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Autore: solomonty    05/05/2016    4 recensioni
Ha il potere di imparare.
Ha voglia di conoscere.
I robot possono essere crudeli e insensibili, ma possono anche insegnare l’amore e l’amicizia.
Sarà una scoperta fondamentale.
Genere: Commedia, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Crack Pairing
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Il quinto livello




Passò le dita lunghe sul viso mentre i polimeri di cui era fatto si deformavano sotto la pressione.
Si guardò allo specchio indugiando sulla lunga cicatrice che partiva dal naso e scendeva verso l’orecchio sinistro e si chiese perché mai interessasse così tanto gli altri.

Barbie Caramell, prima di salire i gradini del palazzo dell’Accademia, storse le labbra rosa all’ingiù e indicò il solco che gli deturpava la faccia.
“Perché il tuo umano ha fatto una scelta del genere?” chiese con un tono di voce che il suo cervello positronico codificò come ironico.
“Non gliel’ho mai chiesto, ma conoscendo il suo modo di pensare reputo sia dovuta a un motivo strettamente personale” la voce gli uscì atona, piatta.
Lei alzò una spalla in un vezzo molto femminile.
“Ti ha fatto brutto, sciocco che non sei altro.”
“Non sono brutto e tanto meno sciocco, Barbie” rispose puntualizzando ogni parola.
“Certo che lo sei… guarda me.” Con la mano allungata si accarezzò tutto il corpo: caviglia, ginocchio, coscia, ventre, seno, collo e, per finire, sotto il mento con un divenire di dita affusolate. “Io sono bella, Andro” concluse.
Lui aveva seguito quella mano delicata per tutto il percorso elaborando i dati che arrivavano al cervello tramite i suoi occhi cibernetici. La risposta era stata ovvia: R Barbie Caramell era perfetta, corrispondente ai canoni tradizionali della bellezza, ma a lui non interessava assolutamente. “Secondo il programma scelto dal tuo umano… sai che sforzo!” rispose svelto; si voltò allontanandosi lasciandola con la bocca di polimeri rosa aperta.

“Scelta personale” sussurrò alla propria immagine riflessa nello specchio. Doveva quella cicatrice a un pirata spaziale che lottava per la pace e la libertà. L’umano ne era rimasto affascinato da ragazzo e lui aveva ereditato quell’amore giovanile. Quel tipo di letteratura era tornata in voga quando, a intervalli quasi regolari, i pirati avevano ripreso a scorrazzare per la galassia.
A sua volta, Andro era stato affascinato dalla figura magra e sofferente di quel pirata di carta e aveva abbracciato la sua solitudine e tristezza. Tutto ciò grazie a degli algoritmi che codificavano le emozioni e che lui, robot di quinto livello, poteva fare proprie.
Il pirata era stato sfregiato in un momento topico della sua avventura e la cicatrice gli avrebbe ricordato per sempre il suo amore perduto, caduto per la resistenza.
Libertà, amore, tristezza… emozioni finora sconosciute si facevano posto nel cervello di Andro, con una forza e una prepotenza che lui stesso definiva feroce. Il suo umano lo aveva avvertito: appartenere al quinto livello avrebbe significato crescere e di conseguenza soffrire.
Gli altri robot deridevano il suo sfregio e cercavano di allontanarlo con frasi e atteggiamenti crudeli. All’inizio aveva provato a ignorare la cosa, ma col tempo si era reso conto che i robot del quinto livello assomigliavano un po’ troppo agli umani e quell’atteggiamento non solo non gli piaceva, ma era anche doloroso e aveva contribuito ad abbassare la stima che aveva di sé. Allora aveva deciso di starsene per conto proprio, inconsapevole di comportarsi come molti adolescenti umani.

