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Autore: Irina_89    05/04/2009    0 recensioni
Tolse il cuscino dal suo viso e lo riportò sulla poltrona, coprendolo leggermente con un altro.
Osservò, poi, il corpo scomposto dell’uomo che giaceva senza vita sul letto e si avvicinò nuovamente a lui. Lo scoprì dalle coperte, gli sistemò le gambe in posizione più naturale e rilassata, lo ricoprì e gli posò le mani lungo i fianchi, mentre il debole ma continuo suono prodotto dalle macchine che rilevavano l’assenza del battito cardiaco, lo accompagnava.
Poi uscì, chiudendosi la porta alle spalle.
“Addio, signor Rosenbaum.”
Genere: Thriller, Suspence, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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“Ehi, alzati.” Lo chiamò atona lei. La sua voce era annoiata e per niente entusiasta.

La direttrice le aveva affidato il compito di fargli vedere un minimo la città. E per giunta, aveva scoperto che dovevano andare ogni maledetta mattina allo stesso edificio per frequentare le quotidiane lezioni di inglese.

“Vattene.” La liquidò lui, girandosi dall’altra parte.

“Mi piacerebbe non sai quanto, ma ti devi alzare.” Sospirò lei.

“Allora allevia le tue sofferenze e le mie. Vattene e lasciami solo.”

“Vaffanculo!” ruggì in italiano, ed afferrò il suo cuscino, per poi tirarlo via di colpo, facendogli sbattere la testa sul materasso – un dolore assolutamente lancinante che un figlio di papà non avrebbe mai potuto sopportare.

“Che cazzo vuoi?” gridò Jacob, alzandosi su un gomito e voltando la testa verso la ragazza già vestita che stava in piedi davanti al suo letto, le mani incrociate al petto e l’aria irritata.

“Secondo te? Romperti i coglioni, no?” esclamò sarcastica lei, tirandogli pure la coperta, che fece cadere a terra insieme al cuscino.

“Perfetto, così devo cambiare le lenzuola, visto l’igiene che regna in questa cazzo di stanza.” Mormorò lui in inglese, in modo che lei potesse sentirlo senza problemi.

“Allora, maniaco dell’igiene, visto che ci tieni, alzati subito, sennò prendo il tuo spazzolino e lo ficcò nell’acqua del cesso.” Lo minacciò.

“Tu sapessi dove te lo ficco io lo spazzolino…” disse lui, alzandosi dal letto e spingendola lontano. Si stiracchiò e si grattò la testa, scarruffandosi ancora di più i suoi capelli neri già in perenne disordine.

Beatrice lo guardò andare in bagno e chiudersi la porta alle spalle.

Sospirò. Doveva per forza aver fatto qualcosa di male per essersi meritata una tale tortura. Fissò le sue coperte sul pavimento e rassegnata le raccolse, le scosse un po’ – quel poco che sarebbe bastato al principino per non morire soffocato dagli acari – e gliele rimise sul letto, insieme al cuscino.

Proprio in quel momento Jacob uscì dal bagno a torso nudo, sbadigliando. La guardò come avrebbe potuto guardare un gatto randagio e si diresse verso l’armadio, prese la sua roba e cominciò a spogliarsi.

“Almeno vattene in bagno.” Borbottò lei, sedendosi sul proprio letto, mentre lo aspettava.

Jacob roteò gli occhi esasperato, per poi lanciarle un’occhiata omicida. Afferrò con violenza i suoi vestiti e si rinchiuse in bagno.

“Ma proprio a me doveva capitare questo maniaco dell’igiene del cazzo?” mormorò in italiano, buttandosi sul letto.

Quel giorno non solo sarebbe arrivata tardi a lezione, ma sarebbe stata una giornata davvero lunga.

 

***

 

“Potresti almeno toglierti le cuffie!” brontolò Bea, fermandosi di punto in bianco, mentre il ragazzo continuava a camminare, senza degnarla di uno sguardo.

