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Autore: purepura    06/05/2016    0 recensioni
Sono passati anni. Kyle, come sappiamo, è in giro per il mondo, in compagnia temporanea di Declan*, ad aiutare. Josh e Andy sono lontani, al college per studiare, mentre Lori è tornata in città, a Seattle, per seguire le orme della madre, studiando psicologia. Kyle ha lasciato Amanda. Non volendola esporre a inutili pericoli, continuava a mentirle, finché si è reso conto che non avrebbe più potuto proseguire (la produzione aveva detto che sarebbe stato solo, sentimentalmente, e così è). Decide di lasciarla in un giorno di sole. Poco tempo dopo parte. Resta solo per un po’, venendo in seguito raggiunto da Declan.
Ma Jessi?
Prendetela come un esperimento. Un esperimento molto fantasioso…
*Alcune delle informazioni sono basate su un’intervista fatta ai produttori. Altre le ho aggiunte io (come quella per la quale Declan lo accompagna nei suoi viaggi).
Genere: Introspettivo, Triste | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Jessi XX
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Dopo la seconda morte
16 – Conteggiando il nuovo.



Per le felicità scoperte





    Gentilissima Dottoressa Taylor,
    la informiamo con estremo piacere che la cattedra di Biologia si presenta adatta alle sue richieste, e ci auguriamo di vederla lunedì 8 aprile, all’orario precedentemente concordato, per discutere gli ultimi dettagli e presentarla agli altri colleghi del Dipartimento.
    Cordialmente, Julian Dean*, Capo del Dipartimento


    Bé, l’e-mail era davvero arrivata, constatai, seduta al tavolo della cucina. Esattamente come aveva detto Foss, mi avevano assunta e, proprio il giorno in cui erano previsti il ritorno di Kyle e la mia fuga, mi sarei anche dovuta recare al lavoro. Perfetto! Avrei iniziato a guadagnare esattamente quando mi sarebbe servito lo stipendio.
    Stavo ultimando le pratiche di affitto, facendo avanti e indietro da Bothell. Avevo mostrato l’appartamento a Sarah e, fatta eccezione al borbottio in riferimento all’assenza di un giardino, non aveva detto nulla, facendomi pensare che non ne fosse particolarmente contenta. Non sapevo cos’altro fare, perché davvero non me la sentivo di rimanere, anche se per la bambina vedere i genitori cordiali, conviventi, avrebbe rappresentato una sicurezza in più. Potevo capirlo, questo, ma non ero disposta ad assecondarlo; la mia sanità mentale ne avrebbe risentito, per non parlare del mio benessere fisico – le endorfine liberate, lo stress che tenevo sottocontrollo tramite la fase sesso-distrazione. Misi a tacere la coscienza che ricordava come le esigenze di mia figlia dovessero precedere le mie, dicendo che in fondo non era un bisogno vitale, che avrebbe potuto benissimo vedere il padre altrettanto spesso.
    Inviai una breve e-mail di risposta, ringraziandoli per l’opportunità, e poi feci scorrere il cursore fino all’intestazione del messaggio che avevo ricevuto. Jessi Taylor. Vederlo nero su bianco mi lasciò stordita: non che non avessi usato questo cognome per tutte le mie firme, non che non ci fosse sulla patente, sulla carta d’identità e sulla tessera sanitaria, ma che gli altri mi conoscessero così, per un attimo mi parve assurdo. La bambina era Sarah Taylor, e potevo anche arrivare ad accettarlo per rendere a mio padre le cose più facili, ma io non ero figlia sua, non volevo essere considerata tale. Non mi ero mai azzardata a pensare di cambiare cognome, fino a quel momento, perché, se ci fossero stati problemi e avessero dovuto rintracciarmi per ridarmi la piccola, volevo che la cosa fosse palese e che nessuno si fermasse a pensare se fossi davvero una parente, ma ora che lei era con me, perché non prendere il cognome di mia madre? Scoprii che mi dava fastidio, vedere quella scritta; come non fossi veramente io, mi faceva riapparire invece la figlia in debito col Latnok cattivo che sta zitta e fa tutto quello che lui le chiede. Tuttavia, non ero più quella persona da anni, ormai, e ora avrei voluto che la cosa diventasse ufficiale, senza dovermi più preoccupare di lasciare tracce sparse per far sì che lui e sua nipote mi potessero trovare.
