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Autore: Shadow_Walker    28/04/2016    1 recensioni
“Preferirei morire, piuttosto che abbandonarti”
“Io preferirei saperti vivo e lontano da me”

[ Pete / Patrick | zombie invasion!AU ]
Genere: Angst, Azione, Horror | Stato: completa
Tipo di coppia: Yaoi, Slash | Personaggi: Patrick Stump, Peter Wentz
Note: AU | Avvertimenti: Contenuti forti
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Fandom – Fall Out Boy
Personaggi – Patrick Stump, Pete Wentz
Zombie Invasion!AU
One shot
 

Down with the sickness
 
 
“Shh, tranquillo” Patrick poggia un dito sulle labbra gonfie e distrutte di Pete, che geme di dolore. “Tranquillo, andrà tutto bene” Gli accarezza i capelli, ormai completamente scuri – la tinta bionda è scomparsa in fretta –, tentando di placarlo.
“Lo sento muoversi”, mormora Pete, febbricitante, gli occhi lucidi e spiritati. “Dentro. Qui” Solleva un braccio con immensa fatica, posando la mano sullo stomaco. Poi la fa scorrere, più su, all’altezza del cuore. Patrick trattiene le lacrime e si morde il labbro inferiore sino a farlo sanguinare. Vorrebbe supplicarlo di non morire
 
(non morire Pete, non morire)
 
ma ha paura di pronunciare la parola “morte”. Se la pronunciasse, diventerebbe una possibilità. O, peggio, una certezza.
“Resisti, ce la faremo” Si china a baciargli la fronte, dolcemente. È rovente contro le sue labbra, e questo lo spaventa ancora di più. Mantiene un’espressione sicura, però – o quella che pensa sia un’espressione sicura, almeno. Non deve mostrare quanto sia in realtà disperato. Non fa che trattenere urla ed emozioni, negli ultimi tempi, pensa amaramente. Ma sa che deve continuare ad essere forte, o almeno a sembrarlo, per Pete. Per Pete.
“È ora di cambiare le bende”, dice, più a sé stesso – per prepararsi – che al compagno ferito, che sembra essersi estraniato completamente, rifugiato nella propria fortezza mentale, a combattere contro il Virus che lo sta divorando dall’interno. Patrick solleva la maglietta lercia di Pete sino al collo e comincia a rimuovere le bende. All’inizio va veloce, poi rallenta. Le bende sono completamente impregnate di sangue e si sono attaccate alla ferita. Pete grida e lacrime scorrono sul suo viso congestionato, quando finalmente Patrick le rimuove. Gli si rivolta lo stomaco a quello spettacolo, e per fortuna non ha nulla da vomitare. Lo vede ogni giorno, ma ancora non ci ha fatto l’abitudine.
“È migliorata”, mente, mentre Pete ansima nello sforzo di non urlare ancora. Patrick continua ad emettere rassicuranti versi – Shh, shh –, tirando fuori dallo zaino disinfettante, acqua e bende pulite. Rimane poco ancora di tutte e tre le cose. Ma sono quasi alla fine. Sono quasi arrivati. Ce la possono fare.
Versa un po’ di acqua sulla ferita, ripulendo i bordi con lentezza e precisione, tentando di non far male a Pete, ma soprattutto pensando ad altro, perché non vuole credere che quel corpo dilaniato sia del suo migliore amico, della persona con cui ha passato tra i più belli momenti della sua vita. Nella sua mente tenta di ricordare una vecchia canzone allegra, qualcosa che gli risollevi il morale,
 
(Pete gli chiedeva sempre di cantargli qualcosa, quando era giù, e lui sbuffava e alzava gli occhi al cielo, ma dopo un po’ si decideva a cantare, e quando vedeva il viso dell’altro distendersi e rilassarsi, non poteva far altro che sentirsi felice di rimando)
 
ma è inutile, sembra che la parte del suo cervello incaricata di memorizzare la musica sia completamente andata. Continuano a tornargli in mente delle stupide filastrocche per far addormentare i bambini
 
