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Autore: B Rabbit    17/04/2016    0 recensioni
{ Mikayuu & implicit!Gureshin | Lasciate ogni speranza, o voi che leggete (?) }
Yuu scosse la chioma scura. «Sei un uomo, Mika! Non voglio raccomandazioni da femmine» scherzò, ridendo allegramente, ma appena notò un insolito sorrisetto comparire sul viso del ragazzo, l’ilarità si spense, lasciando la bocca arida e socchiusa.
«Non vuoi neanche questo?» domandò il biondo, la voce bassa, lieve, quasi le sue parole fossero un bisbiglio confidenziale, e posando la mano sulla sua nuca, intrecciando le dita nei suoi capelli di lucido inchiostro e guidando il suo capo verso il proprio, unì le loro tiepide labbra in un bacio delicato, leggero e piacevole come il freddo vespertino che pizzicava le pelli.

[A Niv cara, con tanto affetto]
Genere: Angst, Drammatico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Mikaela Hyakuya, Yūichirō Hyakuya
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Metamorphosis'
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Ouroboros




« I paced around for hours on empty / I jumped at the slightest of sounds / And I couldn't stand the person inside me / I turned all the mirrors around […] And all the kids cried out, / "Please stop, you're scaring me." / I can't help this awful energy / Goddamn right, you should be scared of me / Who is in control? ».

(Halsey, Badlands, Control.)




II




—— † ——




In un’oscurità sottile, pallida, in cui le sagome degli edifici emergevano con più nitore, finalmente spoglie dal drappo di vaghezza e mistero che la notte soleva posare su ogni cosa, si cantava l’avvento della tenera alba che fra pochi, decisivi battiti di tempo, avrebbe faticosamente rischiarato, con i suoi amati e leggeri colori, la coltre di nuvole e fumi velenosi che intorbidava costantemente la volta celeste. Conscio della nascita imminente del giorno, un ragazzo errava nel cerchio più esterno della città industriale: arrancava penosamente per una via desolata, boccheggiando al disperato bisogno d’aria, di sollievo. Ad ogni passo troppo svelto o ad una movenza sbadata, l’addome si irrigidiva e una scossa di dolore gelava il biondo per qualche istante, limitando enormemente i suoi movimenti. Nonostante la strabiliante capacità rigenerativa che lo differenziava dalla sua precedente razza, la pelle era ancora marchiata dalla superba pallottola che, notti addietro, sentenziò la sconfitta del cacciatore, lasciandogli come amaro ricordo la stoltezza e la sete rimasta inappagata.
Il giovane avvertiva il pressante bisogno di lavare via la fiacchezza e l’aridità della propria gola con la linfa dell’ennesimo sventurato, o sarebbe inevitabilmente crollato e la pazzia avrebbe fatto suo il dominio del corpo, sottraendolo alla debole volontà della ragione. Doveva sfamare la belva, obliare temporaneamente la colpa e cercare in ogni angolo del creato lui.
Un albero solitario si delineò alla sua vista fumosa, seguito dall’emergere di un misero frammento di terra, stranamente sfuggito all’evoluzione della città. E lì, vicino a quell’arbusto avvizzito, ingentilito da talune piccole, vivaci foglioline, notò stagliarsi una figura di spalle – era un umano al tenero germogliare della sua breve esistenza, che osservava l’albero di fronte a lui in muta, misteriosa contemplazione, assorto in segreti e pensieri inconoscibili, o perso in una rara bolla di vuotezza interiore –.
Incredulo dinanzi a quell’apparizione, Mikaela sbarrò gli occhi e percepì i battiti del proprio cuore riempirgli le orecchie, zittendo tutti gli altri suoni esterni. Colse immediatamente l’opportunità, scegliendo di sfruttare la disattenzione della preda: con veemenza le balzò addosso e insieme al giovane cadde a terra a causa dell’impetuosità del gesto; premette la mano sulla sua bocca dischiusa, quasi un urlo stesse per formarsi da essa, e lo immobilizzò con il proprio corpo, premendo le ginocchia sulle sue braccia.