    I preparativi per il ritorno di Kyle, intanto, stavano procedendo e, mentre mi trovavo seduta al tavolo della cucina per assicurarmi un futuro finanziario, Lori entrò, portando un grosso vaso di fiori che finì nel lavandino. Aprì l’acqua senza degnarmi d’uno sguardo; canticchiava una canzone che non riconobbi, i capelli acconciati in una treccia ordinata.
    «Perché tanti fiori?», chiesi. «Non è il primo vaso che porti. Chi è morto?»
    Sbuffò. «Jessi, sei sempre così spiritosa! Nessuno, volevamo abbellire un po’ la casa. Sai, a Kyle farà piacere vederci tutti sotto lo stesso tetto».
    Per una volta, constatai, il suo commento m’includeva nell’elenco. Meglio che niente!
    Alzai le spalle, decidendo d’insistere: «E i fiori? Anche i fiori fanno parte della famiglia e devono rientrare in casa?»
    Sorrise; per la prima volta da che ero arrivata, sogghignava a una mia battuta. Forse era solo questione di abitudine: ognuno doveva nuovamente fare il callo alla presenza dell’altro, per poi ritornare alle vecchie routines, tanto antiche da essere divenute per me insignificanti. Un po’ come rimembrare l’infanzia, faticoso e triste, conducente alla melanconia; così, spesso, si tende a lasciar perdere e procedere oltre, guardando avanti.
    «Sì, è proprio così». Posò il vaso sopra al ripiano della cucina, per poi affiancarmi. Giunse le mani e le appoggiò sotto al mento, il sorriso ormai perenne a incorniciare il volto allegro. Come se riuscisse a leggere i miei pensieri, vi fece eco, aggiungendo: «E inoltre Declan sarà con lui! Non lo vedo da molto. Mi manca».
    Il volto sognante, si lasciò andare a un sospiro, che coprì abbondantemente il mio, sintomo di un’esasperazione congenita. Lei e la madre riuscivano a darmi noia anche se restavano immobili, zitte e sedute; figuriamoci al massimo della loro allegria e dinamismo.
    «Allora, sei proprio decisa a trasferirti?»
    Le lanciai un’occhiata: era stata proprio lei, qualche giorno prima, a suggerire la cosa. Non pareva molto interessata ma nemmeno annoiata dall’argomento, così decisi di rispondere normalmente. «Sì. L’università mi ha accettata e c’è un campus, a Bothell: non escludo che la cattedra possa essere lì. Così le cose saranno più facili per tutti». Per me, in realtà; m’interessa solo questo: riuscire a non vedere le vostre facce troppe volte a settimana.
    Annuì, senza aggiungere nient’altro. Il silenzio si propagò per la stanza, culmine di un rapporto nato forzatamente e proseguito verso l’indifferenza, finché il telefono di casa – casa Trager, casa loro – non prese a suonare, facendola scattare in piedi.
    Chi speri che sia, non lo è mai. Josh chiamava per fare un saluto, e mi domandai vagamente se i suoi sapessero che ci eravamo sentiti – io, lui e sua moglie – e se in quel caso l’avrebbero considerato tradimento o, ancora meglio, ammutinamento. Andy era stata parte di quel gruppo decisamente più di me, ma non si era mai adeguata alle regole implicite: escludere Jessi e considerarla inaffidabile. Aveva mantenuto accesi i contatti per sua sola volontà, per piacere personale e per amicizia, snocciolando le ragioni una sera ventosa di tanti anni prima, quando le avevo domandato sgarbatamente se ci fosse la mano di Nicole, dietro le sue telefonate. Confusa, mi aveva domandato perché, ma non avevo risposto decidendo infine di crederle.
    Lasciai la stanza mentre Lori, tamburellando le dita sul ripiano, non faceva che starnazzare su quello e quell’altro, quando a un suo commento mi fermai sulla soglia: «Certo che vi aspettiamo! Ma ci pensi? Nemmeno lo scorso Natale eravamo tutto qui!» Mi ero dimenticata che anche Andy sarebbe arrivata. Meglio così! Sarei stata, se non contenta, divertita dal suo arrivo.