(lullaby, and goodnight, in the sky stars are bright, round your head, flowers gay, set your slumbers till day)
 
canzoni che non sente da un sacco di tempo, e che gli ricordano immancabilmente casa – il profumo di sua madre mentre cucina, la voce confortante di suo padre, gli schiamazzi dei suoi fratelli.
È il turno del disinfettante, che sfrigola inutile sulla carne viva e scoperta del fianco. Patrick sa di starlo sprecando. La ferita di Pete, quel tipo di Ferita – che il suo cervello ha memorizzato anche come l’Orrore e Infenzione e La Cosa, nomi da film dell’orrore e più realistici, forse –, non si può curare con dell’acqua tiepida e del semplice disinfettante rubato a un morto. Per quella Ferita ci vuole uno squadrone di medici qualificati. O, più probabilmente, Dio stesso.
Ma non si arrende. Se non usasse la poca roba che ha dentro lo zaino, si sentirebbe ancora più inutile di quanto non si senta già. Srotola le bende e le avvolge sull’Orrore, coprendolo momentaneamente. Riabbassa la maglietta di Pete, e sistema ordinatamente acqua, disinfettante e bende rimaste nello zaino.
Pete socchiude gli occhi, fissandolo senza dir nulla.
“Dovresti lasciarmi qui”, dice dopo un po’, e per l’ennesima volta ripete le parole che Patrick odia. Lasciarlo lì. Sembra facile, a lui. Ci ha pensato, una volta, subito dopo che era stato morso. Quando Joe gli ha detto sottovoce “È spacciato”, e lo sguardo di Andy ha confermato quella che non era più una possibilità per loro, ma una certezza. Ci ha pensato, di andare con loro e lasciarsi alle spalle quell’uomo spacciato. Ma questo pensiero è durato meno che una frazione di secondo, e lo sguardo di Andy e le parole sincere e dispiaciute di Joe sono valse meno che niente. È finita lì, settimane o secoli prima, e adesso come allora la sola idea gli sembra più orribile dell’Orrore che Pete conserva sotto quella maglietta consumata.
“Non potrei mai, lo sai”, risponde Patrick. Hanno ripetuto quella conversazione miliardi di volte. Pete si dimentica presto delle cose che dice, come un bambino molto piccolo o un vecchio in punto di morte. Deve essere paziente. E lo è. È paziente, Patrick, adesso.
 
(gli tornano in mente tutte le volte che hanno litigato, tutte le volte che ha perso la pazienza con lui – “Sei un tale idiota, Wentz” ripetuto troppe volte, e troppe volte urlato)
 
È un suo dovere, adesso.
“Ma dovresti”
“Zitto, non sprecare energie” Un copione. Stanno seguendo un copione, recitano in un teatro deserto. Ogni tanto qualche cadavere ambulante fa capolino, si guarda attorno, con le sue mascelle scardinate, gli organi scoperti, pronto a trasmettere il Virus, e a loro tocca – a lui, a Patrick, perché Pete non è più in grado di combattere da molto molto tempo – combattere e ucciderlo. Uccidere l’unico spettatore di quel dramma che è la loro vita… quel che rimane della loro vita, anzi.
“Ti rallento. Senza di me, saresti già arrivato alla Base da settimane” Pete biascica, è quasi impossibile comprendere ciò che dice. Parla sempre della Base. Sono andati lì Andy e Joe e chissà quante altre persone, in cerca di cibo e medicine e sicurezza, soprattutto. È un posto sicuro, inaccessibile agli zombie. Ci sono persino dei militari, si dice. Se vuoi sopravvivere, devi raggiungere la Base. Sembra la missione di un videogioco, uno di quelli che andavano tanto di moda tra i ragazzini prima che scoppiasse tutto questo casino. Apocalisse Zombie, ecco come potrebbe chiamarsi. Un titolo classico. Qualcosa che ti dia subito l’idea di ciò che passerai.
“Non importa, Pete, io non ti lascio”
Pete gli rivolge uno sguardo confuso e tuttavia penetrante, poi accenna un sorriso. Triste, rassegnato.
“È quasi finita, sai. È troppo tardi per me”
Patrick scuote la testa. Nega le sue parole, anche se sa che ha ragione.
 
(non pronunciare la parola con la “m”, Pete, non pronunciarla, ce la faremo, ce la farai)
 
“Zitto”
“Sai qual è il pensiero che mi martella in testa da giorni?”
Non vuole saperlo (ma vuole saperlo).
Fa cenno di no.
“Voglio divorarti. Letteralmente, non come un tempo. Mordere la tua carne e succhiare il tuo sangue e ridurti in poltiglia”
“Pete…”
“Cerco di trattenermi. Ma ogni ora che passa, ogni nuova alba che vedo, è sempre più difficile…” La sua voce sfuma in un mormorio. Chiude gli occhi. “Lasciami qui. Scappa finchè sei in tempo”
Patrick sente l’irrefrenabile istinto di prenderlo a sberle. Riesce a frenarlo, però.
“Preferirei morire, piuttosto che abbandonarti”
“Io preferirei saperti vivo e lontano da me”
Silenzio.
“Lo sai che ti amo”
“Anche io”
(non ha importanza chi l’ha detto per primo in questo momento, non è più una sfida, solo due ragazzi, due uomini perduti che si dichiarano l’un l’altro, a voce alta, dopo anni di sottointesi e sussurri sotto le lenzuola)
 