Deglutì. Per qualche fugace attimo, egli fissò senza lucida attenzione lo sfortunato, l’anonima figura costretta nella terra umida che lo avrebbe trascinato maggiormente nella dannazione, accrescendo la sua ombra con un nuovo, inevitabile peccato. Accostò la mano al collo teso di lui e godette nel profondo e disprezzato intimo di quelle vivide pulsazioni che gli stuzzicarono impudentemente i sensi – il derelitto non reagì ai tocchi che, leggeri come sbuffi d’aria, vezzeggiarono la sua pelle, alle dita di velluto che lo sfiorarono con lentezza, tremuli carezze mosse da un desiderio recondito, antico quanto la lotta alla vita, quasi avesse amaramente compreso l’inutilità di una sua eventuale ribellione –.
Attratto da quella gola delicata, vergine da qualsiasi ferita o ricordo di violenza, che sussultava appena il giovane deglutiva, il biondo tirò la camicia del miserabile, scoprendogli di più i muscoli piacevolmente irrigiditi dalla paura, ma quando chinò la testa per beneficiare di quella fonte lieta, appena avvertì debolmente il calore dell’epidermide pizzicargli la bocca schiusa, un odore nostalgico ammansì l’istinto, invocando duramente a sé la ragione. Sbarrò gli occhi, e il respiro divenne inspiegabilmente affaticato, irregolare. Liberò la vittima dalla propria stretta, issandosi piano, incerto, ma continuando a torreggiare sul corpo che, lentamente, si volse fra le sue gambe. E Mikaela percepì qualcosa di incredibilmente violento dimenarsi in lui, come un essere dalle grandi e soffici ali che bramava soltanto la volta celeste e la libertà confinata in essa. Studiò il viso del ragazzo immobile sotto di lui, e rimase incantato da quei lineamenti più morbidi, dalla pelle rosata, luminosa, linda dalla polvere del carbone e dalla meschinità dell’animo umano; le gote erano spruzzate di un rosso vivace, sano, dovuto sicuramente al freddo che il maledetto, per qualche bizzarro sortilegio, non percepiva più. Osservò le labbra scarlatte tremare leggermente, incapaci di proferir alcunché, quasi la paura le avesse stuzzicate con un bacio – non vi erano più gonfiori o tagli su di esse, e il sangue non gli sporcava i denti –. E cadendo vittima dell’unione che si istaurò fra loro, intangibile e nostalgica, egli mirò i suoi occhi verdi, scorgendo in essi il ricordo di un’estate particolarmente limpida di una giovinezza lontana, la densa luce del sole che rallegrava la città fuligginosa e l’aria frizzante, capace di portar via l’olezzo dello sfruttamento. Una lacrima si formò vicino ad uno smeraldo, come il sentimento nel cuore umano, e il biondo, esterrefatto, la osservò districarsi dalle ciglia e scivolare lungo la tempia, fino a consumarsi. Altre perle brillarono sul suo viso. L’altro, quasi spaventato da esse, dalle emozioni contenute al loro interno, balzò agilmente all’indietro; abbassò lo sguardo e, confuso, osservò le mani tremare visibilmente.
«Mika…» udì il proprio nome risuonare nuovamente nell’aria dopo tempo imprecisato, un frullio debole ed insicuro, che presto si tramutò in un singhiozzo spezzato – attratto da quella voce malinconica, eco di un’epoca oramai conclusa, egli alzò il capo, desideroso di sentire ancora una volta quella parola capace di affermare la sua esistenza sulla terra –. E quando lo chiamò nuovamente, bagnandosi le labbra di dolore, Mikaela cadde in ginocchio dinanzi a lui in un fruscio di vesti, scoprendosi incredibilmente leggero, libero dalla sete – un pianto silenzioso sgorgò dalle gemme sanguigne, rese lucide da una sensazione di felicità, rara e impressionante e magnifica, taciuta in lui fino a quell’istante –.
