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Autore: Querthe    06/04/2009    2 recensioni
La notte spesso porta consiglio. Ma per Severus Snape, questo non vale. Per lui, solo incubi.Scritta per la sfida "Sangue" del forum Magiesinister
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Severus Piton
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno | Contesto: II guerra magica/Libri 5-7
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Il corridoio era silenzioso. Solo la debole luce della luna tagliava la fredda, immobile aria, entrando dalle ampie finestre.
Le aule, con le file di banchi ordinatamente allineati, erano vuote.
Nessun rumore, nessun sussurro. Nemmeno il felpato passo di Mrs Norris. Non a quell’ora, non nei minuti avvolti attorno alla mezzanotte di Hogwart.
I fantasmi delle case erano fermi. Era la loro ora, ma la rispettavano. Era l’ora della paura, dell’ignoto, degli incubi peggiori.
In quel momento più che in ogni altro che le antiche mura avessero visto. Hogwart era stata violata. Dentro e fuori, secondo molti. Secondo tutti. I Deatheater erano dentro la scuola, erano gli insegnanti, i padroni e aguzzini degli studenti. Ma il peggio non era quello. Il peggio era chi sedeva dove gli altri presidi si erano seduti. L’assassino di Dumbledore.
Severus Snape.
La porta dell’ufficio era chiusa. Nessuna luce trapelava, ma la stanza non era vuota. Un’ombra più nera del buio attorno a lei era seduta dietro la scrivania lucidata dai secoli.
Gli occhi erano aperti senza però vedere nulla, persi in un personale mondo che la sua mente aveva come ogni sera creato e che ogni secondo della giornata rifuggiva, pur trovandosi ogni notte insonne a ripetere gli stessi gesti, gli stessi pensieri, come una vetrina spaccata piena di Time-Turner rotti.
Lui in quel momento era su quel bastione.
Sentiva l’aria sferzargli il volto, sentiva il freddo tagliargli i polmoni.
Le voci, le urla, la battaglia. Sentiva Fenrir ringhiare. Un essere ignobile. Forse inutile. Come si sentiva lui. Era solo uno strumento di qualcosa che era già stato scritto, e che ogni sera recitava quella sciocca tragedia.
La sua mano era attorno alla bacchetta. Non sarebbe dovuto arrivare a tanto. Una stupida promessa. Un odioso patto. Sapeva e lo negava. Era inevitabile, e lo rifiutava.
Strinse le mani sui braccioli della sedia per non farle tremare.
Sentì che nel freddo di quella notte, su quelle mura, qualcosa di strano stava succedendo.
Si osservò le mani. Erano rosse. Il freddo, probabilmente, ma lui sapeva che non era solo quello. A volte gli ribolliva per la rabbia, a volte per la paura di fare qualcosa di cui si sarebbe pentito.
Chissà quale era il sentimento di quella sera?
Ogni sera lo stesso incubo ad occhi aperti. Lo sapeva, eppure non faceva nulla per fermarlo. Avrebbe potuto prendere una pozione, o un incantesimo, ma in qualche modo sapeva che era parte della sua punizione per aver fatto la cosa giusta, al momento giusto, troppe volte. Per capire. Per sapere. Si odiava.
Era davanti a lui, lentamente lo metteva a fuoco nella lotta che stava affrontando contro se stesso. Soffrire poco e subito o molto e dopo.
Aveva fatto una promessa, doveva mantenerla, anche se voleva dire sporcarsi le mani del sangue di un amico.
L’unico amico che avesse conosciuto. E in quel momento doveva ucciderlo.
Sapeva, seduto su quella sedia, che lo stava per uccidere su quelle mura, davanti a quelle persone.
Sentiva il loro sangue gelare o ribollire nelle vene. Sentimenti contrastanti, odio e apprensione, paura e ammirazione.
E lui cosa provava?
Certo sapeva che stava facendo la cosa giusta, certo sapeva che l’alternativa non era possibile per lui e per Dumbledore, eppure non voleva.
Perché io? Perché devo essere io il tuo esecutore? Perché il tuo sangue deve ricadere su di me? Si domandava ben sapendo la risposta.
Le sue mani sudavano, nella realtà e sulle mura, in quel momento.
Voleva lasciare cadere la bacchetta, voleva andarsene, voltare le spalle a tutto e a tutti, mandarli al diavolo. Perché lui?
La bacchetta non cadde quando aprì le dita. Non voleva cadere.
Si osservò la mano. Orribili piccoli tentacoli somiglianti a densa e schiumosa bava rossa erano usciti dalla sua mano, dove le vene scorrevano appena sotto la pelle, e si erano conficcati nella bacchetta, fissandosi ad essa.
Sangue colava denso da quei fili in pesanti gocce che caddero senza rumore sul pavimento di pietra, per poi muoversi verso di lui, verso i suoi piedi, come animate di vita propria.
Sembrava attirato da lui, dall’azione che stava per compiere, avendola compiuta tempo addietro, e ogni notte da quel giorno.
Salvare l’amico.
Uccidere l’amico.
