Anime & Manga > Uta no Prince-sama
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Autore: Starishadow    17/04/2016    1 recensioni
Era in una spirale che procedeva inesorabilmente verso il basso, costantemente bloccato fra ciò che era stato e ciò che stava diventando, e la paura di tornare indietro era sempre più forte di quella di ciò che lo aspettava, così continuava a proseguire.
Lentamente smise di guardarsi indietro.


[Otherverse: videogioco] [pre-serie]
Genere: Angst, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Aine Kisaragi
Note: Otherverse | Avvertimenti: Tematiche delicate
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«Oh, dai, è solo una canzone!».
L’inferno personale di Aine era iniziato con quelle parole. Perché, in fondo, che male poteva fare solo una canzone?
«Mi spiace, non vendo il mio talento in cambio di soldi facili».
Aveva scelto le parole sbagliate, ne era consapevole, ma non dormiva da quasi un mese, mangiava a stento da altrettanto tempo, aveva litigato con il suo più vecchio amico - nonché compositore - da meno di trentasei ore, e adesso un branco di manager-avvoltoi gli aveva appena chiesto di raggiungere un pubblico più vasto riadattando la sua ultima canzone, alla quale teneva particolarmente dato che per la prima volta aveva parlato di se stesso e non di chiunque altro.
Peccato che il loro concetto di “riadattare” combaciasse con il suo di “rovinare”.
«Ah, ve l’avevo detto! Sono tutti uguali! Raggiungono un po’ di successo e si montano la testa», commentò una delle donne presenti alla riunione. «Non ci serve un altro ragazzino viziato qui dentro», aggiunse pungendolo nel vivo.
«Con tutto il dovuto rispetto, qui gli unici bambini viziati siete voi», replicò l’idol alzandosi con un sospiro sotto lo sguardo inorridito del suo manager (che - testuali parole - aveva sputato sangue per ottenere e riuscire a fissare quell’incontro). «La mia canzone è così come l’avete sentita e piace alle mie fan, il che è l’unica cosa che mi interessa; se a voi questo non basta, se volete stravolgerla per ottenere più soldi da spartirvi, beh, potete ben notare che non sono io quello capriccioso».
Aveva parlato con calma, mantenendo un tono distaccato e garbato, ma alcuni degli adulti lì presenti avevano la stessa espressione che avrebbero avuto se si fosse messo a bestemmiare.
«Piccolo moccioso insolente!», sbraitò la donna di prima, sistemandosi i suoi piccoli occhialetti in bilico sul naso lungo e affilato come il suo viso prima di balzare in piedi e pararsi davanti al ragazzo, puntandogli contro un dito e usandolo poi per colpirlo nel petto - Aine nutriva il sospetto che all’altra non sarebbe dispiaciuto avere un coltello al posto di tale dito.
«Per te è solo un gioco?! “Basta che piaccia alle fan”!  Ma dove vivi, ragazzino? Credi che a loro importi qualcosa di te? Se i tuoi soldi bastano per pagare tutte le tue spese del divorzio, o per l’estetista, o per le bollette o le lezioni di danza delle tue sgraziate e imbranate figlie?! No! A loro non importa e a te non deve importare di loro!».
Era sorprendente che ancora non  le facesse male il dito per quante volte l’aveva affondato nel petto di Aine, che ora era decisamente seccato; le afferrò bruscamente il polso e le piantò gli occhi in viso, il celeste delle sue iridi ora gelido e tagliente come il ghiaccio.
«Cortesemente, non sfoghi su di me le sue frustrazioni domestiche, lo trovo ben poco professionale. Se lei ha tanto bisogno di soldi, vada a guadagnarseli da sé, senza fare la parassita sui sogni degli altri», con quelle parole fece un cenno al suo manager che si alzò rassegnato e si diresse con aria di scuse verso la porta. «La canzone non si cambia. Se la volete, tenetela, altrimenti trovatevi un altro idol».
Detto ciò lasciò il polso della donna e marciò fuori dalla stanza, dritto fino alla macchina ferma ad aspettare.
Solo una volta al sicuro dentro di essa si concesse un lungo sospiro rassegnato e, fatti calare degli occhiali da sole scuri sopra gli occhi, di abbassare le palpebre.
«Aine, per l’amor del cielo, che cosa ti è saltato in mente?!», esclamò il suo manager, facendosi cadere sul sedile accanto a lui mentre l’autista metteva in moto e partiva. Il poveretto si era trovato sempre più spesso a fronteggiare scene simili, e più l’umore di Aine si incupiva, più lui si disperava: aveva un debole per quel ragazzino tanto geniale quanto folle e testardo, non poteva negarlo, e ciò lo costringeva a preoccuparsi e agitarsi ad ogni sua nuova stranezza.
Agitarsi era la sua caratteristica principale: era un uomo stempiato e non troppo alto, costantemente in fibrillazione per qualcosa: stare fermo gli risultava impossibile. Persino in quel momento, seduto in macchina, continuava a tamponarsi la fronte e il collo con un fazzoletto.
«Li hai sentiti, no? Hai sentito cosa volevano fare alla mia canzone», rispose Aine, tirando fuori il cellulare e cominciando a controllare e-mail e messaggi.
Intimamente sperava di vedere qualcosa che venisse da Kei, ma l’altro ragazzo ancora si ostinava a tacere.
«Li ho sentiti, li ho sentiti, ma ho sentito anche te. Avevi davvero bisogno di trattare in quel modo quella povera donna?».
«Povera donna? Lei mi stava pugnalando con un dito!», il tentativo di fingersi offeso e ferito fallì miseramente: ormai per quanto si sforzasse, il ragazzo non aveva più forze o pazienza per impegnarsi seriamente in qualcosa.