Il giovane, rannicchiandosi in sé stesso, indifeso come un povero animale, si cinse il torace con le braccia e strinse queste ultime nelle mani, spaventato dall’impetuosità di ciò che sentiva – il desiderio di abbracciare lo sconosciuto, il pensiero greve e dissennato di rivolgergli una piccola, straziante preghiera –. Proferì tremante il nome rimasto sopito in lui fino al loro brutale incontro, ripeté di nuovo quella semplice parola, due volte e un’altra ancora, riempendo ogni sillaba e silenzio di incomprensibile mestizia, ferendo il cacciatore con il pianto amaro della propria anima. Quest’ultimo si strinse in un abbraccio freddo e inarcò la schiena, serrando gli occhi in un disperato tentativo di controllarsi, di trattenere le emozioni; si morse il labbro, sigillando la voce con il sangue, ma essa fluì via, amalgamata in un lamento. «Yuu…» gemette, e l’altro, colto il mormorio sofferente, nascose il viso e lo stupore contro le ginocchia. Restò in silenzio, obbligando sé stesso di calmarsi, di spegnere i singulti con lunghi respiri; strofinò più volte la fronte sulla stoffa ruvida dei pantaloni, quasi potesse cancellare la paura con quel gesto sciocco, per poi sollevare la testa e posarla sulle ginocchia. «Scusa…» soffiò, placando la misteriosa volontà che sbraitava nella mente per essere accontentata. «Perdonami…» proseguì, fissando il ragazzo dinanzi a lui che, sbigottito dalle sue inaspettate parole, alzò il capo.
Il corvino sospirò, affranto. «Sto impazzendo» decretò in un soffio, ondulando le sillabe con una leggera, fragile risata. «Mi hai aggredito, e malgrado ciò…» espirò ancora e avvicinò maggiormente le gambe al petto. «Io non riesco a detestarti, a dirti: “Ti odio” …» notò l’altro sussultare alla sua affermazione, abbassare leggermente la testa, nascondendo dietro qualche ciocca preziosa il timore derivato da tale possibilità.
«…Tu sai la motivazione» dichiarò il giovane con fermezza, sciogliendo il corpo da quella posa e toccando la dura terra con un ginocchio, pronto a dover scattare, fra un secondo e un palpito, verso l’estraneo, rovesciando così i ruoli di predatore e vittima.
«Raccontami ogni cosa» sentenziò, aggrottando la fronte per acquisire un alone di severità. Si avvicinò a lui, strisciando piano sul terreno farinoso, senza posare l’attenzione su oggetti differenti dal biondo, che rimase immobile dinanzi al suo avanzamento.
«Dimmi la verità» gli disse, e la voce s’ammorbidì lievemente; allungò le braccia verso di lui, lo afferrò per le spalle, le quali persero rigidità sotto il suo tocco vigoroso, e l’altro fu spogliato di qualsiasi energia, divenendo incapace di ribellarsi. Egli si ritrovò limitato fra la presa del ragazzo, intrisa della sua medesima forza sovrannaturale, e gli occhi smeraldini in cui i ricordi sembravano trovar dimora sicura – percepì fremere le proprie mani, vogliose di scivolare lungo la sua schiena, così da unire i loro corpi in un abbraccio sofferto, ma inghiottì saliva e desiderio, preferendo trattenersi –. E Mika parlò: gli raccontò la sua storia, descrisse le loro vite dai toni scuri eppure felici, le bravate fatte da bambini e le paure fronteggiate insieme, quando la realtà strappò loro la spensieratezza, caratteristica della puerizia. E mentre raccontava, percepì un velo di commovente, nostalgico tepore circondarlo teneramente come la stretta di qualche persona cara – gli abbracci di Yuuichiro – e le ombre delle emozioni trapassate riaffiorarono nel petto e serpeggiarono in lui facendo fremere le membra. Gli occhi socchiusi, lucidi di reminiscenze, presero a bruciare un po’, pizzicati dalle lacrime che, gravide di sentimenti, di gioia, erano smaniose di uscire. Tuttavia, la narrazione non lambì, nel suo scorrere, nemmeno il più vago abbozzo alla sua condanna, né si addolcì della raffigurazione del loro amore. Descrisse l’ultimo giorno e la notte in cui il mondo privò entrambi di qualcosa – della vita e della felicità –. Accennò ad una creatura misteriosa, la quale ascoltò il suo pianto e gli offrì aiuto, soddisfacendo il suo desiderio.
