un reato? Qualcuno lo aveva coperto ed ora c’era chi reclamava giustizia? No, impossibile, Sherlock cancellò immediatamente questa teoria. Conosceva bene John Watson e sapeva quanto leale e pieno di saldi principi morali fosse quell’uomo. Non si era mai accanito inutilmente sul suo prossimo a meno che non si trattasse di una minaccia per cose o persone.
- Allora, perché? – La domanda riecheggiò a vuoto nell’appartamento, non vi era nessuno che potesse rispondergli. Gli occhi si posarono sul cellulare, segnava le tre meno un quarto del mattino. Il tempo volava, i minuti e i secondi gli sfuggivano con troppa velocità. La vita di John dipendeva da lui, non vi era nessun altro in tutta l’Inghilterra in grado di ritrovarlo. Non era tipo da pregare Dio o a credere nei miracoli, non vi era bisogno di scomodare simili autorità. Sherlock era sicuro che John fosse ancora vivo, aveva fiducia nelle sue capacità di soldato. Pur non avendo un chiaro quadro di cosa stesse passando e delle sue condizioni fisiche, aveva calcolato che poteva sopravvivere da solo per altre trentasei ore almeno. Dopo quel lasso di tempo si ponevano delle alternative.
Se il suo carceriere gli aveva concesso di poter bere dell’acqua, aveva speranza di tirare avanti ancora un po’, ma se era stato privato della possibilità di avere accesso a qualsivoglia liquido, sarebbe morto per disidratazione nel giro di poco. E Sherlock di certo non aveva intenzione di lasciar soffrire ancora così a lungo John, il suo caro John.
A quel ‘caro’ Sherlock scosse la testa, come ci fosse entrato un simile termine nel suo vocabolario e del perché lo avesse associato proprio all’amico non lo sapeva e non aveva tempo da perdere per pensarci. Ogni sua singola cellula celebrale era attiva solo su quel caso adesso.


Barry era tornato a fare visita molte volte a John e, ad ogni occasione, si dilettava a torturarlo in un modo differente dalla volta precedente. Le scosse elettriche erano alternate dal più singolare tizzone ardente conficcato nella schiena. Il dolore era stato così intenso che John per poco non aveva pianto dal male. Aveva l’impressione che tornasse da lui ogni volta che provava a chiudere gli occhi per riposare. Gli compariva davanti proprio pochi minuti dopo che le sue palpebre si erano chiuse ricominciando con la sadica tortura. Questo gli impediva di riprendere le forze, e portò anche John a pensare che probabilmente era tenuto d’occhio da alcune telecamere a infrarossi.
Tutto questo unito alla fame, la sete e il freddo che aumentavano considerevolmente di ora in ora, si stava indebolendo velocemente. Era certo di avere anche i polsi slogati ormai, a furia di rimanere sempre in quella maledetta posizione. Ogni muscolo del corpo gli doleva, non sopportava più di stare appeso, impotente e in balia di quel pazzo.
Come se non bastasse, alle torture si univano pure le minacce e gli insulti. Continuava a gridare in faccia a John che doveva pentirsi di ciò che aveva fatto, chiedere scusa a lui e a suo figlio per averlo lasciato morire. Ma John resisteva con tutta l’ostinazione e il coraggio possibile, non era disposto a piegarsi. A costo di morire, non avrebbe mai assecondato la sua follia.