    Mia figlia era fuori con Stephen. Era parsa molto felice, mentre attraversava il vialetto mano nella mano con lui. Non pareva volesse comprarne l’affetto, ma solo che desiderasse stare con lei perché entrambi – e davvero a volte lei sembrava più adulta di lui – comunicavano facilmente. Per questo motivo, mi ritrovavo con il pomeriggio completamente sgombro, fatta eccezione per il mio noioso, ma per fortuna in scadenza, ruolo di protettrice.
    Con la collaborazione di Foss, questo compito si era rivelato semplice: le registrazioni dei loro telefoni potevano essere ascoltate liberamente, come uscenti da una radio, mentre eravamo intenti a fare altro, e le loro auto, ogni singola mattina, erano controllate minuziosamente. Ignoravo, ogni volta, la voce nella testa che mi suggeriva di non cercare dell’esplosivo, e allo stesso tempo garantivo loro di non viaggiare con un mezzo che perdeva olio. Dopo aver esaurito i miei compiti da meccanico e da potenziale artificiere, mi ritiravo in casa; preparavo da mangiare, stavo con mia figlia e attendevo che qualcuno rientrasse, così da poter ‘uscire per controllare l’isolato’, anche se molto spesso la passeggiata si prolungava per un’ora, parte della quale la passavo senza vestiti.
    Uscii nel vialetto salutando il pomeriggio luminoso. Riflettei su come in così poco tempo mi ero trasformata in ciò che assolutamente mai avrei voluto diventare: una casalinga. Nata libera da stereotipi, nel breve tempo passato con Sarah avevo avuto la possibilità di apprenderne alcuni, insieme alle reazioni ad essi confacenti, come il ribrezzo all’idea che la donna fosse automaticamente relegata in casa, una volta avuto figli. Per questo, stavo cercando di sbrigare in fretta le pratiche di assunzione e di affitto, così da poter ritornare a concentrarmi sul lavoro e a trascurare casa.
    Camminavo distratta per la città. Arrivare a piedi sino al quartiere industriale mi diede modo di riflettere sui giorni trascorsi, su come mi stavo ponendo verso la famiglia e su cosa mi aspettavo cambiasse una volta che fosse arrivato Kyle. Intendevo davvero sparire, anche se avrei dovuto iniziare a convincere me stessa che non avrei potuto fare il lavoro minuzioso che era stato il trasferimento canadese: gradualmente le telefonate con la famiglia si erano ridotte a zero, Kyle era riuscito ad arrabbiarsi con me sentendomi due minuti al telefono, Andy mi aveva presa in simpatia, io avevo iniziato a considerare Andy; tutto ciò avrebbe dovuto ribaltarsi di centottanta gradi, il che avrebbe voluto dire che avrei dovuto chiarire con Kyle, che covava del risentimento per come avevo trattato sua madre e, molto di recente, per il fatto che mi fossi dimenticata di menzionare la bimba e a chi l’avessi affidata. Non desideravo granché affrontare l’argomento, ma ero certa avrebbe voluto parlarne, e con lui non potevo più svicolare togliendomi i vestiti – chissà se qualcuno avrebbe avuto da ridire, nel caso avessi provato.

    «Io mi prenderei il rimprovero e starei con la bocca chiusa».
    Ero sdraiata sopra le lenzuola della branda scomoda, senza cuscino e il sole a illuminare l’ambiente, così da farlo apparire meno tetro. Foss, invece, era seduto sulla sedia di alluminio posta dietro il banco di lavoro; dava le spalle alla finestra e guardava me, coperta solo di un corto vestito estivo, senza biancheria intima. Quel giorno aveva abbandonato il letto immediatamente, come non potesse sopportare di indugiarvi un secondo più del necessario – eppure vi si era adagiato, eccome se vi si era adagiato!
    Potevo sentire risuonare nella sua testa il conto alla rovescia: poche ore ancora, e Kyle avrebbe messo piede in questa città. Ciò, immaginavo, avrebbe dato inizio ai suoi complessi.