“Sì, è meglio così… sto per i fatti miei, ignoro chi mi deride! Se sto da solo nessuno può cacciarmi via; molto meglio la solitudine… soffro di meno” s’era detto tante volte e per un po’ era andato tutto bene.
Nel tempo che aveva a disposizione, Andro aveva studiato tutte quelle discipline che rendono gli uomini degli uomini migliori. Così la sua cultura era accresciuta: aveva studiato arte, filosofia, matematica, letteratura; la sua intelligenza artificiale poteva incamerare miliardi d’informazioni e si era accorto che più sapeva, più voleva sapere.
Il suo umano l’aveva chiamato R Andro Château d’ If e gli aveva appioppato uno sfregio sul volto. Quando aveva chiesto spiegazioni, Henry gli aveva detto che Andro significava “uomo”, che Châteu d’ If (come lui stesso avrebbe saputo in seguito alla lettura de “Il conte di Montecristo”) rappresentava la conoscenza che porta alla libertà e che quella cicatrice finta e al tempo stesso vera lo avrebbe fatto soffrire e maturare.
È una fatica essere umani, aveva pensato; avrebbe potuto restarsene un robot ignorante d’emozioni e tutto sarebbe stato più facile. Essere un robot di quinto livello, però, significava avere un ruolo attivo nella società: dopo un periodo di praticantato all’Accademia, i robot di nuova generazione coadiuvavano gli umani nel governare meglio; affiancavano gli insegnanti nell’educazione dei più giovani; sedevano nel Consiglio di Guerra a rappresentare e testimoniare l’accaduto storico, memoria e studio di ogni campagna che la galassia aveva prodotto da tempo immemorabile: solo un robot poteva ricordare la teoria della Testuggine Romana, le Termopili degli Spartani, l’invasione delle Miniere di Azur o la battaglia multitemporale affrontata dai reietti di Bottom.
Il robot di quinto livello faceva propria la Legge Zero con tutto quello che umanamente e filosoficamente significava.
“Tutto molto interessante, importante, ma la cicatrice era così necessaria?” Quella frase ritornava spesso a invadergli la mente e lui se ne stava sdraiato, mani dietro la testa, a guardare il soffitto della propria stanza per giorni o settimane.

Era un pomeriggio qualunque quando il “Toc Toc” elettronico suonò nella sua stanza.
“Avanti” rispose con apatìa sollevandosi su un gomito.
R Samuel Juke Cylinder Barber si affacciò sulla soglia della porta scorrevole.
“Hai bisogno di qualcosa, Sam?” Andro tirò giù le gambe dal letto per sedersi.
“Quali sono i colori che preferisci?” la voce suadente e femminile lo interrogò in uno sfarfallio di luci.
“Quelli primari: blu, rosso e giallo anche se forse sarebbe più appropriato insegnarti che la cortesia e l’educazione impongono di rispondere alle domande che vengono poste” spiegò con comprensione.
“Grazie, Andro, sono certa che mi insegnerai molte cose” pigolò partecipe mentre i led che aveva su tutta la superficie del corpo iniziarono a brillare intermittenti nei tre colori che le aveva appena detto.
Il cervello positronico di Andro apprezzò quella girandola colorata e il robot sorrise.
“Sono contenta di vedere il tuo sorriso… sei sempre così taciturno e triste” disse Sam soddisfatta.
“Sono pensieroso: Henry mi ha fatto così” spiegò allargando le mani palmi in su. “Perché sei qui?” chiese nuovamente.
“Voglio fare qualcosa per te, voglio renderti felice”; si circondò di led blu che risalivano in spire che poi si proiettavano all’esterno lasciandola circondata di un alone colorato.
Andro si alzò e la toccò.
“Sei molto gentile, grazie, ma non vedo come” disse con il tono che si usa per smorzare un entusiasmo.
“Te lo farò vedere io” rispose immediatamente; “vedere in senso figurato, naturalmente” aggiunse con una certa soddisfazione nella voce.

Sam era un robot di quarto livello. L’intelligenza artificiale era identica a quella di Andro, così come il cervello positronico. Aveva l’algoritmo dell’autocoscienza bloccato per non codificare la Legge Zero; non era dotata di un corpo umanoide, non aveva una sessualità definita anche se l’umano le aveva dato una voce femminile. Sam scherzava spesso sul fatto che fosse una femmina ma avesse un nome da maschio: Samuel Barber.
Henry le aveva garantito che avrebbe fatto di lei un robot di quinto livello anche se avrebbe voluto dire ristrutturarla completamente: il suo corpo era cilindrico, formato da tre blocchi, alto poco più di un metro e settanta e largo circa cinquanta centimetri; aveva due led giganti al posto degli occhi, vari bottoni e rotelle, con i giunti snodati, per muoversi. Tutta la sua superficie era tempestata di lucine che poteva accendere.
La sua cultura non era ampia come quella di Andro: Samuel era più “giovane” e aveva tante cose da imparare ma conosceva la musica come nessuno nel Sistema Solare. Ogni nota composta, ogni lirica scritta nella galassia era presente nel suo database e la cosa strabiliante era che Henry fosse riuscito a dotarla del dono del canto.
Da quando era stata creata aveva dimostrato una curiosità molto forte verso Andro; stando a quello che aveva detto a Henry, le piaceva molto e lo sbirciava spesso, soprattutto quando vagava per il giardino con la testa fra le nuvole a pensare a chissà cosa.