All’alba del terzo giorno la sua forza di volontà iniziò a vacillare pericolosamente. La privazione di sonno, le torture e la sete lo stavano logorando. Se voleva cercare di liberarsi, doveva farlo ora che riusciva ancora a concentrare i propri pensieri. Doveva far avvicinare abbastanza il suo aguzzino per poter mettere in atto il suo piano ma non era facile cercare di ingannarlo, non perché fosse particolarmente astuto ma perché era decisamente psicopatico. L’unica carta che poteva giocarsi, era quella di mostrarsi fragile e sottomesso, insomma dargli esattamente ciò che voleva.
Attese quindi che si presentasse e preparasse la sua attrezzatura; avrebbero iniziato con le scosse oggi da quel che poteva vedere. Fin da subito si mostrò stanco e tremante, in parte non gli era difficile fingere questo stato fisico ma si impegnò per rincarare la dose. Poi mosse piano le labbra, supplicando.
– A… acqua… la prego… -
Parker senior si fermò immediatamente e rivolse un occhiata a John, l’aria sorpresa.
– Acqua… me ne basta un sorso, per favore… - Si sforzò di risultare il più possibile credibile, non era abituato a fingere quindi non era certo del risultato. Lui non era in gamba come Sherlock. Buffo, proprio lui che era un sociopatico restio alle emozioni era dannatamente bravo a simularle.
Barry non distolse lo sguardo, emanando severo la sua risposta - Berrai quando confesserai tutti i tuoi peccati. –
- Che cosa vuole che le dica? –
- Dì che ti dispiace. –
- Va bene… - mormorò John, abbandonando il capo di lato come se stesse per svenire - Mi dispiace… mi dispiace tanto… ha ragione, è stata colpa mia, solo mia… -
Rimase immobile, gli occhi socchiusi mentre teneva le orecchie ben spalancate per carpire le mosse di Barry. Udì i suoi passi avvicinarsi e poi una mano callosa che gli afferrava i capelli strattonandolo all’indietro.
- Ora iniziamo a capirci, dottore. –
Non appena la presa sulla nuca si allentò, John entrò in azione. Colpì con ferocia la fronte di Barry, facendolo capitolare. Mentre era chino a bestemmiare, John passò le gambe attorno al suo collo e strinse con tutta la forza che gli era rimasta.
L’uomo si dibatteva in cerca d’aria, ma la presa di John era salda – Se non vuoi morire soffocato ti consiglio di liberarmi subito! –
Era legato al soffitto con una lunga catena, fatta passare tramite un tubo dall’aria arrugginita. Non poteva lasciarlo andare, era conscio che non appena lo avesse fatto si sarebbe ribellato. Ma aveva notato che nascondeva una pistola nei pantaloni ed era a quella che mirava.
- La pistola, usala! Spara al tubo! –
Poteva leggere negli occhi di Barry una bruciante sconfitta e, folle come era, non aveva certezza che avrebbe ubbidito. Lottarono ancora per qualche secondo prima che l’uomo estrasse lentamente la pistola.
- Non pensarci nemmeno di spararmi! Mi basta poco per spezzarti il collo e ti assicuro che sarò più veloce di te! –
Aumentò la presa per far intendere che non scherzava affatto. Barry levò il braccio in alto mirando al tubo e fece fuoco. Il primo colpo andò a vuoto, il secondo sfiorò il bersaglio.
- Avanti! – Lo incitò John, non sarebbe riuscito a resistere ancora a lungo e anche Barry, lo stava soffocando a morte.
Dopo altri due colpi il tubo iniziò a incrinarsi e a cedere, bastò infine che John facesse leva per tirarlo giù del tutto finendo a schiantarsi sul pavimento assieme al suo carceriere. Provò un dolore sordo, non vi era un singolo arto del corpo che non gridasse dal male. Le orecchie gli fischiavano con violenza e tutti i suoni attorno a lui erano ovattati. La prolungata postura forzata e poi quest’ultimo sforzo intenso lo avevano messo al tappeto. Era troppo debole, troppo affamato e disidratato per alzarsi e correre via. Osservò con attenzione le reazioni di Barry, anche lui non era messo bene, almeno per il momento si stava contorcendo sul pavimento sudicio tossendo.
Facendo appello ad un energia che non pensava ancora di possedere, John si rimise in piedi e barcollò qualche passo in avanti. Aveva ancora le mani legate da un paio di manette, i polsi coperti di sangue e lividi. Arrancò a fatica fino al portone principale, ci si gettò quasi sopra nel tentativo di spalancarlo. Per un istante respirò una boccata d’aria gelida e pregustò la libertà. Riuscì a vedere l’esterno, era giorno, l’alba forse e sentiva il profumo del mare. Intravedeva in lontananza un porto e delle navi da carico.
- So dove siamo… - bisbigliò con voce roca John, ma la distrazione, quel singolo istante che si era fermato gli fu fatale. Barry gli era arrivato alle spalle e lo aveva tramortito di nuovo con il Taser. John gridò prima di finire a terra, colpendo con l’intera faccia il cemento polveroso.
Non riusciva più a muoversi, la mente scivolava verso l’oblio mentre quel folle uomo lo trascinava per le gambe di nuovo nella sua personale prigione.
Per la prima volta da quando era stato rapito, John ebbe paura. Temette che non si sarebbe mai più risvegliato, che la furia omicida di Parker senior si sarebbe abbattuta su di lui mentre era ancora incosciente. Ma aveva sottovalutato la sua sete di vendetta.