“Brutto cretino!” urlò in italiano, serrando le mani a pugno e battendo un piede per terra per la rabbia. “Ascolta!” lo rincorse, tornando a parlare inglese. “Dobbiamo fare la stessa strada tutti i giorni.” Cercò di mantenere la calma. “Quindi, potresti essere – che ne so – un po’ più amichevole?” e provò a sorridergli.

Malgrado i suoi tentativi di instaurare anche solo una minima parvenza di rapporto – non necessariamente positivo – con quel tizio, lui continuava imperterrito ad andare avanti. Non la guardò nemmeno, restando impassibile alle sue richieste.

“Basta! Ora mi ha davvero rotto il cazzo!” berciò in italiano, aumentando la velocità e superandolo. Non si fermò ad aspettarlo come aveva già fatto le quattro volte prima: a questo punto era ovvio che non era richiesta. Bene, quel cretino se la sarebbe cavata da solo. Al diavolo lui e la sua famiglia!

Quasi iniziò a correre, per poi fermarsi improvvisamente. Si voltò per vedere dove fosse il suo compagno di stanza e, non appena lo vide camminare tranquillamente per quel viale, roteò gli occhi ed incrociò le braccia.

Nonostante si fosse imposta di andarsene e lasciarlo là – da solo –, non vi riuscì. Sperò solo che la direttrice avesse capito del motivo del suo ritardo, dimostrandosi particolarmente comprensiva.

Rinunciò, tuttavia, all’idea di parlare con lui. Camminarono per altri cinque minuti nel silenzio più assoluto, arrivando all’edificio dove si tenevano le lezioni con un certo ritardo, che fece irritare la ragazza ancora di più, ma si controllò in modo da non far scoppiare la terza guerra mondiale.

“Senti,” provò ancora una volta. “Ma non vuoi parlare con me perché ti senti offeso per ciò che è successo ieri?” chiese, guardandolo negli occhi.

Lui la fissò con i suoi occhi verdi, ma non rispose. Aveva ancora le cuffie nelle orecchie e non accennava a volersele togliere.

“Ok, immagino sia un sì.” Sospirò Beatrice. “Sappi comunque che non l’ho fatto apposta. Cioè, io credevo tu arrivassi in serata, non certo nel primo pomeriggio!” si difese.

Questa volta la sua reazione ci fu, ed alzò gli occhi al cielo.

“Perché diamine voi donne non riuscite a tenere la bocca chiusa?”

Lei lo guardò interrogativa e leggermente offesa.

“Sai, certe volte gli uomini preferiscono stare nel più perfetto silenzio ed ascoltare della buona musica, che sentire le parole petulanti delle donne.”

Beatrice si sforzò di respirare profondamente, per mantenere il controllo su di sé, e soprattutto sulla sua mano, che aveva una voglia irresistibile di stringersi intorno al suo collo e farlo morire soffocato.

“Ok.” Fece lei. “Allora ritiro tutte le scuse, visto che a quanto pare non ti ho fatto niente.” E si girò “Trovatela da solo, l’aula. Ci vediamo alle due fuori da scuola per tornare al dormitorio.”

 

***

 

“Che vuol dire che hai un compagno di stanza?” chiese Camille, una ragazza francese che aveva conosciuto al corso di inglese avanzato che frequentava.

“Che la direttrice del dormitorio non aveva altri posti disponibili.” Spiegò Bea.

“E com’è?” si informò curiosa, sistemandosi meglio i capelli biondi dietro l’orecchio, per poi avvicinarsi alla sua compagna, in modo da non farsi notare dall’insegnante.

“Bè, per essere carino – lo ammetto – è carino, ma per quanto riguarda il carattere…” e fece un eloquente gesto con la mano. “All’inizio pensavo fosse un cretino, sai, quelli che devono mettere sempre bocca su tutto, ma poi, non so perché, si è praticamente trasformato nel silenzio in persona.”

“In che senso?”

“Nel senso che se parlassi ad un muro, la conversazione sarebbe più entusiasmante.” Rispose ironica la ragazza, segnandosi un appunto sul quaderno, mentre l’insegnante lanciava un’occhiata sospetta nella sua direzione.

“Ma dai, comunque, nel complesso…?”