“Ti sei mai collegato?”
“Parecchie volte.”
“No, intendo in profondità, fino a conoscere l’altro terminale.”
“Cosa dici, Sam? Ovvio che conosco l’altro, è normale!” affermò serio.
Lei aveva sbuffato e muovendo le rotelle era uscita sul portico dietro la casa. Emise parecchi beep e si accese tutta di blu, giallo e rosso.
“È il momento perfetto” sospirò.
Le sopracciglia di Andro si incurvarono incuriosite.
“Coraggio, collegati!” ordinò Sam.
Lui appoggiò le mani sul secondo cilindro.
I robot come lui non avevano bisogno di cavi o di collegamenti wireless. Potevano acquisire qualunque informazione su qualsiasi apparecchiatura elettronica solo esprimendo la volontà di farlo. Toccare significava conoscere ogni minimo dettaglio, ogni microfilamento di palladio e oro, ogni nanovite nella scocca; una conoscenza profonda.
“Non così, tonto di un quinto; circondami con le braccia” lo incitò sbuffando.
“Non sono tonto, Sam! Va bene, così?” chiese stringendola in un buffo abbraccio.
“Va meglio, sì. E ora chiudi gli occhi e lasciati andare” disse a bassa voce.
“Dove devo andare?”
Sam si rese conto di quanto Andro fosse ingenuo nonostante l’intelligenza arguta.
“Segui me” rispose in un soffio.

Quando Sam cominciò a cantare, Andro riuscì a stento a tenere gli occhi chiusi. Con la mente poteva sentire la musica entrare in contatto con lui, raggiungere il suo ipotalamo per farlo felice. Non aveva mai provato un’emozione come quella e sentì ogni parte di sé entrare in eufonia con ogni parte di Sam.
L’aria “Un bel dì vedremo” che lei gli stava cantando era dalla “Madama Butterfly” di Giacomo Puccini, un artista dei tempi remoti. Le parole erano d’amore e speranza, così giuste con le note che l’insieme che ne usciva era al tempo stesso ovvio e struggente.
Andro pensò che il suono singolo di ogni nota non rendeva merito alla successione matematica miscelata al genio del compositore e con sua sorpresa il cuore, di fibra di carbonio a nanotecnologia liquida, che aveva nel petto, cominciò ad accelerare. Sentì stringere la trachea e piegare le ginocchia; aprì gli occhi sconcertato e fissò sbigottito il nulla aggrappandosi a Sam.
Rimase in quella posizione strana per tutta la durata del canto, avvolto nelle luci dai colori preferiti che lei sprigionava. Quando Sam smise di cantare Andro non sembrò essersene accorto e continuò a stringerla.
“Ti è piaciuto?” chiese Sam dopo un po’, con voce soddisfatta: sapeva benissimo cosa fosse accaduto perché anche lei era collegata a lui e aveva sentito ogni cosa.
“Per le sabbie di Arrakis, Juke… è stato bellissimo” sospirò con voce flebile. La lasciò andare e si sedette a terra, a gambe incrociate, di fronte a lei.

Non avevo mai sentito cose così strane dentro di me; non so neanche come chiamarle, al momento… sono scombussolato e agitato e triste, ma anche felice… non capisco” mormorò confuso.
“Non c’è nulla da capire, Andro, ti sei emozionato… la musica fa di questi scherzi” lo tranquillizzò.
“Voglio sentirne ancora; canta per me, Juke!”
E lei cantò.

Da quel momento erano diventati inseparabili; si scambiavano tante informazioni e Sam riusciva anche a farlo cantare, di tanto in tanto, in cambio di una poesia o della spiegazione di un teorema che lui le insegnava. Samuel era contenta di conoscere la Teoria dei Quanti o il meccanismo di un motore a scoppio e si infervorava ai racconti delle lotte di classe dell’ impero Kundur; lui trovava inquietanti i “Canti Gregoriani” e poi intonava insieme a lei tutta l’opera di Nacothar Suluth del pianeta Paidei. Ballare, però, era una faccenda controversa: Andro si rifiutava categoricamente perché lo riteneva inappropriato, nonostante l’incitamento di Sam. La verità era che trovava grosse difficoltà nel coordinare le proprie leve armoniosamente e non credeva nell’entusiasmo di Sam quando gli diceva che l’esercizio lo avrebbe reso perfetto.