Il moro colse avidamente ogni parola, i piccoli sorrisi che guizzavano sulle pallide labbra, l’espressione che oscillava fra serenità e sconforto – la presa sulle spalle di lui si indebolì pian piano, finché i palmi non scivolarono adagio lungo i suoi arti, oltre i gomiti, indugiando sugli avambracci rilassati, abbandonati sulle cosce –. Egli credette al racconto, cogliendo la verità intessuta in esso senza alcuna perplessità, spinto da una bizzarra fiducia. E lo straniero, in cuor suo, si svestì della parvenza feroce, colorandosi di timida gentilezza.
«E… ti ho trovato» concluse, socchiudendo le palpebre. Si sollevò lentamente da terra, facendo scorrere le mani di lui sugli avambracci e stringendole teneramente nelle proprie, per poi lasciarle cascare dopo appena qualche battito. «Scusa per ciò che ho fatto» e puntò lo sguardo di lato, dispiaciuto da tale azione.
Il giovane si alzò impetuoso e gesticolò una negazione con le mani. «Va tutto bene!» urlò quasi, attirando nuovamente a sé l’attenzione del biondo. «Non mi hai riconosciuto, quindi… certo, non dovresti aggredire la gente, però… tranquillo!» cercò di rasserenarlo, dandosi intimamente dello stupido per le sciocchezze dette. Eppure, Mikaela accennò una tenue e imbarazzata risata, conquistato dalle sue parole, e sul volto esangue brillò un sorriso ampio, felice, che seppe carpire con facilità il respiro a colui che lo fissò, stupito.
«A-ah… ecco…» barbugliò qualcosa, scompigliandosi un poco le ciocche scure; sollevò il capo e sbarrò gli occhi appena notò la volta colorarsi di pallide sfumature rosate. «È l’alba!» gridò sconvolto, portandosi entrambe le mani alla testa, e il secondo lo fissò meravigliato. «I miei genitori scopriranno la mia assenza!».
«… Sei uscito di nascosto?» e inclinò il capo.
«Beh, sì… non riuscivo a dormire e alla fine sono sgusciato via di casa».
«Sei scemo?» gli chiese il più grande d’impulso, ottenendo un’espressione sbalordita e un piccolo arretramento come risposta. «È pericoloso!».
«E cosa dovevo fare?».
«Rimanere nel tuo letto!» lo sgridò, aggrottando le sopracciglia, ma si stupì subito dopo della propria reazione, della replica del ragazzo e della sua caratteristica infantilità – si coprì il volto con la mano, celando il leggero tremore che gli incurvò le labbra all’ingiù –.
«Devo scappare… Mika» lo sentì mormorare, conferendo al suo nome importanza e un retrogusto amaro; con orrore lo vide accennare qualche passo all’indietro, allontanandosi sempre più da lui con la testa bassa.
«Aspetta!» lo pregò, il tono acuto, pregno dell’inquietudine che si dimenava e contraeva nel petto; inconsciamente, egli sollevò il braccio nella sua direzione, la mano galleggiò e artigliò con angoscia il vuoto fra loro, e quando l’umano lo guardò, soddisfacendo la sua richiesta, l’immagine di Yuuichiro, sorridente vicino l’uscio della bottega, si sovrappose su quella del moro per un attimo che, nella cognizione del biondo, si dilatò in infinito, mescolando la realtà con la reminiscenza dei loro ultimi momenti. Accortosi del suo smarrimento, il giovane si avvicinò a lui. «Tutto bene?» lo richiamò, preoccupato del suo silenzio.
«… Sì» e scosse energicamente il capo. «Come ti chiami?» domandò, conscio della certezza che l’essere dinanzi a lui, seppur indistinguibile nell’aspetto esteriore dal suo tesoro, fosse protagonista di una vita differente, costellata da persone e avvenimenti diversi.