Quando iniziò a destarsi, la mente di John venne annebbiata dalla sofferenza. Prese coscienza lentamente, la prima cosa di cui si rese conto era di essere nuovamente immobilizzato con le braccia sopra la testa, legato ad una sorta di grata d’acciaio stavolta. Non era sospeso, anzi, i piedi erano ben stazionati a terra ma fu proprio quando fece leva sulle gambe che gli si spezzò il fiato in gola. Ebbe uno spasmo violento quando realizzò di avere una gamba rotta. La frattura partiva da sotto il ginocchio e si estendeva per l’intera tibia, forse era rotta in più punti. Soffocò a stento un gemito, il dolore era atroce e gli impediva di rimanere sveglio.
Barry avanzò dall’ombra, gli occhi iniettati di sangue. In mano stringeva ancora la mazza da baseball che aveva usato per rompergli le ossa.
La gettò a terra con furia, non curandosi di dove fosse finita. Inspirava con forza, come se fosse stremato. Poi si portò una mano al petto e le dita si arpionarono alla camicia, madida di sudore. Era pallido come un cadavere e non era stabile. Solo allora John riconobbe i sintomi di un infarto in corso – Barry… mi ascolti… sta per… andare in arresto cardiaco! –
- Taci! Non voglio sentirti parlare! – Ansimò pericolosamente annaspando, si sentiva come se stesse annegando ma non cedette.
- Barry… posso aiutarla… sono un medico… -
- Certo… come hai aiutato mio figlio?! No, grazie dottore! –
Era combattuto, una parte di lui fremeva perché quel pazzo bastardo crepasse mentre l’altra scalpitava per aiutarlo. Era un dottore in fondo e aveva recitato un preciso giuramento, ovvero quello di soccorrere chiunque ne avesse bisogno.
- Barry… morirà, si lasci aiutare! –
- E allora che sia! La mia vita… non ha senso… - Si accasciò in un angolo, gli occhi stretti, lottando per non soccombere. John non sapeva se era per via dei due giorni di torture, se per la stanchezza o per altro ma per la prima volta provò pena per quell’uomo.
- Jay non vorrebbe questo… -
- Zitto! Non pronunciare il suo nome! T…tu non puoi! –
- Io mi ricordo di lui. Non l’ho mai dimenticato. Non ho dimenticato nessuna delle vite che non sono stato in grado di salvare mentre mi trovavo in Afghanistan! –
- Stai mentendo… -
- Lui adorava i fiori, voleva aprire un negozio una volta tornato a casa. E gli piaceva guardare il cielo… ed era gentile e pieno di voglia di vivere. Amava suo padre e si preoccupava per lui… -
- Basta! –
- Amava suo padre. Non voleva spezzargli il cuore con la sua morte ma è successo… ed è ora di andare avanti. –
- No. No! Io… rivoglio Jay! Rivoglio mio figlio! – Barry era scoppiato in un pianto isterico, e John in qualche modo rimase colpito da così tanta disperazione. Perché era reale almeno tanto quanto l’amore che provava per suo figlio.
- Fin quando ci sarà qualcuno che lo ricorderà, lui vivrà. Una persona muore veramente quando ci dimentichiamo di lei. E se lei ora muore, non ci sarà più nessuno che si ricorderà di Jay è questo che vuole?! –
Razionalmente non poteva fare a meno di detestare quell’individuo per quello che gli aveva fatto passare, però il suo cuore gli diceva che doveva essere forte anche per lui. Ci sarebbe stato il momento della resa dei conti, ma ora era il tempo di essere coraggioso ed aiutarlo suo malgrado.
Fece appello a tutte le sue forze e si puntellò sulla gamba sana e con le braccia prese a strattonare le manette che lo intrappolavano. Ad ogni movimento era un agonia, i polsi slogati sfregavano con forza inaudita sul metallo, ma John strinse i denti e proseguì.
Barry, ormai prossimo a perdere i sensi per l’infarto rimase scioccato dal suo gesto. Non trovava ne le parole giuste ne una motivazione valida per spiegarsi tutto questo.
- Perché? Perché… - Riuscì solo a dire, gli occhi inondati dalle lacrime. John puntò lo sguardo su lui, e Barry si sentì inghiottire da quel blu intenso così simile all’oceano in tempesta.
- Non lo faccio per lei, ma per Jay! Tenga duro! –
Qualcosa si spezzò letteralmente nel cuore di Barry e, per un istante, gli parve di vedere la figura di suo figlio Jay, in piedi accanto a John. Lo guardava, un espressione triste e afflitta.
- Perdonami… perdonami… -
- No! No, non chiuda gli occhi! Barry!! Maledizione! –
Non riusciva a liberarsi, per quanto ci provasse era impossibile. Maledì la sua debolezza e quell’idiota di Barry. Era disperato, stava per perdere un altro Parker. Nell’angoscia in cui stava sprofondando, un nome risalì fin sulle labbra – Sherlock… -
Non ragionava più, il dolore era insopportabile, la disidratazione e la fame lo avevano reso vulnerabile e debole. Ma non abbastanza per abbandonarsi ad un ultima sentita imprecazione.
- Sherlock… dove sei? Dannato sociopatico dove sei quando ho bisogno di te?! –