    «Tu sei in Francia, no?», ribattei. «Comportati da assente».
    «E tu accetta di ammettere la tua colpa», rispose in tono divertito, inclinando la testa di lato senza togliermi gli occhi di dosso.
    «Ma quale! Ho agito nel miglior interesse di tutti».
    «Se ne sei convinta…».
    «Certo!»
    Annuì, alzandosi a aggirando il tavolo. Avevo chiuso gli occhi non appena si era mosso, ma udii distintamente i suoi passi avvicinarsi. Oscurò il sole, riprendendo a parlare: «Gli hai mentito».
    Non mi stava rimproverando; piuttosto, stava constatando un dato di fatto, come qualcuno che ammette, osservando le nuvole grigie, come sia nuvoloso quel giorno.
    «Così come hai fatto tu, se è per questo». Desideravo spostare la conversazione dalla mia persona, per evitare di dover ammettere qualcosa che non credevo dovesse macchiarmi: una colpa in più, avrebbe potuto far rovesciare l’equilibrio, in quel momento precario perché in restauro.
    «Sarebbe un problema se sapesse della mia bugia, ma a quanto sembra ha scoperto solo della tua, che è in carne ed ossa e più difficile da mascherare».
    Sbuffai. «Saremmo potuti entrare a far parte di una famiglia di ebrei e festeggiare lo Yom Kippur**», mi lamentai. «Anche se credo avremmo dovuto aspettare la fine dell’estate», aggiunsi dopo un istante.
    «Quindi in questo periodo dell’anno non sarebbe stato tenuto a perdonarti?»
    Scossi la testa in segno di diniego. «Quanti minuti mancano?», domandai, girandomi su un fianco per osservarlo meglio. Era ancora in piedi di fianco a me, a coprire il sole col suo corpo, e non mi guardava in viso. I suoi occhi erano virati più in basso: contava ma non riusciva a evitare di osservare.
    Sogghignò, abbassando lo sguardo sulle sue scarpe. «Tu pensi che sbaglio a preoccuparmi», affermò. «So che non capisci perché mi comporto così, ma se scoprisse… se pensasse che non sono più meritevole della sua fiducia, io non…». Espirò l’aria dalla bocca, senza concludere la frase. Continuava a contare, però, e mi diede la schiena per tornare verso la finestra, cui si appoggiò.
    Sentivo, più che saperlo, come avrebbe potuto finire la frase. Non la completai per lui, non volevo aiutarlo a dar voce ai suoi pensieri. Non credevo fosse una persona che si preoccupava del giudizio altrui, e invece così si stava svelando, ogni momento di più. Questo mi bastava per esser certa del fatto che presto avrebbe chiesto che tutto terminasse; avrebbe proposto, se non quel giorno uno dei seguenti, di porvi fine, e io dovevo smettere di vederlo prima che tutto questo accadesse, perché non gli avrei dato la soddisfazione di vedermi turbata. Avrei assunto il controllo della situazione, e l’avrei allontanato prima che lui allontanasse me.
    Io non avrei più nulla. non mi resterebbero più motivi per…
    Intuivo che era questo, il luogo e il momento per rovesciare le cose di centottanta gradi, ma, mentre la mia testa aveva afferrato la necessità di colpire per prima, la gola si era seccata, la lingua impastata, la saliva era scomparsa, rendendomi impossibile verbalizzare ciò che sapevo.
    Girai la testa per gettare un’occhiata alla sveglia, posta sulla sedia che affiancava la branda. Ero lì da quasi quaranta minuti, e molto probabilmente mia figlia doveva essere tornata. Era ora che mi ripresentassi: immaginai la tensione, l’euforia che si propagava tra gli abitanti della casa, e iniziai a rivestirmi cercando di espirare e di rendere il mio corpo e la mia mente insensibili e non influenzabili.
    Dovremmo smetterla. Se la vivi in questo modo ora, quando sarà qui cosa accadrà? Non vorrei dovermi agitare ogni volta che ti vedrò.