«Come, non lo sai?» lo punzecchiò, ridendo dell’occhiataccia che lo colpì. «Dove abiti?» gli rispose con un’ulteriore domanda, e l’altro sbuffò, farfugliando qualcosa sul suo dispotismo.
«C’è una chiesa, poco distante dal perimetro della città» lo soddisfò, incrociando le braccia. «Sembra essere abbandonata da tempo, quindi non creerò seccature a nessun prete».
«E sei sempre lì?».
«Come ti chiami?» ripeté invece, imitando il suo trucco. Il ragazzo mise su un piccolo broncio, ma poi scosse il capo, divertito; sorrise e, articolando ogni sillaba con placida euforia, gli rispose, per poi fuggire via da quel piccolo elisio, sigillando con la voce la promessa di un loro prossimo incontro per la giornata seguente.
Rimase solo nel silenzio, Mikaela, mentre quel nome – Yuuichiro Hyakuya – si ripeteva caotico nella mente. E per un attimo, gli parve di sentire la risata limpida dell’artefice di tutto graffiargli la schiena con gorgoglii aggraziati.

Affilando la vista, il corvino ispezionò l’orizzonte e la pianura in cui errava tristemente da troppo tempo, vuota di qualsiasi edificio o ricordo d’esistenza; sbuffò, rimproverandosi di non aver chiesto, il giorno scorso, maggior precisazioni a quella misteriosa persona, dimostrando la propria superficialità che, in quegli attimi, stava deteriorando l’occasione di rimanere il più possibile con lui – con Mika –, soddisfacendo così la voglia di stargli accanto. Dai racconti dei suoi genitori, il sedicenne sapeva che, a sud e ad est della città, si ergevano i resti di un vecchio insediamento, di quando la gente viveva ancora in comunione con la natura. Durante la ricerca, egli era riuscito a trovare le povere ossa di quelle che furono le abitazioni, ma la santa casa non pareva sorgere fra quelle ombre. Cominciò a correre verso oriente, premendo contro l’addome un tenero fagotto, avvolto in un panno di ruvida tela. Chinò la testa e, osservando senza reale interesse le nuvole di fili d’erba mietute dalle celeri falcate, si interrogò, incerto su quale scelta seguire, se lasciare inappagata la voglia di conoscenza, oppure invitare l’altro a rievocare nuovamente la memoria, descrivendo il tempo condiviso insieme o il secolo taciuto, un sentiero bianco che batté alla sua ricerca, snodato tra follia e rinuncia.
Notò le corolle di qualche piccolo fiore screziare di bianco il verde del prato e alzò il capo; sorrise raggiante appena una robusta struttura lo incitò ad affrettarsi, ma egli decelerò fino ad arrestarsi, nonostante la contentezza lo spronasse a correre. Si avvicinò alla chiesa con soffice passo, attento a generare il minor rumore possibile – voleva fargli una sorpresa, cogliere il ragazzo alle spalle o addirittura spaventarlo con strani versi –. E mentre si divertiva ad immaginare varie sue reazioni, Yuuichiro lo scorse poco distante dalla chiesa, disteso serenamente sul tappeto naturale: il corpo era rilassato, come vinto dal sonno ammaliatore, e le onde verdi del campo lo abbracciavano teneramente, addolcendo con affetto il suo riposo. Si fermò ad ammirarlo, percorrendo la sua figura lentamente, soffermandosi sul viso smunto, sugli occhi che, seppur celati dietro le palpebre, erano per certo rivolti al cielo plumbeo – stranamente, il giovane lo accomunò al sole, sprofondato sulla terra per un motivo a lui ignoto –. Gli scherzi e la voglia di sorprenderlo colarono via dalle sue mani e, sorridendo, l’umano falciò la poca distanza che fluiva tra loro; si accostò a lui, i piedi vicino al capo attorniato da margherite, e osservò il suo volto e la piega delicata che gli arricciò inaspettatamente le labbra.
«Infine, sei venuto davvero» soffiò e schiuse le palpebre, ricambiando lo sguardo dell’altro.
«I giuramenti sono importanti» gli rispose, noncurante del dubbio appena espresso; indietreggiò lievemente, permettendo così al giovane dalla chioma aurea di issarsi, abbandonando la posa comoda.