E poi, come se lo avesse sentito, apparve.

Quarantotto ore. Sherlock non riusciva a capacitarsi di averci impiegato così tanto prima di riuscire a capire dove fosse stato portato il suo migliore amico e coinquilino.
Come aveva fatto ad essere così idiota da non pensarci prima? Grazie ad una soffiata dal maggiore Sholto, Sherlock era venuto a conoscenza della morte del ventenne caporale Jay Parker. Non era stata la sua morte a suscitare clamore, quanto meno la mole di lettere che l’esercito aveva ricevuto dopo che la salma del figlio era stata spedita a casa. Lettere minatorie, citazioni in giudizio e quanto altro, senza dubbio l’opera di un padre disperato. Non vi erano accuse dirette al capitano Watson in quelle trentasei lettere perché, a detta del maggiore Sholto, Parker senior era venuto a conoscenza dei dettagli sulla morte del figlio da uno dei soldati presenti alla missione quel giorno. Gli era stato raccontato dell’azione e tutto il resto e, nella mente malata di Barry, la figura di John era stata distorta e vista come “l’uomo nero” su cui scaricare ogni colpa.
A causa del suo stato mentale instabile aveva perso prima la moglie e poi la sua attività. Gestiva un azienda di trasporti e uno dei suoi magazzini si trovava al porto di Brighton. La zona era isolata, ogni suono sospetto, come l’urlo di un uomo, facilmente coperto dai fragorosi rumori delle navi di passaggio. Il luogo ideale dove torturare a morte qualcuno.