Era già troppo occupato a fingere di stare bene.
«Ok, ok. Ma riesco a vedere che c’è qualcosa che non va, Aine, ormai ti conosco da quattro anni. È per quello che è successo con Onpa-kun?».
La menzione dell’amico fece irrigidire l’idol, che si voltò dalla parte opposta al manager per posare la fronte al finestrino e fingere di fissare distrattamente fuori.
«Sì», mentì flebilmente. Dopotutto era una bugia solo in parte.
Che bisogno c’era di dire che quella era solo una delle tante cose che lo tormentavano da qualche tempo, dopotutto?
«Vedrai che si riaggiusterà tutto», tentò di dire il manager, poco convinto. Aveva sentito parte della litigata - non origliato, ma sentito, nel senso che i due avevano urlato tanto da poter essere uditi dall’altra parte dell’appartamento - e sapeva che sarebbe stato difficile per i due poter ricominciare come se nulla fosse mai accaduto.
«Certo», mormorò Aine, chiudendo nuovamente gli occhi e dando un taglio alla conversazione.
L’uomo rimase ad osservarlo ancora un po’, leggermente accigliato: da un po’ di tempo aveva intuito che qualcosa non andava, c’era qualcosa nell’atteggiamento del ragazzo che era cambiato drasticamente. Non solo aveva cominciato a rispondere male o acidamente ad alcuni suoi superiori, ma sembrava cercare continuamente di isolarsi, lentamente spingendo via tutti, in un modo o nell’altro. Gli erano rimasti solo i suoi tre migliori amici, quelli con cui aveva frequentato l’Accademia e con cui aveva vissuto nel Master Course, e anche con loro le cose non andavano bene. Certo, il distacco da Hibiki non era stato volontario, l’altro ragazzo semplicemente era scivolato lontano da tutto e tutti per chiudersi nel suo dolore dopo la morte del ragazzo che amava, e per quanto continuasse a ridere con gli altri e a stare con loro, tutti sapevano che una parte di lui non era veramente presente; poi c’era Reiji, la nota dolente per Aine, l’argomento da non trattare mai e sempre allo stesso tempo con lui. I due erano amici e amanti, per quanto si ostinassero a non dichiararlo apertamente, ma fra loro esisteva anche una sorta di competizione derivante dall’essere entrambi idols: Reiji si preoccupava per Aine e viceversa, ma ultimamente gli impegni di entrambi erano aumentati tanto da impedire loro di passare insieme quanto tempo desideravano, e nessuno dei due sapeva bene come gestire la situazione; questo rendeva la loro relazione burrascosa, piena di alti ma anche bassi, momenti in cui entrambi sembravano toccare le stelle e altri in cui ognuno dei due rifiutava di parlare con chiunque, tantomeno l’altro.
E poi c’era Kei. Lui e Aine erano cresciuti insieme, avevano condiviso tutto, erano entrati nel mondo della musica insieme e formavano una delle migliori coppie compositore-idol di sempre, ma ogni medaglia ha il suo lato nascosto, e così era anche per la loro relazione: Kei era da sempre innamorato di Aine. Aveva coltivato quel sentimento silenziosamente e timidamente, impegnandosi a far sì che l’altro non ne venisse mai a conoscenza. Era cosciente del fatto che Aine non l’avrebbe mai ricambiato, sapeva che l’altro amava Reiji e l’aveva accettato, ma a suon di tenerselo dentro, quel sentimento l’aveva logorato al punto da impedirgli di continuare a interagire con Aine senza che l’altro sapesse nulla.
Così erano arrivati alla lite di poco tempo prima, la peggiore che avessero mai avuto, in cui entrambi avevano detto cose di cui si erano pentiti nell’istante in cui le parole abbandonavano le loro labbra, ma con la consapevolezza che nessuno dei due si sarebbe mai rimangiato anche solo una virgola di tali frasi. E Kei se ne era andato, aveva voltato le spalle ad Aine dicendogli di trovarsi un altro compositore, di conseguenza uscendo sbattendo la porta dietro di sè.
Ora Aine sapeva che Kei lo amava, ora Kei sapeva che Aine non aveva mai capito i suoi sentimenti, e che non poteva ricambiarli. Se anche il compositore avesse scelto di tornare, le cose non sarebbero mai state come prima, ed entrambi lo sapevano.
«Hai un incontro con un altro produttore», mormorò il manager dopo svariati minuti di silenzio, la voce bassa ed esitante. Sapeva che l’altro era esausto, la scenata di poco prima era servita solo a provarglielo, e si sentiva quasi in colpa ad avergli fissato tanti impegni così ravvicinati. «E quella cena di beneficenza stasera», aggiunse.
“Perfetto”, pensò Aine, continuando a tenere gli occhi chiusi.
«Stasera volevo cenare con Reiji…», si azzardò a sussurrare, prima di staccare la fronte dal finestrino e sorridere all’uomo. «Ma non importa, ci sarò».
«Mi dispiace, Aine».
Il rammarico era evidente negli occhi del manager, mentre l’espressione di Aine - complici gli occhiali - era illeggibile.
«Ma figurati! Sapevo a cosa andavo incontro scegliendo questo lavoro, sai?», si sforzò di ridere e sembrare vivace come suo solito, notando con una fitta di dolore che quattro anni prima, appena entrato in quel mondo, non avrebbe dovuto sforzarsi. Tutto era nuovo, luminoso, lui era pieno di sogni e speranze, i suoi amici erano al suo fianco… quand’era che tutto aveva iniziato a cambiare? Quando aveva perso quella parte così importante di sé che non smetteva di trovare il bello in ogni cosa, che lo incoraggiava ad uscire dal letto e affrontare la giornata con la musica e un sorriso?
“Sapevo a cosa andavo incontro scegliendo questo lavoro”, ripensò, abbassando lo sguardo sulle sue mani posate sulle sue ginocchia. “Lo sapevo davvero?”