    Lui non avrebbe obbiettato, ne ero più che convinta. Forse sarebbe stato persino sollevato, e allora perché non l’aveva proposto? Perché ammetteva di essere nervoso eppure persisteva nell’accogliermi nel suo letto?
    Lasciandolo al suo conteggio, ancora appoggiato alla finestra, mi diressi verso l’uscita. Il sole non aveva abbandonato il cielo, e una pozza di luce formava un cerchio proprio a un angolo della strada, vicino a un basso muretto, su cui mi sedetti, lasciando che i raggi mi riscaldassero.
    Mi raggiunse poco dopo, ma non si sedette; rimase in piedi, le sue caviglie all’altezza del mio viso, e mi tese il golfino azzurro che dovevo essermi dimenticata. Anche io stavo contando, perché lasciavo indietro pezzi, parti, mi dimenticavo di mia figlia – per quei quaranta minuti non avevo pensato di telefonare a Stephen; per tutta la mattina, non gli avevo telefonato. Tuttavia, ciò che la mia mente scandiva era il tempo che avrei impiegato per pronunciare una frase di senso compiuto e rovesciare le cose.
    «Forse…». La saliva era tornata. La voce era piuttosto bassa, roca, ma per lo meno elaborava i pensieri, ora, senza combatterli. «Basta. Possiamo dire basta».
    Avrei potuto davvero dire basta? La correttezza valeva l’assenza dei suoi tocchi?
    «Fallo», disse.
    «Fallo tu». Io non voglio piantare niente. Mentiva, e l’onestà doveva prevalere, perché voleva la sua stima, viveva della sua stima da quando Adam li aveva lasciati; perderla per colpa mia avrebbe significato troppo per lui. «Per te sarebbe un dramma, non per me».
    Era ancora in piedi, le braccia abbandonate lungo i fianchi; sospirò piano, appoggiando una spalla al muro di mattoni. Non lo guardavo in viso: la strada di fronte, il vicolo che mi avrebbe ricondotto a casa Trager, era un’attrattiva.
    «Tu lo vuoi».
    «Tu! Tu stai…». Sospirai, passandomi le mani sul viso. Tu stai cosa? Aspettando? Tremando? Stai aspettando di smettere di tremare? Mi stai facendo tremare? «Lascia perdere. Devo andare».
    Il golfino azzurro si muoveva al ritmo dei miei passi, dondolando all’altezza delle mie caviglie nude. Al ritorno, camminai più lenta, e temporeggiai davanti alla casa, cercando di concentrarmi per distinguere i rumori che provenivano dal suo interno. C’era Lori in cucina, muoveva pentole e padelle con un ritmo regolare, mentre le trotterellava a fianco mia figlia. Forse stava apparecchiando. Era un’abitudine che aveva preso quasi subito: qualsiasi membro della famiglia stesse cucinando, lei apparecchiava. Al piano superiore, udii dei passi più pesanti coprire continuamente la distanza tra il bagno e la camera dei coniugi: Stephen, che doveva essere appena rientrato con la bambina.
    Le piaceva molto Stephen. Potevo azzardare ne avesse una qualche predilezione. Forse era l’uomo che più si avvicinava al carattere affabile del padre, col quale aveva già mostrato di possedere una certa sintonia, o, più correttamente, era un uomo con un carattere affabile a lei. Quale che fosse il motivo, se proponevo che passasse un po’ di tempo insieme a Stephen accettava allegra, e non la rivedevo per almeno due ore.
    Entrai facendo tintinnare le chiavi. L’ora di pranzo si avvinava, e odore forte di cipolla mi colpì le narici. Raggiunsi la sala da pranzo, scoprendovi mia figlia intenta a posizionare i bicchieri in corrispondenza di ogni piatto – e ne contai sette.
    «Jessi!» L’esclamazione pronunciata a mo’ di saluto proveniva dalle mie spalle. Riconobbi la voce, ma il tono era mutato: se in Asia era stato scostante, scocciato, malato, ora era limpido, alto, chiaro. Non era guarito, questo lo percepii dalle crepe che, sul finale, la voce mandò, e che gli fece abbassare il tono, come fosse affaticato, ma era lì, in quel momento, era ritornato a casa, e davvero settimane prima ero arrivata a pensare che non l’avrebbe rivista, casa.