«Ti ho portato questo» e gli lanciò il pacco, afferrato immediatamente dal secondo.
«Cos’è?» domandò lui, ma il corvino rispose con un cenno del mento, chiara esortazione ad aprire il dono.
Egli ubbidì: tirò piano lo spago e disfò l’involucro, spinto, oltre che dall’incitamento del moro, anche da una lieve curiosità; si stupì nel vedere una camicia lattea e un paio di calzoni marroni, entrambi piegati malamente.
«Ho notato il sangue raggrumato sui tuoi indumenti, perciò… ti ho portato qualcosa di mio» si giustificò subito il sedicenne, massaggiandosi nervosamente la nuca.
Mikaela strinse i vestiti tra le mani, il frutto materiale delle riflessioni e dell’interesse di Yuuichiro rivolti a lui; studiò la trama spessa e ne assaporò la consistenza con le dita, immaginandola un poco ruvida sotto la stoffa dei propri guanti. «Io…».
«Non si accettano restituzioni» sentenziò subito il giovane, spegnendo ogni eventuale ribellione o lamentela, e il più grande non poté che sbuffare.
«E va bene» cedette, volgendo nuovamente l’attenzione al vecchio compagno. «Grazie» gli disse, accennando un amabile e pacato sorriso in segno di riconoscenza – il più piccolo diresse lo sguardo alla sua sinistra, lontano dall’altro, dai suoi occhi dolcemente socchiusi, velati da una misteriosa stanchezza –.
Richiamato dai sussurri dell’erba, Yuu notò la figura di lui incedere verso la chiesa.
«Dove vai?» gli chiese, seguendolo con lo sguardo.
«Al pozzo» rispose il maledetto, per poi svanire dietro l’edificio in pietra.
Il moro lo inseguì all’istante e lo trovò vicino alla costruzione citata ad armeggiare con i lacci della cappa, che presto crollò sul terreno in un fruscio basso.
«Cosa fai?» proseguì con gli interrogativi, e l’altro sfilò l’indumento superiore, abbandonando anch’esso sull’erba.
«Mi lavo» spiegò brevemente, adagiando il regalo su uno dei secchi riversati adiacenti all’anello in pietra.
«Oh» rispose, ponendo fine al dialogo. L’osservò calare il recipiente nel baratro per raccogliere l’acqua e poi trascinarlo nuovamente in superficie, i muscoli gonfi e contratti per l’azione; quando il più grande si gettò il contenuto addosso e imprecò sottovoce per il freddo, il sedicenne non riuscì a contenersi e sghignazzò, indifferente all’occhiataccia torva che gli arrivò. «Ti prenderai un malanno!» singhiozzò, ma il secondo gli rispose con un sbuffo e proseguì, alimentando la sua risata.
Tuttavia, l’ilarità si spense come la luna in cielo: egli notò una screziatura nivea risaltare sulla pelle dell’addome, teso a causa delle gelide carezze dell’acqua, e Yuuichiro, avvertendo l’amarezza lambirgli il palato, constatò che la rosa sanguigna impressa sull’indumento del ragazzo e la porzione del ventre coincidessero esattamente – pregò un’identità sconosciuta di soffiare via il dolore dal cuore del giovane, regalandogli l’adorata tranquillità che lui, ne era certo, non sarebbe riuscito a seminare nel suo animo afflitto –. Mikaela indossò la camicia, e la smorfia e la cicatrice scomparvero alla vista. Il biondo, accortosi dello sguardo puntato su di sé, si girò completamente verso il corvino. «Cosa c’è?» chiese, inclinando appena la testa; improvvisò un volteggio su sé stesso e, alzando le braccia, gli domandò scherzosamente: «Sto male?».
L’interpellato, meravigliato da tale richiesta, gonfiò un poco le guance, tentando di sopprimere una risata, ciò nonostante, essa traboccò lieta e pulita da qualsiasi triste dissonanza. «Oh, ma sta’ zitto!» e la voce scoppiettò nuovamente d’ilarità.