«Ne-ne!!», lo salutò la voce di Reiji nel momento in cui entrò nella sua camera, e Aine poté letteralmente sentire il sorriso che c’era sulle sue labbra prima ancora di vederlo.
«Che ci fai ancora sveglio?», chiese a voce bassa, camminando verso di lui e praticamente buttandosi fra le sue braccia, appoggiando la fronte sulla sua spalla e sospirando, finalmente lasciando cadere la facciata di forza e vitalità che aveva tenuto addosso tutto il giorno.
«Ti aspettavo», replicò tranquillamente l’altro, portando le braccia attorno all’altro, stringendolo e sorreggendolo al tempo stesso. Avrebbe voluto fare una delle sue solite battute e strappargli una risata, ma qualcosa nel modo in cui Aine si era abbandonato in quel modo contro di lui e il fatto che poteva sentire le ciglia dell’altro sfiorargli la pelle nuda della spalla ogni volta che chiudeva gli occhi e impiegava svariati secondi a riaprirli gli fece cambiare idea. «Andiamo a nanna, che ne dici?», sussurrò, portando una mano ad accarezzare i capelli dell’altro, sorridendo leggermente quando lo sentì annuire. «Mi auguro che tu abbia mangiato, stasera», aggiunse mentre lo aiutava a raggiungere il letto e liberarsi dei vestiti, fingendo di non notare quanto fosse diventato esile e come sembrasse tremare sotto il suo sguardo.
«Era una cena per beneficenza in una mensa per persone con difficoltà economiche, Reiji», replicò l’altro infilandosi rapidamente la maglia del pigiama. «Sarebbe stato scortese non mangiare».
Reiji sorrise a quelle parole: era tipico di Aine rinunciare praticamente a qualsiasi pasto, per quanto chiunque si sforzasse di fargli ingoiare almeno un paio di bocconi, ma costringersi a mangiare davanti a persone meno fortunate di lui per non sembrare un ingrato.
«Bene, almeno una cosa è andata bene», commentò Reiji, stiracchiandosi e soffocando uno sbadiglio. «Ora mi impegnerò a farti fare una bella dormita e almeno per oggi avrai compiuto un po’ delle funzioni vitali che dovresti fare sempre. E spesso».
Usava un tono leggero e sorrideva nel dirlo, ma era realmente preoccupato per l’altro; non gli piaceva la frequenza con cui si dimenticava di mangiare o dormire, e meno ancora gli piaceva la mancanza di luce nei suoi occhi, ma non voleva confrontarlo apertamente: conosceva Aine, e sapeva che ogni tentativo di insistere con lui avrebbe portato solo ad un’ulteriore chiusura a riccio da parte dell’altro, e poi ad un’esplosione di grida e insulti che non avrebbero fatto bene a nessuno dei due.
«Ok, ok, come dici tu», sorrise leggermente Aine alzandosi e dirigendosi verso il bagno: non aveva le forze di opporsi all’altro. «Per caso… uhm… hai sentito Kei?», chiese dopo un po’ di tempo, mentre si stropicciava un occhio e rientrava nella stanza, il suo patetico tentativo di suonare indifferente fallito completamente.
«No, Ne-ne, mi dispiace».
«Ok. Non… non importa», per quanto continuasse a ripeterselo,non riusciva a convincere nemmeno se stesso. «Spegni tu la luce?», chiese prima di lasciarsi cadere sul letto dell’altro senza troppi complimenti.
«Basta che tu non mi occupi tutto lo spazio, brutto egoista!», ridacchiò Reiji cercando di rendere meno cupa l’atmosfera, sorridendo quando l’altro rotolò sul fianco e gli lasciò un angolino minuscolo.
Più tardi, quella notte, Aine era ancora sveglio, benché immobile, con Reiji stretto a sé che ormai dormiva profondamente. Non era raro che non riuscisse a dormire, sebbene la presenza dell’altro ragazzo aiutasse a rendere le ore di veglia meno spaventose, ma quella notte in particolare un pensiero continuava a martellare nella sua testa.
“È solo una canzone”.
Non era sicuro del motivo per cui continuava a pensarci, perché quelle parole l’avessero sconvolto tanto era un mistero, eppure erano lì, impresse nella sua memoria.
Dal momento che Morfeo sembrava aver deciso di snobbarlo anche quella notte, si allungò leggermente per recuperare il cellulare del suo comodino, senza preoccuparsi più di tanto di non svegliare Reiji - tanto nemmeno un’esplosione ci sarebbe riuscita - e una volta preso aprì i messaggi, mordendosi le labbra. Non era sicuro che fosse la cosa giusta da fare, ma non riuscì a impedirselo.
Più tardi avrebbe deciso di dire che era stata la mancanza di sonno a farglielo fare, se qualcuno avesse mai chiesto spiegazioni al riguardo.