Il sangue, sempre più copioso mano a mano che colava lungo le sue dita, verso il suo braccio, inconsapevole, contrario alle leggi della gravità, si infilava sotto la sua veste, legava con una liquida e oscenamente calda rete di fili uguali ai primi che aveva visto il suo braccio, lo spingeva a piegarsi nell’angolo giusto per lanciare l’incantesimo.
Le sue mani erano ancora più rosse, quasi brillavano nella notte, alla luce della luna e delle stelle.
Le sue dita si strinsero contro la sua volontà attorno alla bacchetta e vide il suo bersaglio.
Parlava, ma non lo stava ascoltando. Sapeva cosa stava dicendo, lo aveva sentito troppe volte nella sua mente, nel suo cuore, una sorta di epitaffio perenne, una sorta di mantra che gli si era scolpito nell’anima a lettere che sanguinavano sempre, per sempre.
L’ora si avvicinava, ogni istante la fine della vita dell’amico si avvicinava.
La bacchetta, il sangue prese la mira.
Chiese all’altra sua mano di agire, di strappargli la bacchetta, a costo di perdere le dita nella morsa dei denti, ma la ragnatela di sangue si era estesa senza che lui se ne accorgesse, arrivando all’altro arto, immobilizzandolo, rendendolo un pezzo di un pupazzo da burattinaio guidato da liquidi fili rossi.
Non era lui che lo voleva, ma le sue mani si muovevano da sole. Il sangue ormai gli era colato fino i piedi, sentiva il caldo umido toccargli le suole e lentamente inondare tutta la zona. Sentiva che iniziava a risalire nuovamente lungo il suo corpo, centimetro dopo centimetro, lungo le sue gambe, sotto il mantello, coprendolo e inserendosi nuovamente in lui con il dolore di mille spilli. Una goccia in ogni poro.
Sembrava entrassero ognuna con la forza di uno schiantesimo, ma non poteva soffrire, non poteva mostrare il suo dolore. I rivoli di sangue si stavano insinuando nel suo collo, dentro e fuori, come tentacoli, arrivando a lambirgli la bocca, il naso, gli occhi, entrando in essi e arrivando al cervello.
Gli rendevano scivoloso pensare, facendogli solo vedere che cosa doveva fare, anche se odiava ciò che vedeva.
L’incanto di morte partì quando il sangue lo ricoprì totalmente, dolci spuntoni di rosso dolore nella sua mente e nella sua anima sussurravano ciò che volevano si facesse.
Era come se una sorta di coperta calda e schifosa gli ottundesse il cervello dilaniandogli il cuore.
Di chi era tutto quel sangue?
Perché succedeva quello che odiava vedere ogni sera?
Era davvero il suo? No, non era possibile. Negli anni lo aveva pianto e sputato tutto in cose giuste e sbagliate. O forse solo in quelle ultime.
Era quello di chi aveva ucciso? Probabile, ma la voce che aveva sentito e che continuava a sentire era una sola, e i morti sul suo cammino erano tanti.
Era forse il rimorso per aver fatto ciò che aveva fatto? No, non lo avrebbe costretto ad uccidere Dumbledore.
Quasi non vide il corpo cadere, morire. Il sangue lo aveva reso cieco.
Urlò, la sua voce soffocata in bolle cremisi. Voleva morire, voleva cancellare tutto.
Inspirò il sangue, cercando di morire soffocato in esso.
Non potrai mai, Severus, non potrai mai cancellare ciò che hai fatto. Tu sei anche questo, sei anche quello che hai fatto, e nulla potrà cambiare quello che hai fatto.
In quel momento, come ogni notte, si odiava per non poter riconoscere la voce del sangue, eppure quella sera qualcosa era diverso, qualcosa dalla sua mente si stava facendo strada.
Riconosceva quella schifosa voce.
Era la stessa che si faceva sentire ogni volta che faceva qualcosa che non avrebbe voluto fare, qualcosa di illogico.
La sua coscienza si faceva sentire ogni volta.
Aprì gli occhi nel buio dell’ufficio.
Non vedeva nulla, ma sentiva il calore sulle mani. Sapeva che voleva alzarsi e correre in bagno a consumare il sapone nel vano tentativo di lavarsi via dalle mani, dal volto, dal corpo il sangue suo, di Dumbledore, di tutti coloro che aveva ucciso, salvato, distrutto e tradito.
Ma non poteva. Non poteva certo lavar via la sua coscienza.
Sarebbe stata sempre con lui, come un peso che gli avrebbe per sempre ricordato che per quanto arido potesse sembrare, per quanto freddo potesse apparire agli occhi degli altri, lui era sempre e comunque un essere umano, un essere fatto di carne di sangue.
Soprattutto di sangue.
Sospirò e si alzò.
Mezzanotte era passata, i fantasmi stavano sussurrando nei corridoi, Miss Norris miagolava.
Sapeva finalmente di essere ancora umano sotto la sua maschera.
Sapeva di poter soffrire.
Ma non lo faceva sentire meglio.
   
 
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