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Autore: MisterXPaulPollo    14/04/2016    3 recensioni
Sono nato un venerdì.
Il tredici di un venerdì di Maggio, alle ore 17:00.
Ho la sfiga impiantata addosso come Wolverine l'adamantio.
Sono talmente sfigato che stamani, nel tentativo di avvelenare il latte del mio schifoso coinquilino infetto, non mi sono accorto che il figlio di puttana aveva invertito le tazze.
Risultato.
Ho avvelenato il mio latte.
La mia tazza adesso è infetta.
Il latte di riso è finito.
Oggi muoio.
Genere: Commedia, Slice of life, Triste | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
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Capitolo I
 
7/07/2014 – Londra, Hardman Rd – Ore 22:03
 
Sono un genio del male, questo dovevano ammetterlo tutti.
Anzi, erano obbligati ad elogiarmi come chissà quale divinità.
Dovevano lodarmi, anche solo per la perseveranza con cui tento ogni volta di commettere un omicidio.
Stavolta però ci sarei riuscito, questa era la volta buona me lo sentivo fin dentro le ossa. Faccio un bel respiro, controllo che il mio infallibile piano fosse ben fissato alla mano, e controllo ancora una volta fuori dal finestrino.
Trovo diletto nel dondolarmi sul sedile di quello sporco e infetto taxi. A niente mi servivano tutte le precauzioni che prendevo, se poi andavo ad infilarmi in buchi di metallo e vernice ben poco accoglienti, ma cerco di convincere il mio cervello malato che lo sto facendo per una giusta causa, perché sì, uccidere qualcuno è una giusta causa.
Rivolsi uno sguardo all'autista tipicamente inglese, impaziente di conoscere una qualsiasi destinazione, o che semplicemente mi decidessi ad uscire dal suo taxi per far salire un altro cliente. Io però non parlo, e ho provato con il linguaggio dei segni, ma quel caprone non ha idea del perché io gesticoli e, ovviamente, la sfiga aveva pensato bene di farmi perdere per strada il taccuino sul quale comunicavo con la massa ignorante.
Ovvio no?
Mi dondolo ancora per qualche istante, controllando nuovamente il coltellino che ho ancora saldamente legato alla mano destra.
Il piano infallibile.
Probabilmente la cordicella che ho usato per costruire il meccanismo mi avrebbe lasciato dei segni, che correvano il rischio di portare infezioni e che preannunciavano dolorosi momenti, ma se quella specie di assassino dei videogame ci era riuscito, perché io dovevo fallire?
Una volta compiuto l'omicidio sarei tornato di corsa a casa, e mi sarei lavato accuratamente, e poi disinfettato, e poi avrei misurato i miei valori pressori ed infine sarei andato a letto. In quel bel letto abbastanza pulito da impedirmi di prendere altre malattie. Avevo calcolato un massimo di dieci minuti, il tempo di scendere, afferrare la vittima, reciderle la carotide, e scrivere con il sangue della stessa: "Mamma guardami, ci sono riuscito."
Sì, era un piano perfetto il mio.
Perfetto sotto ogni sfumatura.
Mi gratto lievemente una guancia con la mano destra, considerandolo un brutto segno.
Una malattia cutanea.
Primo sintomo accusato, prurito.
Ricalcolo.
Una volta varcata la soglia di casa avrei acceso il computer per gettarmi tra le sapienti pagine virtuali fornite da wikipedia, poi lavato, disinfettato, misurato, e infine addormentato, ma non adesso.
Adesso dovevo pensare alla vittima.
Volto lo sguardo dietro di me, in modo da perforare lo sporco vetro del lunotto e, finalmente, come una sacra apparizione la vedo.
Eccola là.
La mia vittima.
Una semplice ragazza dai capelli color dell’ebano e la pelle olivastra.
Una preda facile facile, no?
Il mio momento di gloria infine era arrivato. Tiro indietro la lama del coltellino, in modo da poterlo sfilare adeguatamente una volta sceso dal taxi e, con un colpo secco e con quella poca forza che avevo nelle braccia, apro lo sportello della macchina. Niente può andare storto, la ragazza è proprio di fronte a me, devo solo allungare la mano e reciderle la carotide, per vederla agonizzare al suolo in un lago di sangue.
Una frazione di secondo.
Un solo ed insignificante gesto.
Allora perché la sfiga ha deciso di mettermi nuovamente i bastoni tra le ruote o, in questo caso, i marciapiedi tra i piedi?
Inciampo.
È questione di un attimo.
Vedo il marciapiede avvicinarsi sempre di più al mio corpo, e l’unica azione sensata al momento, per evitare dolorosi interventi chirurgici e costosi assegni in bianco a favore di un dentista dalla dubbia laurea e dall’ancora più dubbia igiene, è mettersi di lato e sperare di non uscirne malconcio e con qualche frattura.
Sbatto con forza contro il marciapiede, e riesco chiaramente a vedere i mozziconi di sigaretta spenti e gettati sullo stesso, ma come la scena a rallentatore di un film d’azione, i miei occhi sono ora fissi su quella fottuta cordicella che ha deciso di spezzarsi, e osservo la lama che senza tante cerimonie mi lacera un pezzo di carne del dito medio della mano sinistra.