A: Kikun
Per quello che vale, non penso le cose che ho detto. Mi dispiace

In particolare si riferiva al “tanto non ho bisogno di un compositore come te, ne posso trovare mille altri migliori”. Sentiva il forte impulso di mordersi la lingua ogni volta che ci ripensava, e fu proprio il sapore metallico del sangue che, invadendogli la bocca, gli rivelò che l’aveva effettivamente appena fatto.
“Bleah”.
Sussultò di sorpresa quando il suo cellulare vibrò con una risposta.

Da: Kikun
Tutto qui quello che hai da dire nel cuore della notte? Va’ a dormire

A: Kikun
Ci sto provando. Kei davvero, mi dispiace! Non è vero che ne posso trovare mille altri migliori di te, così come non sono vere le altre cose che ho detto

Da: Kikun
Che c’è, Kisaragi? Non sei riuscito a trovare qualcuno che mi sostituisse e vogliono già una nuova canzone?

Perché doveva fare così? Con un verso di stizza, il ragazzo spense il cellulare e lo lanciò lontano da sé, verso il suo letto.
Non gli importava nulla se il produttore che aveva incontrato quel giorno voleva un nuovo album in tempi record, non era per quello che aveva bisogno di Kei.
Dopotutto, quello che quell’uomo gli chiedeva era solo una canzone: avrebbe potuto chiedere al compositore di Reiji o a qualche amico di Hibiki - anche se avrebbe preferito di gran lunga chiedere allo stesso Hibiki, ma rispettava la sua decisione di non comporre più e, in tutta onestà, non voleva disturbarlo più del necessario.
Non erano le canzoni il problema, non era la musica.
Era che gli mancava il suo migliore amico, quello che c’era sempre stato per lui, quello su cui aveva sempre fatto affidamento; era stato un idiota a non accorgersi dei sentimenti dell’altro, e si odiava per averli calpestati così tante volte da fargli chissà quanto male.
Avrebbe voluto saperlo prima, così da evitare tre quarti delle cose che aveva fatto.
Non riusciva ad immaginarsi senza di lui, per quanto indietro andasse con la sua memoria, Kei c’era sempre stato.
Tornò a guardare il cellulare, ormai troppo lontano da raggiungere senza alzarsi, e poi spostò lo sguardo su Reiji, l’espressione serena sul suo viso e i capelli castani scompigliati sul suo capo. Buffo come, ancora una volta, fosse lui a dividerlo da Kei, anche se involontariamente.
«Scusami», sussurrò prima di premere le labbra contro la fronte dell’altro, leggermente, e districarsi delicatamente dalla sua presa, sospirando di sollievo quando la reazione fu un leggerissimo mugolio di protesta ma niente di più. Corse verso il cellulare e lo riaccese, sgattaiolando verso il balcone e andando a sedersi sulla balaustra come suo solito.
Trovare due messaggi lo sorprese leggermente, specie quando uno dei due segnalava che Kei aveva tentato di chiamarlo.

Da: Kikun
Avevo pensato che volessi scusarti e iniziavo quasi a sentirmi in colpa, ma a quanto pare devi aver trovato qualcosa di meglio da fare che ti ha costretto a spegnere il telefono.