Ξ

Patrick estrae una barretta dalla tasca dei jeans. Ha fame, ma con quella riesce a convivere, si è dovuto abituare. Mangia più per tenersi sveglio. È il suo turno di guardia. È sempre il suo turno di guardia, in realtà, adesso che Pete è peggiorato, ma è di notte che deve fare più attenzione. Gli zombie escono con il buio. Hanno sviluppato una vista notturna migliore di quella di animali come gatti o gufi, e adorano arrancare per le strade in piccoli gruppetti, alla ricerca di prede. Di notte Patrick è in svantaggio, e ha paura. La notte è crudele e lo acceca, e in alto, cucita nel cielo, luminosa ma non abbastanza, la Luna ride di lui e dei suoi sforzi. Quando il sole sorge, il suo cuore comincia a rallentare e per pochi attimi ogni giorno si sente felice. Ma l’alba oggi non è ancora arrivata. Quindi lui mangia.
Pete si sveglia a intervalli irregolari. Spalanca gli occhi ed emette gemiti sofferenti. Se potesse, urlerebbe, ma ha poca voce e forza. Il che è una sfortuna quanto una fortuna: le urla lo aiuterebbero a sfogarsi, ma le urla catalizzerebbero anche l’attenzione dei predatori su di loro.
Verso le due – l’orologio da polso di Patrick è l’unica cosa che ha continuato a funzionare dall’inizio dell’apocalisse –, Pete gli afferra un mano e gli chiede aiuto. Guarda alle sue spalle con gli occhi sbarrati e dice che devono scappare. Patrick capisce: allucinazioni. Non sono un buon segno. Lo abbraccia e lo consola finchè non si calma e torna nuovamente a dormire.
Alle tre e sedici minuti, mentre Patrick sta aprendo un’altra barretta di cioccolata, si sveglia ancora, ma è stranamente lucido e non parla. Si limita a guardare le stelle, la testa poggiata sulle cosce di Patrick. Cerca la sua mano e la stringe, un gesto che esprime ciò che prova più di mille parole.
Se non fossero in costante pericolo, quella sarebbe una bella notte. Le stelle brillano, sebbene la Luna sembri ancora sogghignante e sardonica agli occhi di Patrick, e gli ricordano sere d’estate passate sdraiati in veranda, a raccontarsi un futuro assieme e bere birra artigianale, unica compagnia il frinire dei grilli e il frusciare del vento tra gli alberi.
Entrambi chiudono gli occhi e ritornano in quella veranda per qualche minuto, e il dolore, la sofferenza, la paranoia, scompaiono.

 
“Pensi che mi faranno entrare alla Base? Sono infetto”
“Lo faranno, o li ucciderò tutti”
 
Ξ
 
Incontrano altre persone che si dirigono alla Base. Una donna, suo marito, e una vecchia. La donna ha lo stesso Orrore di Pete, sul collo. Ma sembra ancora energica. Dev’essere stata morsa da poco. Lei ce la può fare. Patrick la invidia e invidia i suoi familiari.
Camminano fianco a fianco con i tre. L’uomo aiuta Patrick a portare Pete, e finalmente l’ex cantante può riposare la notte. Il cibo rimane poco, ma le armi sono aumentate. Oltre alla pistola, alla mazza da baseball e al coltello di Patrick, adesso ci sono anche il fucile dell’Uomo e la pistola della Donna. (A nessuno importa sapere il nome altrui, non in questo mondo crudele)
Quando gli zombie li attaccano, la prima volta, riescono a eliminarli con facilità.
La seconda volta, però…
Sono di più. Ecco, è la fine, pensa Patrick. Ci sono almeno cinquanta zombie e loro hanno due feriti, una vecchia e pochi proiettili. Ed è notte.
Patrick alza lo sguardo e la Luna sorride compassionevole. Anche lei sa che è arrivata la fine per loro.
Non gli resta che correre.
 