“Nel complesso?” la guardò interrogativa. “Nel complesso mi fa rabbia, ecco.” E si stravaccò sulla sedia. “Voglio dire, non posso andare avanti con lui! Fossi almeno da sola come sempre, non sarebbe un problema: accendo la musica, leggo un libro, chiamo gli amici… ma con lui non posso fare niente. È il tipico ragazzo viziato!”

“Ma quanti anni ha, scusa?”

“Non gliel’ho chiesto, sinceramente, ma dovrebbe avere ventitré, ventiquattro anni, più o meno.”

“La tua età, quindi.”

“Bè, più o meno. Lui, però, mi dà l’idea di essere leggermente più grande, ma forse solo perché è così misterioso e -”

“Chi è che è misterioso?”

Beatrice si voltò quasi riluttante al suono di quella voce.

Anna, la ragazza svedese più troia che Beatrice – Camille concordava – avesse mai visto in vita sua, si era avvicinata a loro, stendendosi sul banco dietro di lei, lasciando che il suo grosso seno strabordasse dal misero reggiseno di pizzo rosa che aveva.

“Nessuno.” Glissò Beatrice, dandole le spalle. Se comparava il suo compagno di stanza con quella là, la loro sfida era ardua.

No, un momento. Forse Jacob non sarebbe stato così male…

“Non è vero!” si lamentò Anna. “Tu e Camille stavate parlando di un ragazzo. Vi ho sentite!”

“E allora se ci hai sentite che ce lo chiedi a fare?” chiese minacciosa Beatrice, senza nemmeno voltarsi verso di lei.

“Ma cosa -?” balbettò l’altra. “Voi… Voi non mi sopportate! Mi odiate!”

“Oddio, eccola che ricomincia.” Sospirò Camille, portandosi una mano sugli occhi.

“Signorina Berg, ha intenzione di seguire la lezione?” la riprese l’uomo calvo, guardando verso di lei con occhi minacciosi.

“Sì, scusi.” E si sedette nuovamente composta, sbuffando con aria superiore – come se importasse a qualcuno, sapere che era arrabbiata.

“Ehi, Bea,” fece Camille. “Se hai bisogno di aiuto con quel ragazzo – che ne so, se non sai dove nascondere il cadavere – chiedi pure.”

Beatrice sorrise.

“Grazie, ora però ci conviene smettere di parlare, il prof potrebbe incazzarsi sul serio.”

 

***

 

“Lasciatemi!”

“Ma figurati!” rise. “Hai rovesciato quella bibita sui pantaloni di Patrik, devi chiedergli scusa.” E la spinse contro il muro.

“Sì,” farfugliò lei, agitata. “Scusa, non l’ho fatto apposta!”

“Non era convincente, vero?” ghignò Patrik agli altri due.

“Già, dillo di nuovo.” Sorrise malvagio l’altro.

“Perché non glielo dici tu?” disse una voce alle sue spalle. “Sai, per farle vedere come si fa.” E succhiò il suo caffè con la cannuccia, mentre li guardava impassibile.

“E tu chi sei?”

“Nessuno.” Rispose il ragazzo, sistemandosi meglio gli auricolari nelle orecchie.

“Allora vattene e rimani anonimo.”

“Sai, credo che anche voi dovreste venire via con me e lasciare in pace quella ragazza.” E la indicò con il grande bicchiere di carta, preso pochi minuti prima da Starbucks, che aveva in mano.

Patrik la guardò quasi riluttante e fece segno al suo amico di lasciarla. Lei si abbassò e si liberò dal braccio che la teneva ferma contro il muro, per poi correre per il corridoio e sparire dopo una curva.

“Chi cazzo ti credi di essere?” lo spinse uno dei due ragazzi, facendolo sbattere contro il muro del corridoio. Il caffè sgocciolò dal bicchiere, macchiandogli il bordo della maglietta.

Lui guardò la macchia e poi tornò con lo sguardo su di loro. Non rispose, non era proprio un fan delle risse.

“Ehi! Dico a te!” e lo prese per il collo della maglietta, tirandolo verso l’alto.