“Io lo strangolo”, pensò Aine prima di colpire con ferocia il tasto di chiamata e portarsi il telefono all’orecchio. Non era possibile che l’altro fosse così permaloso (anche se lui in effetti aveva ben pochi diritti per dirlo).
«Sono le 3 di mattina, Kisaragi».
«Avevo spento il cellulare solo perché tu stavi dando risposte di merda, Onpa».
Beh la conversazione iniziava sotto i migliori auspici.
«Senti, dimmi cosa vuoi e chiudiamola qui».
Beh, almeno non gli aveva riattaccato il telefono in faccia… Era un buon inizio, più o meno.
«Scusarmi. Tutto qui, sul serio. Non mi interessa se vorrai comporre ancora per me o meno, non mi interessa se vuoi andare per la tua strada, ma… n-non chiudermi fuori come se fossi un estraneo, non dopo che siamo amici da quando eravamo bambini, io…», non era mai stato bravo a chiedere scusa con le parole, di solito si limitava a mormorare uno “scusa” con il capo chino e ad abbracciare l’altra persona, o a porgerle la mano con un sorriso di scuse, raramente era costretto a parlare.
Kei rimase in silenzio per diversi minuti, minuti in cui più di una volta Aine pensò di essere sul punto di cadere dalla balaustra per quanto si agitava.
«Scusami anche tu», disse infine l’altro, con voce ferma. «Non avrei dovuto dirti quelle cose nemmeno io».
«No, no! Insomma, me le meritavo… un buon 85 percento almeno, anche 90, dai», si affrettò a dire Aine, il suo istinto di compiacere l’altro pur di non litigarci ancora già in azione, tentando di usare un tono abbastanza scherzoso, il sollievo tale da portargli finalmente un sorriso alle labbra.
«Ma non mi rimangio quello che ho detto sui miei sentimenti».
Il nodo che si era appena allentato nello stomaco di Aine tornò a formarsi, più forte di prima.
«Kei…».
«Lo so, Aine. Ami Reiji, ne sei sempre stato innamorato e lo so, ma non posso cambiare idea. Non posso fare nulla! Non ti imporrò niente, rimarrò nelle retrovie come sempre».
«M-Ma così finirai col farti del male».
Una risatina giunse dall’altro capo del telefono.
«Ci sono abituato, Aine. Ormai non fa più così tanto male».
L’idol rimase in silenzio a mordicchiarsi il labbro inferiore, maledicendo la sua stupidità: se avesse notato prima i sentimenti del suo migliore amico, forse sarebbe riuscito a risparmiargli un po’ di sofferenza.
«Mi dispiace», sussurrò ancora, chinando il capo.
«Anche a me. Ma non importa… vai a dormire ora, che fra poco devi alzarti».
Una piccola risatina, poco convinta, abbandonò le labbra di Aine.
«Non vuoi augurarmi la buongiornotte?», ghignò.
«Cielo, speravo di rimuovere certi ricordi, Aine!», c’era una risata anche nelle parole dell’altro, il che era un bene.
«Te lo rinfaccerò sempre, è inutile che tenti di rimuovere», promise.
Continuarono a parlare ancora un po’, prima di salutarsi definitivamente e tornare nei loro letti.
Con enorme sollievo di Aine, Reiji era ancora profondamente addormentato quando si lasciò scivolare fra le lenzuola vicino a lui, ma fu rapido a tornare a rotolargli addosso e stringersi a lui.
Era ormai l’alba, ma finalmente Aine riuscì a prendere sonno rapidamente
Poco sapeva che le nottate tranquille si sarebbero concluse con quella.

Cinque mesi dopo
«Un altro flop, Kisaragi! Un altro album che ha venduto solo qualche decina di copie, e probabilmente le ha comprate tutte tua madre!».
Aine sussultò violentemente a quelle parole, fissando negli occhi il suo nuovo manager, che della bontà dell’altro aveva ben poco.
«Ne dubito, signore», mormorò abbassando lo sguardo. «A meno che nell’aldilà non vendano i miei dischi», specificò.
Questo non fece nulla per zittire l’altro, che tornò a sbraitargli contro che non gli importava nulla della sua vita da piccolo orfano e che se non avesse prodotto un cavolo di album in grado di ricavare più guadagno di tutte le loro spese, non ci avrebbe pensato due volte prima di abbandonarlo al suo destino e andare a lavorare per qualcuno più promettente di lui.
«Cosa vuole che faccia?», chiese allora il ragazzo con tono incolore, ormai rassegnato.
«Scrivi una canzone che piaccia! La tua vecchia roba non va più bene, non interessa più! Io voglio che tu non raggiunga solo le tue vecchie fan, voglio un pubblico nuovo, fresco! Non possiamo più mirare alla fascia dai diciassette ai venticinque anni! Il futuro sono le undicenni, dodicenni, tredicenni! Avrai pure qualche pezzo che parla di amore in un modo che sia chiaro a loro!», sbottò l’uomo, al che Aine incrociò le braccia sul petto e lo fissò con un sopracciglio inarcato:
«Sono piuttosto sicuro che le canzoni Disney abbiano già quanto lei richiede, signore».
Di nuovo, brutta scelta: il manager gli mise le mani sulle spalle e lo scrollò bruscamente, aumentando l’insofferenza dell’idol.
«Scendi dal tuo piedistallo, Kisaragi! Non siamo qui per fare musica per amore della musica! Siamo qui per guadagnare! E non arricciare il naso in quel modo, tu potrai voler essere solo un artista, ma i soldi non piovono dal cielo, e ora che tuo zio ti ha buttato fuori di casa, devi iniziare a preoccuparti anche di questo!».
Aine distolse lo sguardo, perdendosi a fissare il cielo fuori dalla finestra. Su quello aveva ragione: per quanto detestasse ammetterlo, non poteva più permettersi di cantare per pochi, aveva bisogno di soldi, e per quanto ancora ne avesse abbastanza per vivere dignitosamente, aveva paura di cosa sarebbe successo quando quei soldi che aveva ancora da parte fossero finiti.
Ma scrivere musica commerciale, per il bene del denaro e non di se stesso e del pubblico…
«Non posso farlo», disse infine con voce triste, tornando a guardare l’uomo davanti a sé. «Non è che non voglio, semplicemente non ci riesco. Non riesco a scrivere una canzone come piacerebbe a lei e al suo pubblico di undicenni… non è nelle mie corde, non mi viene in mente nessun testo…», tentò di giustificarsi, ma tutto ciò che ottenne fu un’ulteriore sfuriata e l’ordine di portare almeno tre nuove canzoni entro la fine della settimana successiva, poi fu congedato bruscamente.
“Riesco a malapena a scrivere ancora per me, come posso fare quello che mi chiede lui?”, si chiese mentre si infilava in un taxi e dava l’indirizzo di casa di Reiji, ringraziando il cielo che il suo ragazzo gli avesse chiesto di convivere subito dopo che suo zio l’aveva sfrattato da casa sua.