Sherlock era stato il primo ad entrare, nonostante Lestrade lo avesse minacciato, invano, di rimanere dietro i suoi uomini. Si era fatto strada a suon di insulti e calci, sgusciando dentro il fabbricato in disuso da anni. Era grande, ma vuoto, per questo gli fu semplice individuare le uniche figure umane.
Quando vide John, mezzo nudo, legato ad una griglia metallica, sofferente e ferito, il suo cuore perse un battito. Ignorando nuovamente Lestrade gli era corso incontro, fregandosene di essere sulla linea di tiro dei poliziotti.
- John!! – Strillò quasi perforando le orecchie del povero dottore. Ci mise esattamente trenta secondi per dedurre in che condizioni versasse. Ingoiò rumorosamente un po’ di saliva, ricacciando indietro un conato di vomito nel vedere tutte le bruciature sulla pelle di John, in alcuni punti la carne era scavata in profondità e molto. Era in stato confusionale, come testimoniava il suo continuo sbattere le palpebre e il tremore convulso del suo corpo.
Il consulente investigativo non indossava i guanti e quando sfiorò la pelle di John, si rese conto di quanto fredda fosse. Stava andando in ipotermia.
- …lock… - biascicò, la sua voce appena udibile spiazzò totalmente Sherlock. Era la prima volta che lo vedeva così indifeso.
- Ti libero, resisti! – Prese ad armeggiare con le manette, urlando fuori di sé a Lestrade di aiutarlo immediatamente.
- Sherlock… -
- John, sono qui! Andrà tutto bene, sono qui! –
John scosse la testa e, Sherlock, intuì che stesse cercando di dirgli qualcosa di importante – John?! –
- Barry… ha un principio di infarto… aiutatelo… aiutate prima lui… - Questa volta non poté soffocare un lamento, stava agonizzando, il suo corpo era al limite eppure John continuava imperterrito a rimanere cosciente.
- Aiutatelo… - Stava per perdere i sensi, così Sherlock per evitargli ulteriori ferite, lo afferrò facendolo poggiare a lui.
Lestrade venne in suo soccorso liberando John dalle manette con delle tronchesi, permettendo così a Sherlock di farsi carico dell’intero peso del suo amico. Gli si era accasciato addosso senza reagire, come se fosse una bambola di pezza. Sherlock provò tutto un tratto un intenso istinto di protezione verso John.
Non era la prima volta ma, in questa occasione, in questo particolare momento, il consulente investigativo più famoso di Londra sentì il bisogno di proteggere John Watson come non mai. Lo avvolse in un abbraccio, facendo attenzione alle sue tante ustioni, nel tentativo di scaldarlo.
Il viso si posò sulla nuca di John, i suoi capelli odoravano di sporco e muffa, ma a Sherlock non importava. Perché poteva sentire battere il cuore di John contro il suo petto. Era vivo e questo gli bastava.





Salve a tutti! Sono lieta di presentare la mia prima (mini) long fiction su Sherlock! Saranno tre capitoli, rapidi e indolore (oddio, per John un po' meno indolore, EMH... XDD) che spero vi saranno graditi! In questo caso ho tralasciato da parte il consueto Johnlock in favore del bromance, ci tenevo a scrivere una storia di questo genere, andando a toccare tematiche più cupe e, tentando almeno, di costruire una storia il più possibile simile ad una delle puntate della serie. Spero di non essere caduta nel buco nero dell'OOC, il mio antico nemico, ma questo lo giudicherete voi lettori!  XD Ho scelto di proposito di non precisare il  momento esatto in cui si svolge questa storia, indicativamente potete considerarla un post terza stagione, ma senza Mary! Il titolo della fiction e dei capitoli, sono ispirati alla stupenda canzone The Weight of us dei Sanders Bohlke!

Questa volta ho dovuto fare a meno della mia Beta Reader di fiducia, in realtà non sono riuscita a trovarne un altra disponibile al momento, quindi mi sono arragniata da sola, chiedo scusa immensamente quindi se troverete errori o una sintassi oscena!  

Come sempre commenti, critiche e consigli costruttivi saranno ben accetti! ♥ Vi devo inoltre rassicurare che i capitoli sono già pronti e finiti, ma voglio rivederli un ultima volta prima di pubblicarli, quindi spero mi perdonerete se aggiornerò una volta a settimana! XD

Un grosso bacione a tutti, ci vediamo al prossimo capitolo!
Giò
  
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