Perfetto. Ora sì che è rovinata. Pensò sarcastico il ragazzo.

Patrik prese il posto del ragazzo che lo teneva per la maglietta, e con uno strattone gli fece cadere il bicchiere di mano, che rovesciò a terra il suo contenuto.

Jacob lo guardò minaccioso. L’aveva appena comprato, quel caffè, e ora era per terra – senza contare che era stato quasi strozzato.

“Ma non siete un po’ grandi per giocare a fare i bulli?” chiese strafottente. “Ditemi, quanti anni avete? Ventidue, ventitré?”

“Vaffanculo!” gli sputò addosso Patrik.

“Che diavolo vuoi, ora? Prendertela con me perché ti ho fatto fuggire la preda?” chiese Jakob con sguardo torvo, mentre si sfilava lentamente le cuffie delle orecchie.

“No, solo farti capire che non sei richiesto.” Ringhiò un ragazzo alto con capelli rossi e ricci alle spalle del capo. “Quindi non fare tanto il superiore.”

Jake alzò le spalle e si rinfilò le cuffie, liberandosi con uno strattone dalla presa del suo nemico.

“Sapete, vero, che questo è un edificio pubblico? Potreste passare seri problemi se scoprissero cosa state facendo.”

“Non lo scopriranno.” Ghignò ancora Patrik. “Piuttosto, cosa ci sei venuto a fare tu, qui – oltre che a rompere i coglioni a noi? Non segui neppure le lezioni!”

“Se è per questo, nemmeno voi.”

“Sivaltaa. Lähden tästä.” Disse Patrik agli altri due, lasciando che il ragazzo di prima riprendesse il suo posto.

“Pelottaako sinua?” sorrise superiore Jake.

Patrik si voltò con una smorfia sul viso.

“Tapaa Suomen?!” sgranò gli occhi, alle spalle degli altri due.

“Kyllä.” Sorrise soddisfatto il ragazzo.

I tre bulli di vent’anni si guardarono perplessi: evidentemente la loro superiorità era venuta meno, sapendo che lui non solo conosceva l’inglese perfettamente, ma anche il finlandese.

“Andatevene e lasciatemi in pace.” Ordinò Jake, togliendosi la mano del ragazzo dalla spalla.

Subito Patrik non ci vide più. Diede una spallata al ragazzo davanti a lui e nella foga, caricò un pugno.

Fu questione di attimi.

Jakob venne colpito da un pugno sullo zigomo sinistro e cascò in terra.

Gli altri due ragazzi chiesero a Patrik in finlandese se non avesse esagerato, ma lui rispose loro che per uno come quella merda lì, i pugni non erano mai abbastanza.

Si voltarono e lo lasciarono stravaccato a terra.

Dopo qualche passo, però, Jakob si alzò e corse verso il capo di quei bulli. Lo prese per una spalla e lo fece voltare, mentre gli rendeva il pugno subito.

Gli spaccò il naso e lui poté dire di essersi spaccato una nocca o due della mano.

Patrik cascò a terra, grondante di sangue. I suoi compagni, nel panico, lo presero per le ascelle e lo tirarono su, per poi portarlo via con loro.

Jake rimase a guardarli fuggire, per poi tornare sui propri passi, raccogliere il bicchiere ormai vuoto e l’i-Pod che gli era caduto. Purtroppo non sapeva dove trovare qualcosa per pulire, e sperò che il servizio delle pulizie non se la prendesse più di tanto per il caffè che avrebbero trovato.

Si rimise gli auricolari nelle orecchie, le mani in tasca, e riprese a camminare senza meta per i bianchi corridoi di quell’edificio.

 

***

 

“Ehi!” lo chiamò Beatrice.

Lui aprì gli occhi e trasalì, trovandosela davanti al naso.

“Ciao.” La salutò lui, atono. Non era che non la sopportava, semplicemente non la richiedeva in quel momento.

“Accidenti!” esclamò lei. “Cosa ti sei fatto al viso?” e posò la mani sulla ferita.

Lui strizzò l’occhio per una leggera fitta che gli provocò il tocco.