A: Kei
Come scrivo 3 canzoni commerciali entro settimana prossima?

Lui e il compositore avevano fatto pace dopo la loro grande litigata, e ora erano in buoni rapporti. Ma qualcosa era cambiato fra di loro, lentamente, senza che lo notassero: un giorno Aine aveva smesso di chiamare Kei con il soprannome che gli aveva dato anni e anni prima, “Kikun”, e Kei non se ne era nemmeno accorto, era stato quella sera che entrambi l’avevano realizzato, e per quanto ad entrambi facesse male quell’allontanamento, non avevano avuto il coraggio di affrontare l’argomento.
Kei aveva paura di perdere definitivamente Aine, e Aine… in realtà lui era solo stanco.
Aveva lottato con il fatto che suo zio non tollerasse la sua relazione con Reiji, con i suoi produttori che volevano sempre di più, con la sua musica che cominciava a piacergli sempre meno, con Reiji che gli sembrava sempre più lontano e concentrato sul suo lavoro, non aveva avuto la minima voglia di cominciare anche a scavare a fondo nel suo rapporto con Kei
Si parlavano, si vedevano, scherzavano e non litigavano, e tanto gli bastava. Era semplice, era l’unica cosa semplice da fare, e così nessuno dei due aveva sollevato la questione. Se a uno dei due mancava la loro vecchia amicizia, nessuno ne fece mai menzione.

Da: Kei
Non lo fare. Non reggeresti

Non era del tutto sicuro se l’altro fosse serio o meno, così aspettò prima di rispondere e si limitò a mandare lo stesso messaggio anche ad Hibiki, col quale lentamente aveva ricominciato a parlare di musica e che si era offerto di aiutarlo quando necessario, pur continuando a rifiutarsi di comporre o toccare uno strumento musicale.

Da: Hibi
Tu? Non ci riusciresti nemmeno in 3 anni, Aine-chan, la roba commerciale non fa per te .-.

“Su questo ha ragione”, pensò tristemente Aine, prima di rispondergli.

A: Hibi
Se ipoteticamente parlando non avessi scelta?

L’altro non rispose per un po’, solo quando il taxi si fermò e lui iniziò ad armeggiare con la serratura della porta di casa - perché Reiji non si decideva a farla sistemare? - il cellulare gli segnalò l’arrivo di un messaggio.

Da: Hibi
Per come sei fatto tu, che scrivi e canti per te, sarà doloroso e snervante. A nessuno che ama la musica piace fare musica per i soldi. Sinceramente preferirei che rifiutassi, ho paura di quello che potrebbe farti.

“Oh andiamo, ora esagera!”, sbuffò Aine richiudendo la porta e annunciando il suo ritorno alla casa deserta: come aveva sospettato, Reiji non c’era. “Dopotutto è solo una canzone. O tre”.
Ignorando l’avvertimento di Hibiki, tornò a rispondere a Kei:

A: Kei
Non posso non farlo, ora mi dici come?

Da: Kei
Non ne sono sicuro, ma prova a pensare alle canzoni che detesti di più e ispirati a quelle.

