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Autore: Sethmentecontorta    06/05/2016    2 recensioni
|fantascienza|robot|1891 parole|malinconica|seconda classificata al contest "storie di robot" indetto da Monique Namie sul forum di EFP|

Ricordo quando aprii gli occhi sul mondo. Rimasi abbagliata dalla luce e stordita dalla tua voce. Era così calda, lievemente roca, mi piacque tanto che ancora oggi fatico a trovare una voce capace di colpirmi come fece la tua. Ricordo il tuo modo di fare, la tua schiettezza, il tuo continuo fare noncurante ed insofferente verso qualunque cosa. Eppure ricordo anche i tuoi occhi brillare, quando note di pianoforte vibravano fra di noi, ricordo la sensazione di poter sentire la tua pelle calda.
Lo ricordi il tempo passato insieme? Le canzoni al pianoforti, i concerti solo per noi due? Ricordi ancora i tramonti e le albe, il cielo splendente che ammiravamo accocolati su quel divano bianco, contando le stelle? Lo spartito che rubasti quando mi dicesti addio, lo conservi ancora con cura? L'hai appeso su qualche parete, come facevo io, o l'hai riposto in un cassetto? Lo prendi ancora in mano, di tanto in tanto, ricordando il mio amore?

Hai ripreso a sognare, Nathan?
Genere: Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Incompiuta
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Seth's corner: Salve miei cari, io sono Seth, e questa è la mia prima originale con un minimo di trama. Permettetemi di spendere due parole, prometto che sarò breve. Come avete potuto leggere dalla descrizione, questa fanfiction partecipa ad un contest, sono sempre su di giri quando si parla di contest, per cui sarei davvero felice se mi poteste lasciare un commento, un parere, un insulto, ciò che volete. Mi prendo questo spazio per dirvi che l'immagine che potete vedere qui sotto al titolo l'ho realizzata io in verità una volta era un viso intero, ma l'anatomia faceva schifo quindi ho preso solo l'occhio, ed io sono molto incapace con gli acquerelli, è tipo la seconda volta che li utilizzo, per cui capite se non è proprio un capolavoro. L'altra cosa che voglio dirvi è questa fic ha una "soundtrack", Nostalgia, che è la canzone dello spartito che Nathan  "ruba" a Blu, per cui se volete potete ascoltarla per accompagnare la lettura. 
Detto ciò, vi lascio liberi di proseguire, buona lettura, my dears!

 