“Ah, scusa.” Ritirò la mano, lei. “L’hai disinfettato?”

Lui negò, alzandosi dallo scalino su cui si era seduto mentre l’aspettava per tornare al dormitorio.

“Ma come? Guarda qui!” si arrabbiò lei, mettendo le mani ai fianchi e guardandolo minacciosa. “Hai ancora i segni del sangue sulla guancia!”

Lui si portò una mano sulla piccola ferita, quasi come per appurare.

“Ah!” esclamò di nuovo lei.

“La fai finita di gridare, per piacere?” la riprese lui.

“La tua mano!” ed indicò le nocche.

“Cosa?” e si guardò il dorso.

“È rossa! Tanto rossa! E gonfia!” disse, leggermente agitata. “C’è stata una rissa, vero?” chiese lei, guardandolo negli occhi. Quei segni erano troppo evidenti. Quando era più piccola, spesso anche lei era solita entrare in risse con il solo scopo di difendere chi veniva maltrattato. Un gesto assurdo, certo: il più delle volte la sua presenza era inutile, e le uniche cose che otteneva erano lividi e graffi – se non ferite, proprio come quella di Jacob sul viso.

Lui scosse le spalle e si riguardò la mano. Non gli faceva nemmeno più troppo male. All’inizio, sì, gli pulsava parecchio, ma con il passare delle ore, aveva smesso.

“Non te lo chiedo nemmeno, se c’hai messo del ghiaccio sopra, perché so già che non l’hai fatto, vero?”

Lui sospirò.

“Che palle. Se volevo una badante mi portavo la signora che lavora in casa mia.” Ed afferrò la tracolla, mettendosela su una spalla.

“Wow! Hai persino una badante! Ecco perché sei così viziato!” l’accusò lei.

“Ehi! E questo complimento a cosa lo devo?” replicò lui, stizzito.

“Perché, non credi di essere viziato?” le fece notare.

“Per niente. Anzi, mi sembra di essere anche molto riservato.” E si incamminò, voltandosi per anticiparla.

“Che c’entra con l’essere viziato, scusa? E comunque, il dormitorio è dall’altra parte.” E si indicò alle spalle.

Lui sbuffò e si girò verso di lei, guardandola truce. La superò e andò avanti.

“Ehi, aspettami, che sennò ti perdi.” Ridacchiò, raggiungendolo a corsa. “A parte gli scherzi, fermati e fammi vedere il viso, dai.” Disse, sfilando, intanto, dalla tasca un pacchetto di fazzoletti di carta. Ne prese uno e lo spiegò, pronta a sputarci dentro.

“Ehi! Ma che cazzo fai?” chiese allarmato. “Non vorrai mica appiccicarmi la tua bava al viso!”

“Non ho acqua dietro – l’ho finita tutta – e poi la saliva penso disinfetti, no? Se preferisci, sputaci tu, almeno è la tua saliva, quella che ti spalmerò sul viso.” Sorrise divertita.

Lui roteò gli occhi e poi aprì la tracolla. Prese una bottiglietta d’acqua e bagnò il fazzoletto, prendendolo dalle mani della ragazza.

“No, vieni, faccio io.” Propose Bea, allungando una mano verso il fazzoletto.

Lui si allontanò da lei e si posò il fazzoletto sulla guancia.

“Non fare il cretino! Non ci vedi, come puoi pulirti?” e gli si avvicinò, strappandogli il fazzoletto di mano.

Lui sbuffò, rimise la bottiglietta nella borsa e si appoggiò con la schiena al muro che aveva vicino. Chiuse gli occhi e tirò la testa indietro, appoggiando anche quella al muro.

“Ok, però fai presto.” Accettò. “E sii delicata!” precisò.

“Solo per questo, mi verrebbe voglia di fare tutt’altro, sai?” e si avvicinò a lui, posandogli il fazzoletto sulla ferita. Prima tamponò un po’, provando a pulire la pelle senza dover strusciare, ma il sangue in alcuni punti era secco e lei dovette premere per pulirlo.

“Ahia!” si lamentò Jake, strizzando gli occhi.