Beh, era incoraggiante.
Recuperando dei fogli e il pianoforte, Aine tentò di mettersi all’opera, accigliandosi sempre di più e tormentandosi le labbra ogni secondo.
Si sentiva sporco, gli sembrava di tradire i suoi ideali.
Sua madre e suo padre erano stati dei musicisti, una idol e l’altro compositore, l’avevano battezzato in nome della musica… stava tradendo anche loro.
Ma quei soldi gli servivano davvero, non sapeva fare altro oltre alla musica, non sapeva in che altro modo guadagnarseli.
Erano solo tre canzoni, avrebbe avuto successo, allargato il suo pubblico e poi sarebbe tornato alla sua vecchia musica: continuava a ripeterselo come un mantra, quasi a costringersi a crederlo, ma non funzionava.
Continuava a ricordare l’Accademia, i tempi in cui cantava le canzoni scritte da Kei, i concerti in cui si divertiva ad esibirsi sul palco e a incontrare le sue fan.
Rivedeva sua madre che suonava l’arpa e intanto cantava sottovoce, suo padre che lo prendeva sulle sue ginocchia e lo lasciava tamburellare i tasti del pianoforte mentre componeva.
Ben presto il foglio su cui aveva buttato giù abominevoli rime da quattro soldi si riempì di lacrime.
“No, non posso farlo. Non posso vendermi così”.
Aveva bisogno di Reiji, aveva bisogno di non essere da solo.
Si odiava per aver pensato di poter fare una cosa simile.
“Solo tre canzoni, solo tre canzoni! Non significa nulla, non ti stai vendendo! A tutti capita, tutti hanno fatto almeno una canzone di cui non vanno fieri ma che li ha aiutati a restare in pista… convinci un nuovo pubblico e poi torna ad essere te stesso”.
Impiegò diverso tempo, ma alla fine si convinse, e con tante difficoltà, crisi e lacrime, finalmente i 3 testi furono pronti da consegnare al nuovo compositore che gli avevano affibbiato pochi mesi prima.
Lui non ebbe problemi a creare musichette commerciali e orecchiabili, ma che non rispecchiavano affatto ciò che Aine avrebbe voluto dire con quelle canzoni.

«Stai bene?», chiese Reiji una sera, a cena, notando che l’altro non toccava cibo.
«Sì».
«Sicuro?».
«Sì».
Con  un sospiro, l’altro ragazzo smise di mangiare e si alzò, andando a inginocchiarsi vicino a lui e posandogli una mano su una gamba.
«Aine, lo sai che non ti credo… Ora, me lo dici tu o devo strapparti l’informazione colpendoti con le mie maracas?».
Costringendosi a sorridere, Aine finse di inorridire:
«L-Le maracas no!».
«Oooh le maracas … a meno che tu non sputi il rospo!».
Stava cercando di farlo ridere e distrarlo, ma allo stesso tempo voleva delle risposte, ed era chiaro nei suoi occhi. Così alla fine Aine si arrese e, alzandosi da tavola per andare a rannicchiarsi sul divano, cominciò a confidargli tutte le sensazioni di disperazione e odio che provava da quando aveva composto quelle canzoni, e quando le sue parole furono quasi soffocate dai singhiozzi, Reiji era al suo fianco, tenendolo stretto e rassicurandolo, promettendogli che sarebbe passato, che non c’era nulla di male, nessuno l’avrebbe giudicato per delle canzoni, tantomeno i suoi genitori.
«L-Loro non hanno mai tradito la musica», sussurrò Aine, premendosi i palmi delle mani sugli occhi.
«Nemmeno tu, Ne-ne, nemmeno tu, credimi! Anche a me è successo di dovermi adattare a quello che il pubblico chiedeva, ma non vuol dire che non amo la musica o l’ho tradita!».
Aveva come l’impressione che le sue parole cadessero nel vuoto, ma almeno Aine era lì fra le sue braccia, e poteva tenerlo stretto e rassicurarlo, e non da solo da qualche parte, a soffocare in tutti quei sentimenti.
Aveva sempre notato il rapporto particolare del suo ragazzo con la musica: non era una semplice passione, e nemmeno un puro talento. In molti l’avevano definito “genio”, e forse era vero: Aine viveva di musica, respirava note e parlava col linguaggio della musica, spesso riusciva ad esprimersi solo attraverso essa.
Era triste vederlo ridotto in quel modo, vedere come stavano iniziando a portargli via una parte importante del suo mondo, quella della spontaneità.
Sperava solo che le cose non finissero con lo sfuggirgli di mano.