Ricordi impressi sulle note di un pianoforte 

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Sospirò, volgendo per l'ultima volta lo sguardo a quelle mura bianche, ricoperte di spartiti musicali che le adornavano coi loro ricami neri, come pizzo pregiato su di un abito color neve. Aveva atteso il giorno in cui non sarebbe stato più loro prigioniero con trepidazione. Sarebbe stato il giorno della sua salvezza, il giorno in cui quell'esperimento ai suoi occhi assurdo sarebbe terminato, il giorno in cui avrebbe finalmente guadagnato i soldi per riparare la sua doccia, che avrebbe così smesso di sputare acqua gelida quando la impostava calda. Ora invece, nell'abbandonare quella stanza, sentiva come se qualcosa di molto importante stesse venendo strappato via dal suo cuore.
Staccò uno di quei fogli da una delle pareti, ammirando quei piccoli disegni d'inchiostro che vi erano impressi. Era la sua melodia preferita, quella che quando aleggiava nella stanza lo faceva tornare a sognare, per la prima volta dopo anni. Lo infilò nel suo borsone, a lei non sarebbe dispiaciuto.
Osservò il divanetto in pelle color panna su cui soleva sedere, con le gambe piegate contro il petto, tutta raggomitolata su se stessa come volesse proteggersi da qualcosa che era nascosto nell'ombra, pronto ad attaccarla e ferirla. Quasi poteva vederla riposare lì, carezzata da un dolce alito di vento proveniente dalla finestra alle sue spalle, i lunghi capelli danzanti nell'aria, gli occhi socchiusi, ondeggiando lentamente al ritmo di qualche nota che le frullava per la mente, che mormorava sottovoce. Quella figura non l'avrebbe mai dimenticata.
Guardò quella finestra, ancora una volta spalancata, affiancata da tendine ocra, che morbidamente si agitavano mosse dalla brezza primaverile di un aprile ormai sul punto di morire. Il suo sguardo vagò ancora, fino ai  tasti neri e bianchi del pianoforte su cui entrambi avevano passato la maggior parte del loro tempo, l'una a suonare, l'altro ad ascoltarla rapito. Perché non vi era nulla da fare, per quanto ostentasse freddezza perfino con lei, cadeva vittima delle sue note delicate, quando a danzare sui tasti erano quelle lunghe e sottili dita candide. Aveva indelebilmente impresso nella sua memoria la maniera con cui le sue mani usassero sollevarsi dalla tastiera, per poi tornarvi con leggiadria, come fiocchi di neve cadono dolcemente al suolo. Il gesto pudico con cui spostava dietro le orecchie i capelli che le ricadevano sul viso mentre suonava, quando incontrava i suoi occhi che solo in quelle occasioni tornavano a brillare. Quel momento in cui si preparava a suonare per la prima volta una canzone, in cui alzava il viso verso il soffitto, chiudeva gli occhi e respirava lentamente, come a svuotare la mente per lasciare tutto il suo spazio alle note, per lasciarle libere di fluire direttamente alle punte delle dita.
Ricordava quando, pochi giorni prima, ella si era alzata da quello sgabello di pelle scura come il carbone e l'aveva guardato in maniera diversa. La luce che danzava nei suoi ochi azzurri come il più limpido degli oceani era diversa, seria, tremante come la fiamma di una candela in procinto di spegnersi, vi leggeva una certa preoccupazione.
"Cos'è questa sensazione?" gli aveva chiesto, accennando con le mani al proprio ventre, increspando la stoffa del morbido vestito color notte che indossava. "Perché mi sento bruciare come avessi ingerito un tizzone ardente? Perché sento questo calore espandersi per tutto il mio corpo? Perché quando ti sono vicina o quando suono per te?"
Ricordava alla perfezione quelle parole, ricordava il sorriso probabilmente ebete che si era dipinto sul suo volto, il primo che ella gli aveva potuto vedere, mentre la attirava contro il suo petto e la stringeva a sé, circondandole le spalle con le braccia.
"Sei viva, sei viva davvero, non ci sono più dubbi. Sei pronta." le aveva sussurrato all'orecchio, appena prima di stamparle un bacio sulla fronte.
In seguito, aveva preso delicatamente il suo polso tra le sue dita calde e ruvide, l'aveva portata al piano, le aveva chiesto di suonare una canzone tutta nuova, di suonare ciò che provava, suonare quel calore. Così era nato lo spartito che aveva preso come pegno di tutti quei giorni passati insieme, ad accompagnare i suoi ricordi.
Sorrise nel ricordare quei momenti cui era diventato così abituato, quando scorse la sua sagoma in un angolo. Teneva gli occhi bassi e si stringeva un gomito, tanto forte da avere le nocche ancor più pallide del normale.
– Te ne stai andando? – chiese, con voce tremante. Era una domanda sciocca, lo sapevano entrambi, di cui conosceva la risposta, che avrebbe solo potuto ferirla.
Scelse di non risponderle. Le si avvicinò, ponendo una mano sul suo braccio, muovendo il pollice in una lieve e dolce carezza.
– Verrò ad ogni tua esibizione. – mormorò invece una promessa.
Lei sollevò lo sguardo, lucente di tristezza e lacrime. Egli avvicinò il viso al suo, così delicato e fanciullesco, con la sua tempesta di lentiggini. Sfiorò le sue labbra con le proprie. Nessuna pressione, nessun bacio, solo fece sfregare per un singolo istante la loro pelle.
Era stato scettico riguardo le sue capacità, ma ora non più. Quell'androide era molto più sensibile, molto più umano, della gran parte delle persone che camminavano per quella strada che lei amava ammirare, con sguardo sognante e la bocca semiaperta, desiderando di poter passeggiare fra di esse. Molto più umano di lui stesso. Era una dei dieci prototipi dei primi robot capaci di provare sentimenti, lui era solo un operaio che era stato estratto a sorte per essere fra i dieci che avrebbero dovuto testarli. Trenta giorni esatti a continuo ed esclusivo contatto con lei, in cambio di un'ingente somma in denaro. Aveva detestato l'idea di prender parte ad un tanto assurdo esperimento, ma ora era lì, a non voler lasciare quell'esile creatura sola nel mondo crudele in cui era stata creata.
Le sorrise un'ultima volta, mormorando delle ultime calde parole, poi si voltò ed uscì per la prima volta da quella stanza, con la consapevolezza che non vi sarebbe mai più tornato.

Ho ripreso a sognare, Blu.
Grazie per avermi amato.