Sangue, è solo quello che vedo.
Non la sporcizia di quel marciapiede, non la vittima che mi guarda con i suoi occhi scuri, increduli, imbambolata da questo improvviso cambio di programma nella sua noiosa routine.
Devo agire in fretta, so per certo che il sangue non si coagulerà, morirò su questo marciapiede nel tentativo di compiere un omicidio, ma non voglio morire. Non prima di averne compiuto almeno uno.
Porto la mano ferita al petto, schiudendo la bocca per urlare, per far uscire il dolore che sto provando, ma nessun suono può uscire dalla mia bocca per quanto mi sforzi.
Alzo gli occhi chiari come il cielo dell’alba, verso la ragazza, la mia vittima, l'unica in grado di tenere un telefono in mano e chiamare i soccorsi per impedire l’orribile morte del ragazzo dai capelli platino e la pelle diafana, muto ed ossuto, ma non albino. Questa era l’unica caratteristica che mi mancava.
L’unica, poiché l’autista aveva pensato bene di sparire alla velocità della luce per tenersi fuori da ogni possibile coinvolgimento.
Perché se ne sta impalata come un baccalà sottosale? Perché l’unica vittima dal quoziente intellettivo di una mosca doveva capitare a me?
Spezzo il contatto della mano buona da quella ferita e, con l'indice della mano destra, cerco di scrivere il numero del pronto soccorso su quel marciapiede sporco di sigarette, fango, acqua stagnante, sangue, ed è con quest’ultimo che scrivo sebbene la mano tremasse per il dolore acuto della gemella.
Fa male, i polmoni bruciano, quell'orribile puzzo di morte mi sta già riempiendo le narici, perché sì, io conosco il finale di questo film.
Il sangue non si sarebbe coagulato, la ferita si sarebbe infettata per colpa di quella mia irrefrenabile voglia di dimenarmi sul marciapiede infestato dalla sporcizia, e il pronto soccorso non sarebbe arrivato in tempo.
Finale drammatico ed improbabile per un normale essere umano qualsiasi, ma non per me.
Non per una persona perennemente abbracciata alla sfiga come me.
Cerco di tenere ben aperti gli occhi per poterla osservare in ogni suo gesto, nonostante i gesti frenetici del mio corpo.
Ad esempio.
Cosa sta facendo adesso?
Perché si è inginocchiata al mio fianco?
Perché diavolo continua a fissarmi come se fossi una foca in un acquario?  
Mi sta forse analizzando?
Sta forse cercando un modo per uccidermi in fretta sfruttando questa dannata ferita?
Cerco di bloccare i movimenti da crisi epilettica che mi attraversano da capo a piedi, e mi fermo ad osservarla con maggiore intensità, notando infine le dita sottili e rapide che sfiorano lo schermo touch di quel suo maledetto smartphone.
Sta chiedendo aiuto, la sua voce arriva nitida alle mie orecchie, talmente tanto che riesco perfino ad udire le risposte dall’altra parte dell’apparecchio.
Il dolore, e la speranza di veder sopraggiungere al più presto un’ambulanza, mi ha portato però ad abbassare la guardia. Povero stolto di un pollo.
La mano di quella ragazza dai capelli color dell’ebano mi sta toccando, sta toccando la mia pelle nuda e sporca di sangue, sta sicuramente cercando di contagiarmi con qualche strana malattia a me ancora sconosciuta.
Mentre gli occhi non si schiodano da quella mano dalla pelle olivastra, la mente è già all’opera nello stilare una lista completa di ogni singolo oggetto che quelle mani avevano toccato durante l’intera giornata, ma non posso urlare di terrore, non posso fare un gesto così inutile.
I pensieri si aggrovigliano, ed ogni secondo che passa è un oggetto in più che si aggiunge alla lista, ma tutto questo non basta, ad aggiungere sale sulle ferite è nuovamente lei, che si alza da terra e corre verso la busta che ha lasciato cadere al suolo per soccorrermi prima di richiedere l’intervento immediato dell’ambulanza. Torna da me con quel capo d’abbigliamento candido come la mia pelle, probabilmente una t-shirt o qualcosa di molto simile. Si inginocchia di nuovo accanto a me la mora, con quelle sue manacce sporche e quella cosa bianca poggiata sulla mia mano ferita.
Sta cercando di bloccare il sangue, non è così?
Sta cercando di aiutarmi, di salvarmi la vita.
Un momento.
Quella roba ha toccato il terreno?
È stata comprata in chissà quale negozio, e adesso ci sta avvolgendo la mia mano ferita?
No, non avrei superato la notte grazie a lei, adesso ne avevo la certezza.
Porto la mano, ormai avvolta dalla maglia della mora al petto, e scuoto più volte la testa in preda al panico, lasciando uscire il muto urlo che fino ad ora avevo trattenuto.
Non riesco neanche a sentire i miei pensieri, tanto è forte il grido da me emesso.
Voglio solo che tutto finisca alla svelta.
Fanculo i coltelli, se sopravvivo a questa notte d’inferno, la prossima volta userò del semplice veleno.
   
 
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