«Sì, sì, va bene» sbuffò lui, celando, dietro il tono offeso, il diletto che percepiva. «Piuttosto!» aggiunse, e disegnò un cerchio nell’aria con l’indice. «Voltati».
«Perché?» chiese, dubbioso sulla motivazione dell’ordine e sull’esito della sua ubbidienza. «Cosa vorresti fare?».
«Cambiarmi i pantaloni» affermò lui con disinteresse, allacciando le braccia. L’altro sbarrò gli occhi e cominciò a farfugliare suoni vaghi e privi di senno.
«In fondo, me li hai portati tu».
Yuuichiro irrigidì le spalle. «A-ah…» e chinò la testa. Si girò e si sedette a terra, studiando con puntiglioso interesse i numerosi fili d’erba e le fragili margherite. Mikaela sorrise. «Grazie».
Il sedicenne gli rispose con un mugolio gutturale, tremante; incrociò le gambe e poggiò le braccia su di esse, incurvando leggermente il fisico, quasi a volersi nascondere. Sentì il cigolio della carriola, lo sciacquio dell’acqua e sperò nell’assenza di altre ferite sul corpo del biondo. Socchiuse gli occhi.
«Ehi, Mika…» lo chiamò, la voce così debole da esser sovrastata dal mormorio delle vesti. «Posso chiederti una cosa?» aggiunse, una supplica abbigliata da innocente curiosità; attese la sentenza del ragazzo e sperò gli concedesse di formulare perlomeno la domanda.
«Sì» giunse al suo orecchio come nota dolcissima, e il corvino sorrise. Stette in silenzio per qualche istante, soppesando scrupolosamente i termini da impiegare, mentre il canto dell’acqua riempiva l’aria, ma con un sospiro dolente, egli si abbandonò all’improvvisazione. «Ho… questa vaga idea» cominciò, afferrando un sassolino dal terreno. Indugiò appena, perplesso delle proprie sensazioni, tuttavia infine proferì: «I tuoi occhi… sono sempre stati di quel colore?».
Udì un rumore secco – forse, il secchio appoggiato sulle pietre del pozzo – e si rammaricò all’istante della domanda fattagli. Ostentò una risata allegra, intorpidita, però, da un’eco di mestizia. «Certo che li hai sempre avuti!» affermò con voce alta, sollevando lo sguardo al cielo, quasi a implorare soccorso. «Non si trasformano per caso!» e proseguì a fingersi divertito, a sopprimere quella bizzarra impressione che lo turbava. Sentì l’altro avvicinarsi a lui e serrò le mani intorno ai polpacci, timoroso della sua risposta o reazione, ma il mondo parve scomparire in pochi attimi, e Yuuichiro si ritrovò il mantello del più grande su di sé.
Mikaela si sedette al suo fianco e guardò di fronte a sé senza alcun vero interesse; semplicemente, attese che il sedicenne si levasse la cappa da sopra con l’animo sereno e la mente libera. «Non devi andare a scuola?» gli chiese ad un tratto, puntando lo sguardo sulla buffa creatura mascherata, che sbatacchiò il capo da sinistra a destra.
«Sono troppo grande per andarci» ribatté, la voce smorzata dalla trama pesante dell’indumento. «Lavoro in una fabbrica di cotone» e l’essere scomparve, mostrando un principino sorridente. «Sai com’è, senza denaro si rischia la galera».
Il maledetto borbottò un consenso, e il duo gettò gli sguardi lontano, verso il panorama o un luogo migliore, una realtà più benevola di quella concreta.
«Domani tornerò a farti visita» giurò all’improvviso, ma, voltandosi verso di lui, Yuu non vide alcun sorriso ondulargli le labbra pallide – c’era angoscia, in quelle ampolle colme di violente sensazioni, e la stanchezza sembrò gravare maggiormente sulle spalle curve, esauste –.
Il sedicenne tentennò, incapace di rivolgergli domande o parole care, di conforto. Si alzò e, indietreggiando di qualche passo, scrutò la sua sagoma, il capo alto, orientato verso la cupola celeste, e non verso la florida pianura relegata nelle proprie iridi.