“Scusa.” Una volta finito il lavoro, la ragazza si permise di osservare quel ragazzo che sembrava, già dal primo giorno in questa cittadina sperduta, aver fatto una strage tra la popolazione femminile. E dire che l’età media era ventiquattr’anni, non erano più adolescenti!

A lei, però, non aveva fatto questo effetto. Certo, confermava che non era brutto, anzi, ma lui non le provocava strane fitte allo stomaco, come dicevano le altre. Forse questo era dovuto al fatto che con lei l’approccio era stato decisamente diverso.

Lasciò gli occhi liberi di vagare sul suo naso fine, leggermente aquilino, ma la gobbetta era praticamente impercettibile da lontano. La pelle era perfetta. Liscia, nessun segno di un qualche acne giovanile… bella. Aveva sul mento qualche pelo di barba incolta, che gli conferivano quell’aspetto un po’ trasandato, ma anche un certo stile. Stile dovuto anche ai capelli neri che teneva né corti né lunghi, ma in disordine. Sembrava non se li tagliasse da qualche mese.

Si soffermò sulle labbra. Le labbra erano una parte del corpo che lei guardava spesso in una persona. La maggior parte delle volte, si ritrovava a fissare le labbra – e non gli occhi – quando parlava con qualcuno. Dai movimenti, dai sorrisi… lei era convinta di poter capire molte cose sulla gente.

Purtroppo, con Jacob questa cosa non valeva. Già era tanto se chiacchierava per farle dei commenti sarcastici… Sembrava un tipo cupo, decisamente misterioso. Pareva dovesse sostenere un peso troppo grande per lui. Tuttavia, forse per non deludere delle aspettative, non si lamentava e per evitare che questo potesse succedere, non parlava. Si limitava a semplici risposte.

Nonostante tutto, le sue labbra erano belle. Anche se non si aprivano mai in un sorriso, lei le trovava belle. Non erano carnose, certo, ma erano ben delineate. Avevano un colore delicato, ma deciso.

“Hai finito?” la richiamò lui.

Lei trasalì, allontanandosi con un salto da lui e portandosi la mano al petto, quasi fosse stata scoperta a fare qualcosa di vietato. Oddio, si era appena messa ad osservare il suo – insopportabile – compagno di stanza senza il suo permesso… poteva, forse, essere preso come un atto di violazione dei diritti altrui o roba simile?

Il cuore le batteva forte nel petto e Beatrice dovette respirare a fondo almeno tre volte, prima di riprendere un minimo controllo.

“Sì…” farfugliò.

Lui si portò la mano sulla ferita, sentendosela più fresca e pulita.

Guardò la ragazza e fece ciò che Bea mai si sarebbe aspettata. Sorrise.

Un sorriso breve, fugace, quasi invisibile. Come se volesse ringraziarla senza doverlo ammettere. Per un attimo la ragazza si domandò se veramente lui avesse sorriso. Eppure sì, le aveva appena sorriso. Chissà se lui se ne era accorto…

Chiuse gli occhi e li riaprì.

Jacob era ancora davanti a lei, ma con uno sguardo impassibile e le labbra serrate come sempre.

No. Assolutamente no. Non poteva averle sorriso.

“Se hai finito i tuoi comodi, io proporrei volentieri anche di tornare al dormitorio. Ho fame.”

“Ok.” Rispose la ragazza, incamminandosi verso l’edificio, seguita da Jacob.

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Riconosco che questo capitolo ha ben poco di thriller, ma è importante - come altri - per capire i personaggi nei loro pensieri, azioni, ecc... e anche i vari rapporti che si vengono a creare tra di loro.

Bè, ringrazio AhiUnPoDiLui che ha recensito lo scorso capitolo. Ovviamente non posso rispondere alle tue domande, sennò che senso avrebbe portare avanti la storia?=P Comunque mi fa piacere sapere che al momento la storia non ti dispiace!^^ Spero di non deluderti in seguito...

E detto queste tre misere righe, sparisco per non si sa quanto.

Al prossimo aggiornamento!

Ps: ribadisco che i commenti non li disprezzo minimamente!xD

_irina_

  
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