    Si fece avanti, sicuro, e spalancò le braccia, pronto ad abbracciarmi, facendo arrivare sino a me l’odore penetrante di detersivo, come fosse appena uscito da una lavatrice. Più probabile che fossero stati i suoi abiti, ad essere appena usciti da una lavatrice, ma la fragranza portò con sé una domanda: che odore sentirà, addosso a me, ora che ho appena lasciato il suo letto? Il pensiero mi fece fare un passo indietro, e lui si bloccò: non avevo mai rifiutato un suo tocco, che fosse intenzionale o dettato da secondi fini, e quel comportamento in quell’occasione, dopo settimane che non ci vedevamo e la dimostrazione involontaria che in Asia aveva ricevuto – i battiti aumentati, il rossore, il respiro – sembrò semplicemente assurdo.
    «Cosa c’è?», domandò, sorpreso, bloccando l’avanzata.
    Scossi la testa. «Non ti aspettavo. Mi occorre un attimo per abituarmi».
    Rise, e riprese a camminare. Probabilmente, se avessi risposto sinceramente, non avrebbe ripreso a camminare, ma la sua persona mi avrebbe lasciata sola, nella sala da pranzo. Mi arrivò di fronte e mi strinse le mani, in un gesto tanto caloroso quanto poco familiare.
    «Come stai? Ho visto la bambina: non immagino la casa prima del suo arrivo».
    Risi. Avevo formulato un pensiero simile, settimane prima, solo relativo alla casa di Taylor, di come dovesse essere ora, in assenza di Sarah.
    «Sarà stata contenta di vederti. Dove è andata?», domandai. «Ti aspettava. Scommetto starà saltellando allegra per la casa».
    «È di sopra». Sorrise. «Si è illuminata. Sinceramente, pensavo non si sarebbe nemmeno ricordata di me».
    «Te l’ho detto: ti aspettava». Alzai il viso al soffitto. «Sarah! Puoi scendere?»
    «Dov’eri, tu, invece?», domandò. «Pensavo di trovarti».
    A fare cosa, esattamente? Il mio cervello arginò il momento di adorazione, comandando alle mie mani di allontanarsi dalle sue. A venerare il tuo ricordo, o la presenza del sole che illumina questo tuo rientro?
    Sarah saltellò a quel punto nella stanza, evitandomi di dover fabbricare una bugia. Alzò le braccia verso l’alto, arrivò al fianco del padre e gli toccò la vita con le punte delle dita. Kyle abbassò lo sguardo: «Dimmi», le disse, sorridendo.
    «Sono stanca», disse, la voce bassa, quasi mortificata. «Ho messo solo io tutte le posate».
    «Oh, povera!» Kyle, complice, la prese in braccio, e lei allacciò subito le gambe alla sua vita. Si fissarono, occhi azzurri negli occhi azzurri, continuando a sorridersi. «C’è una bimba che ha bisogno di sdraiarsi un po’?»
    Sarah annuì, appollaiando la testa sulla sua spalla. Kyle continuò a ridere mentre si voltava e lasciava la sala, completamente dimentico della mia presenza e della sua domanda.
    Il pensiero che quei due non avessero bisogno di me, per capirsi e trovarsi, si fece di nuovo largo nella mia testa. Come se Sarah facesse parte della vita di Kyle da sempre, padre e figlia si intuivano a vicenda, e io ero davvero stata lasciata sola, nella sala da pranzo.















*Inventato, nome, cognome, che sia il capo del Dipartimento ad occuparsi di ultimare le assunzioni, qualsiasi cosa riguardi le procedure burocratiche!
**Festa ebraica, letteralmente traducibile con “giorno dell’espiazione”, in cui è usanza “terminare ogni disposta o litigio”. Naturalmente io ne cito solo l’aspetto più superficiale, perché la festa è accompagnata da preghiere, pentimenti religiosi e più solenni, che qui Jessi ignora spudoratamente, per cui chi è ebreo non si senta offeso dalla superficialità della citazione: io ho letto per lo meno che non è solo questo, nonostante non citi il resto.
  
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