«Ci rivedremo» soffiò. Lo vide sussultare, trafitto dalle sue docili, ottimistiche parole, ma egli non si volse, sospirò stancamente.
«Senz'altro…» asserì poi il biondo.
E Yuuichiro lo lasciò lì, accerchiato dal candore dei fiori, giurando a sé stesso di indagare sulle verità inespresse.

Inchiodato in un vecchio podere, dove le cicatrici arrecate dalle zappe degli agricoltori segnavano ancora la terra, un piccolo lavoratore fissava con meticolosa, irrequieta attenzione ogni curva, sfumatura o mutamento dello scenario attorno, sperando di cogliere, fra la luce e l’ombra, la concretizzazione del suo desiderio.
«Ti prego, ti prego…» sussurrava più volte il giovane, parole deboli, ripetute, celeri come i suoi respiri graffianti. Scuotendo il capo, egli si ribellò al prosciugarsi del tempo e ai richiami del dovere che parevano levarsi direttamente dalla fabbrica. Serrò i pugni.
Non c’era, né in mezzo al campo, né accanto al pozzo.
L’aveva aspettato nella santa dimora, nel mare d’erba e fiori, l’aveva cercato nella città dimenticata e nel boschetto vicino finché la consapevolezza di dover lasciare il posto non rintoccò lugubremente in lui – aspettativa e ricerca si alternavano con dolorosa rapidità come nell’agitarsi di un’anima dannata –. Ai suoi richiami, alle minacce e ai compromessi giurati, alle grida e alle preghiere bisbigliate, egli udiva soltanto la risposta aspra e ruvida del vento, il quale gli carezzava piano le guance rosse a causa della fatica, marcando con il freddo le scie delle lacrime che il sedicenne non s’accorse di aver perduto.
Non c’era, la sua figura non brillava in nessun luogo.
Immerse le dita nella chioma di pece, artigliò le ciocche con forza, graffiandosi appena la tenera pelle; digrignò i denti e cercò disperatamente i colori di lui macchiare il prato, le mura o il filo che scomponeva il mondo in cielo e terra.
Non c’era, e Yuuichiro negò quella raccapricciante, orribile eventualità – perché un miraggio sarebbe svanito all'istante sotto il tocco più gentile o a causa dell’eccessiva vicinanza; perché un sogno non avrebbe mai potuto germogliare e aprirsi con tale splendore e tangibilità al chiarore vero del sole –.
Eppure, Mikaela era scomparso nell’alternarsi di un dì con la notte in una bolla di silenzio, come una stella in rovina dalla sfera celeste.

















Ansia da secondo capitolo, aiuto.
Ok, ok. Prima di uccidermi o lanciarmi parole acerrime, vorrei spiegare qualcosa – o tentare, almeno –.
Scusate per l’enorme ritardo, ma posso giurare di aver usato ogni attimo libero, davvero – ho anche rubato del tempo ai vari impegni pur di spicciarmi –. Mi dispiace cAc
Quindi… ecco la seconda parte che doveva chiudere la mini-long, ma, ehi, le cose si sono dilatate talmente tanto da esigere un terzo capitolo. E anche un quarto.
Sapete che vi voglio bene? Eh, “non sembra”? ... Oh.
Sì, gente, ci saranno altri due, due, capitoli… e prometto fluff! Davvero!
Ringrazio tutti voi per aver letto, aggiunto nelle varie categorie e lasciato un commento. Siete favolosi.
Per le epoche storiche in cui si ambientano le varie vicende… ho lasciato degli indizi sparsi, ma alla fine si capirà con più nitidezza.
Sparisco che è tardi, meh. Prometto nuovamente di sfruttare ogni momento di libertà… però, visti gli impegni sempre più importanti, fino alla fine di giugno dovrò concentrarmi unicamente sulla priorità massima – tecnicamente anche a luglio e agosto, visto che l’ultimo esame l’avrò agli inizi di settembre, ma cercherò di sbrigarmi –. Il terzo capitolo è già avviato, poi.

Al prossimo, sofferto aggiornamento,

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