 
Pete? Dove sei?
Dov’è?
Ha perso la sua mano.
Si volta da una parte all’altra e lo individua, supino, sul cemento, a pochi metri di distanza. Gli zombie sono lenti, ma sono più vicini a lui, anche.
Patrick impreca, prende la mira e spara. Lo zombie chinato su Pete crolla a terra, ma si rialza subito. Spara di nuovo
 
(meno due proiettili, due proiettili sprecati)
 
e la testa dello zombie rincula all’indietro. Non basta. Patrick si aggancia la pistola alla cintura ed estrae la mazza da baseball. Corre, veloce, il cuore che pompa, l’adrenalina che scorre, arriva al fianco di Pete e lo supera, cala la mazza sulla testa del mostro… cervella e sangue si spargono un po’ ovunque. Uno schizzo gli arriva in faccia, gelido, disgustoso sangue marcio. Non ci fa caso. Altri zombie stanno arrivando. Si volta, rapido, ne colpisce uno, due, tre. Mentre li finisce con il coltello – decapitarli, ecco la soluzione, proprio come i vampiri –, sente Pete vomitare. Si gira e si accorge che sta vomitando sangue.
Sangue.
Lascia cadere la mazza a terra, dimentico di tutto. Sente l’Uomo che corre e spara, e sente altri zombie che grugniscono e muoiono, ma non ci fa veramente caso. Sangue cola dalla bocca di Pete, bava rosata fuoriesce dagli angoli delle labbra. Crolla accanto all’uomo, lo prende tra le braccia mentre si contorce e grida. Erano quasi arrivati. Mancava un tanto così. Pochi chilometri ancora… è finita.
Vede la sua pelle diventare sempre più cerea, ruvida, morta. Le ferite cessano di sanguinare quasi del tutto. Gli occhi castani si spengono, la luce umana scompare. Pete gli afferra un braccio e stringe. È terribilmente forte. Digrigna i denti e si avventa su Patrick, che lo spinge via per puro istinto.
“Pete!”, urla, la voce spezzata e colma di angoscia. “Pete, sono io!”
I due uomini si fronteggiano. L’essere che è stato Pete è goffo, ma letale. Quando attacca, Patrick è svelto a spostarsi, consapevole che una volta tra le sue grinfie sarebbe solo cibo per lui.
“Non ricordi?”, tenta ancora. Il suo piede destro sfiora la mazza da baseball, un pensiero orribile affiora nella sua mente. Lo scaccia. Non ucciderà Pete. Non lo farà
 
(lo farai)
 
Pete lo osserva con occhi circondati da aloni scuri e pesti, occhi non più umani. Grugnisce. È l’unico verso che gli zombie riescono a produrre.
“Spostati, Ragazzo” L’Uomo, dietro di lui, imbraccia il fucile ed è pronto a sparare.
“No!” In quel momento pensa che avrebbe dovuto chiedergli il nome. Urlare “No, Mark, non farlo!”, fa più effetto che dire “No!” e basta.
Pete avanza verso di lui. Emette un altro grugnito… che sembra più un grido, in realtà. Poi crolla a terra e lì rimane.
Fanculo. Che importa? Patrick corre verso di lui
 
(fanculo il rischio fanculo quell’Uomo fanculo tutto)
 
E si inginocchia al suo fianco, scuotendolo leggermente. Il suo primo pensiero, la prima preghiera è Fa che non sia morto, poi si rende conto dell’assurdità di ciò e scoppia a ridere istericamente. Pete spalanca improvvisamente gli occhi a quel suono – un suono familiare –, e lo fissa. Non fa nient’altro. Una lacrima cola da un occhio.
“Pete? Sei lì?” Patrick si china su di lui, gli tiene il viso tra le mani. Pete muove le labbra ma non emette suono. C’è speranza. Non si era mai visto uno zombie reagire così…
Continua a muovere la labbra e inizialmente Patrick non capisce.
Poi legge:
uccidimi
fai in fretta
e
ti amo.
Patrick lo bacia, la bocca gli si riempie di sangue, la vista gli si offusca sempre di più. Non può farlo. Non può ucciderlo, come non ha mai potuto abbandonarlo. Sa che sarebbe la cosa più giusta da fare. Un atto di misericordia estrema, e d’amore. Pete morirebbe da Pete. E vedrebbe lui, l’uomo che ama, per ultimo. Ma come potrebbe vivere lui, poi? Con quel peso sulla coscienza, con il pensiero di aver ucciso l’uomo che lo amava e che amava?
Egoista.
“Ti porto alla Base. Ti porto alla Base. Vedrai, starai bene…”
Si volta verso l’Uomo, che li fissa con la stessa compassione della Luna sopra di loro, il fucile in mano. Patrick supplica con lo sguardo e lui comprende e annuisce.
“Staremo bene. Ti amo”
Un ultimo sparo. Occhi incatenati che si offuscano.
Corpi che giacciono sull’asfalto, abbracciati, eterni amanti.
Staranno bene, assieme, così, in un altro mondo.

 

Note – "Down with the sickness" è anche il titolo di una delle mie canzoni preferite dei Disturbed. 
 
  
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