Le “solo tre canzoni” divennero presto sei, e poi nove, un album, due album. E più Aine veniva costretto a cambiare la propria musica, più il suo carattere cambiava: sorrideva raramente, parlava poco, passava più tempo in camera sua a fissare fuori dalla finestra che a fare altro.
E soprattutto, dentro di sé stava iniziando a covare un sentimento di odio che lo spaventava.
Odiava la musica che scriveva, le canzoni che cantava, detestava salire sul palco accolto dalle grida di ammiratrici che - non era orgoglioso di ammetterlo - spesso non sopportava.
Il colpo di grazia era stato un incontro con le fan. Fra il gruppo delle “più nuove” che lo adorava e strillava tanto da trapanargli le orecchie, aveva incrociato lo sguardo di una ragazza che stava in silenzio, triste, e lo guardava cupamente; quando era riuscito ad avvicinarsi a lei, lei gli aveva dato il suo primissimo CD da firmare, pietrificandolo mentre il suo sangue pareva diventare ghiaccio nelle vene.
«V-Volevo incontrarla da tanto, Kisaragi-sama», aveva balbettato lei. «Volevo vedere… vedere se questa persona», e aveva indicato la sua foto sulla copertina del disco, «esisteva ancora».
Per qualche secondo era diventato incapace di respirare, i suoi occhi si erano aggrappati a quelli della ragazza, aspettando disperatamente una risposta, finchè lei non aveva ripreso a parlare:
«E ora so che esiste ancora… sotto tutte quelle maschere che è costretta a portare».
La ragazza si era poi scusata rapidamente, aveva aspettato che lui firmasse (anche se la sua mano tremava visibilmente), e poi era corsa via, senza accorgersi degli occhi lucidi dell’idol.
Davvero la persona che era prima esisteva ancora?
E allora dov’era? Perché non riusciva più a trovarla? Perché ogni volta che prendeva in mano una penna e tentava di scrivere un testo, gli venivano in mente solo frasi banali e scontate? Come faceva prima?
Si era nuovamente allontanato dalle persone che gli volevano bene, stavolta forse in modo più definitivo: parlava poco con Kei, raramente con Hibiki, e aveva ricominciato a litigare frequentemente con Reiji, e il motivo era sempre lo stesso, l’altro continuava a cercare di incoraggiarlo a reagire, ricominciare con la sua musica, e ogni volta lui gli rispondeva urlando e sul punto delle lacrime che la sua musica non esisteva più.
Se anche i produttori avessero accettato che tornasse al suo vecchio stile, non ne sarebbe stato in grado.
Non lo aveva realizzato, ma dentro di sé sapeva che ormai aveva paura a tornare indietro, paura che le cose non fossero così dorate come le ricordava, e che non sarebbero più state come prima.
Fu così che lentamente continuò a proseguire lungo la strada che era stato costretto a intraprendere, e più aumentava il suo successo, più peggiorava il suo umore, le liti con Reiji si facevano sempre più frequenti, e presto scoprì anche la capacità dell’alcool di rimediare ai danni del resto del mondo.
La prima volta che aveva usato quel modo, Reiji era stato tanto furioso da tirargli un pugno, che per quanto doloroso non lo aveva scosso poi molto dalle sue decisioni.
Era in una spirale che procedeva inesorabilmente verso il basso, costantemente bloccato fra ciò che era stato e ciò che stava diventando, e la paura di tornare indietro era sempre più forte di quella di ciò che lo aspettava, così continuava a proseguire.
Lentamente smise di guardarsi indietro.
Quasi un anno dopo si sarebbe trovato a fronteggiare le onde di un mare urlante e invitante, salato come le lacrime che continuavano ad uscirgli dagli occhi senza pause e senza freni, completamente solo perché Kei aveva finalmente deciso che soffriva di meno senza di lui, Hibiki aveva praticamente perso contatto con la realtà, e Reiji…
… Reiji era felice col suo lavoro e il suo mondo; Aine era per lui l’unica nuvola scura, perché doveva continuare a disturbarlo? Perché doveva imporgli la sua presenza?
Aveva tradito la sua musica, aveva tradito se stesso, aveva perso tutto.
Aveva perso.Aveva gli occhi chiusi mentre si lasciava cadere fra i flutti, e finalmente dentro quel buio era esploso il colore, nel silenzio erano scoppiati i rumori: aveva rivisto i volti dei suoi genitori, sentito ancora le loro canzoni. Anche Kei, Reiji, Hibiki erano ricomparsi, insieme a se stesso il giorno del diploma; aveva sentito ancora la canzone con cui aveva debuttato, aveva rivisto le sue fan, il suo pubblico, quelli veri. E mentre le immagini si spegnevano, nelle sue orecchie era rimasto solo il suono di una musica sconosciuta, che riecheggiava tutte le sue vecchie canzoni, che parlava di lui.
Aveva perso, ma perdendo si era finalmente ritrovato.


 

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Nota dell’autrice: ok, ho un paio di cose importanti da dichiarare prima di scordarmele ^^”
1) Non so in quale lingua ringraziare Lyel per essersi messa con taaaaaanta pazienza a rileggere tutta la mia storia e controllarla errore dopo errore, davvero grazie infinite! *la afferra e la strapazza di coccole*
2) E a proposito di Lyel... i riferimenti a Hibiki che trovate fanno in parte riferimento alla storia che abbiamo scritto io e lei "Let me teach you", se vi andasse di farci un salto la trovate sul  nostro account lyerenshadow_nekkun insieme ad altre storie create con altre autrici (pinky_neko, lerenshaw, _takkun_) e, giusto per dirvelo, sappiate che il miglior Hibiki che troverete è quello descritto da lei U.U
3) Il commento di Aine sulle fan undicenni e così via, sia chiaro che non intendevo offendere nessuno, cercavo solo di rendere il suo pensiero
4) Per l’ennesima volta… una storia su Aine! Perdonatemi xD Per chi capitasse per la prima volta da queste parti… la wikia di utapri risolverà ogni dubbio! :)
Per il resto, spero che la storia vi sia piaciuta, e se vi va fatemelo sapere con un commento! A presto!
Baci,
Starishadow
   
 
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