 
❀❀

Attraverso quella spessa lastra di vetro, i suoi occhi vigili seguivano con attenzione il lavorio dei bracci meccanici che senza sosta si muovevano su se stessi e su binari circolari, in quello spazio tristemente grigio. Non che apprezzasse davvero il suo compito in quell'occasione, comportava rischi e responsabilità cui la sua natura schiva e poco ambiziosa avrebbe volentieri fatto a meno. Vi erano anche altri operai che, al piano inferiore al suo, controllavano i parametri delle macchine, che tutto procedesse per il meglio, ma lui soltanto aveva il potere di fermare il processo, in caso di complicazioni. Avrebbe tanto preferito poter essere uno dei tanti nell'ombra, invece proprio a lui era capitato di venir estratto come uno delle poche cavie per quel malsano test, fra tutti gli impiegati che lavoravano in quella gigantesca struttura. Era colui che doveva parlare, lui, stabilire un rapporto.
Al di là del vetro, assemblato e saldato pezzo per pezzo dai macchinari, stava lentamente prendendo forma un robot. Non un robot qualunque, però, uno dei primi esemplari di androidi capaci di elaborare pensieri propri e di esercitare libero arbitrio. Ognuno di essi possedeva peculiarità proprie, caratteristiche, modi di fare, come fossero esseri umani. Egli avrebbe dovuto guidare quel pezzo di latta nei suoi primi passi nel mondo.
Prese uno dei fogli sulla sua scrivania, squadrando la foto di una ragazzina di poco più di diciassette anni. Uno scarmigliato caschetto castano incorniciava un volto rotondo, degli occhi del colore delle fronde di una foresta che lo osservavano ridenti. Adocchiò la data di morte accanto l'immagine, appena sotto al suo nome. Non era passata neppure una settimana. Morta in un tremendo incidente aereo, insieme a lei tutta la sua famiglia ed altre duecentoquaranta persone. Si ritrovò a chiedersi se le avrebbe fatto piacere sapere che le sue memorie erano state fatte fluire nei chip di un robot, irraggiungibili come segregate nel subconscio di una mente umana. Scosse la testa, poggiando il documento e tornando a seguire la procedura di assemblaggio.
Osservò quel viso di fanciulla dallo schermo poco distante dal pannello di vetro, primi rudimentali lineamenti erano impressi nel metallo, tubi e circuiti si irradiavano e si attorcigliavano l'un l'altro ed intorno ad una struttura portante per formare il collo sottile. Pian piano, placca dopo placca, parte dopo parte, quel sinuoso corpo si andava delineando. Fu solo quando tutto fu correttamente assemblato che le palpebre artificiali si sollevarono, rivelando un paio di occhi di varie tonalità d'azzurro scuro. Il loro aspetto che a malapena si sarebbe potuto dire non umano sconcertò l'uomo per alcuni secondi.
– Identificati. – ordinò, stringendo nervosamente la presa sul microfono.
– Salve, sono un androide di ultima generazione, modello ETA, numero 06. – la voce che si propagò da quelle labbra, sebbene stesse ripetendo meccanicamente una frase registrata nella sua memoria centrale, aveva una cadenza così genuina e dolce che il cuore gli si strinse. Aveva il candore della voce di una bambina.
Boccheggiò per un attimo, osservando come una pelle candida, a tratti macchiata da leggere felici, le venisse saldata sopra alla struttura metallica, a fasci di muscoli dalla consistenza gommosa. Quando arrivò a possedere in tutto e per tutto l'aspetto di un essere umano, di una gracile ragazza sotto la ventina, le vennero impiantati dei capelli all'apparenza setosi, che le ricaddero sulle spalle e sulla schiena, coprendole i seni rosei
– Riesci a muovere gli occhi? – le chiese, quando tornò in sé quanto bastava per ricordare della procedura che doveva seguire.
Lei spostò lo sguardo intorno a sé, per tutto il suo campo visivo. Su sua richiesta, poi, fece lo stesso con testa, mani, braccia, fino a quando infine non mosse un passo in avanti.
– Qual'è il mio nome? – chiese infine, guardando direttamente il suo viso, attraverso il vetro che li separava.
– Il tuo nome d'ora in poi sarà Blu. – decise, perso a rimirare le sue iridi.
– Il mio nome è Blu. – ripeté, mentre le sue labbra si piegavano in un sorriso.
Dall'altro lato del muro che li divideva, egli chiuse gli occhi e li nascose dietro una mano, massaggiandosi le tempie con le dita e sospirando, lontano dal microfono così da non farsi sentire all'interno della stanza. Così ce l'avevano davvero fatta, quelli dei piani alti, a creare un robot che potesse equiparare un essere umano su tutti i frangenti. Si chiese a quale scopo, poi, ostinarsi nel dare alla luce una creatura di metallo con sentimenti umani, quando il loro fine era quello di venderli. Il fatto che fossero in grado di pensare e provare emozioni rappresentava per loro solo un ostacolo, da quel punto di vista. Magari avrebbero sognato, quei dieci prototipi che avevano creato, si sarebbero messi in testa di possedere la libertà, sarebbero fuggiti e poi? Sarebbe scoppiata una rivoluzione dei robot, magari.
Sbuffò divertito al realizzare quali cose sciocche erano emerse dall'oceano tempestose di pensieri che era la sua mente.
Rialzò lo sguardo sull'androide, era ancora lì, lo guardava, ancora sorridente. La sua espressione aveva un certo qualcosa di timido, ma percepiva quanto fosse radiosa perfino da quella distanza.
– Ora sono viva? – chiese, spostando il peso su di una gamba ed inclinando lievemente la testa nella parte opposta, intrecciando le dita tra loro di fronte al proprio ventre,
– Definisci viva. Avere un cuore pulsante, sangue che scorre nel proprio corpo, cellule che si nutrono, vivono e si riproducono? No, non sei viva. Avere una mente, dei pensieri, provare emozioni? Complimenti, sembra proprio che tu sia viva.

 
   
 
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