“Non ti dà fastidio la mia cicatrice?” le chiese un giorno, quando le loro chiacchiere si fecero personali.
Prima di rispondere Sam beeppò due o tre volte e poi si accese dei tre colori primari.
“Mi piace la tua cicatrice, Andro.”
“Davvero?” chiese ancora, stavolta sorpreso.
Sam ragionò sul fatto che, nonostante Andro fosse un robot, e di quinto livello - uh! - era anche un maschio e quindi un po’ tardo su determinate cose.
“Mi piace perché quella cicatrice rende te, te” spiegò seria.
“Dal tuo tono dovrei capire di cosa stai parlando… puoi spiegarmi in modo che non possa sbagliare?” si sentì un incompetente ma non se la prese a male.
Sam lasciò andare qualche nota musicale e poi si riempì di lucine rosse; “mi piaci tu; mi piaci come sei, anche se non sai ballare, e voglio stare sempre insieme a te… ti è chiaro adesso?”
Andro sorrise e appoggiò la fronte sul cilindro alto.
“Tu sei fortunata, Juke, ma anche se io non posso colorarmi, sappi che ho le guance rosse per l’imbarazzo.”
Tripudio di lucine rosse intermittenti.
“Io ti piaccio, stai bene con me? anche se insisto a volerti insegnare a ballare?” chiese lei, stavolta, con la voce calma e morbida.
“Mi piaci tantissimo: sei così argentata e piena di queste luci divertenti, canti come un usignolo, mi insegni delle emozioni potenti e mi fai sentire felice… e non ti importa nulla della mia cicatrice… poi, sicuramente, mi insegnerai a non sbatterti contro mentre balliamo la Quadriglia” Andro rispose con enfasi muovendo le mani e lo sguardo a cercare quei led giganti che Sam aveva per occhi.
Lei imitò il cinguettìo degli usignoli e poi via a sparare ologrammi a forma di cuori rossi tutto intorno. Andro batté le mani divertito.
“Mi spiace solamente che non possa dirti chi sono: se un maschio o una femmina… Henry vuole pensarci ancora un altro po’” borbottò dimessa.
“A me non importa niente, invece… non dobbiamo generare dei piccoli robot. Sei Juke, mi interessa solo questo!” disse serio nel tono anche se aveva un sorriso soddisfatto sulla faccia.
Ancora luci, ancora beep, più qualche strombettata.
“È da un po’ che mi chiami Juke.”
“Lo so.”
“È un modo molto intimo e personale.”
“Lo so.”
“Mi piace quando pronunci “Juke”.”
“Piace anche a me.”
Andro fece qualche passo allontanandosi da lei. “Andiamo, voglio insegnarti a riconoscere le stelle di Magna δ 421” disse facendole un gesto.
“Più tardi; adesso abbiamo la prima lezione di Hully Gully.”
“Hully, cosa?” chiese allarmato e subito dopo attinse l’informazione dal suo database. “Non ballo, lo sai” brontolò.
“Dovrai pur imparare, no?”
“No! Non sono capace.”
“Per uno di quinto livello come te sarà una bazzecola.”
“Non sono capace, sono ridicolo e smettila di ironizzare sul mio livello!”
“Sei molto carino quando tenti di ballare.”
“Carino? Tenti? Sei un robot, come parli?”
“Non lo so, mi sento piuttosto umana… se avessi le ginocchia mi tremerebbero” disse e sparò in aria i led a formare cuori e stelline.
“Ah, non le hai però!” rise indicandola.
“Ma tu, sì… e sgambetterai per me” gracchiò convinta.
“Non riuscirai a convincermi” scosse la testa energicamente e si allontanò agitando le braccia in modo scomposto.
“Dai, una lezione di ballo per due di astronomia” lo raggiunse Sam.
“Sul serio?”
“Quando mai non sono seria?”
“Non si risponde a una domanda con una domanda.”
“Mi diverto quando ti impunti…”
Qualche ologramma a forma di fuoco d’artificio, svoltarono per il vialetto e botto finale.

 

 

Questa storia partecipa al contest “Storie di robot” di M.Namie indetto sul forum di EFP.
Non è stato facile scrivere questa fic: dare voce e sentimento a un robot va contro il mio modo di pensare, ma la sfida è stata allettante proprio per questo.
Ho attinto di qua e di là, dai ricordi d’infanzia, dalle letture preferite e spero d’aver fatto un lavoro decente:
il mio Andro Chateau d’If è ispirato a Umeda Andro di Tekkaman e Châteu d’ If è lo "Château d’ If" della spiegazione;
il pirata spaziale con la cicatrice è Capitan Harlock, naturalmente;
cervello positronico, Regola Zero, ecc sono il mondo di Isaac Asimov, così come la R di robot nel nome;
le miniere d’Azur, l’impero Kundur, il compositore Nacothar Suluth, il pianeta Paidei e la galassia Magna δ 421 me li sono inventati mentre Bottom è il nome del mio gatto;
Samuel Barber (1910-1981) ha composto “Adagio for Strings”, bellissimo e straziante;
“acquisire” solo con la volontà di farlo è il peculiare potere di Gabriel “Sylar” Gray di “Heroes”;
Arrakis è il pianeta Dune di Frank Herbert.

Cecilia, grazie per non avermi lasciato affondare; senza di te non ce l’avrei fatta!
Monty

 

Disclaimer: il cervello positronico, Capitan Harlock (non citato per nome), la Legge Zero, la R di robot nel nome, “Il conte di Montecristo”, la teoria dei Quanti, i Canti Gregoriani e Arrakis non li ho inventati io. Mi sarebbe piaciuto, però.

  
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