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Autore: LoveStoriesInMyHead    07/05/2016    1 recensioni
Alzai di scatto il capo e lo vidi in tutta la sua giovinezza e avvenenza. Le gambe accavallate, quel vestito beige e lo stesso sorriso di sempre. Solo in quel momento realizzai quanto veramente mi fosse mancato.
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“Quella storia del matrimonio non mi era mai piaciuta, ma solo con te avevo trovato il coraggio di oppormi. Ero stata destinata ad un futuro che non sentivo appartenermi. Era frustrante sapere che era stato già deciso tutto, che la mia vita non era nient'altro che una successione di comandi da seguire per il bene della famiglia. E per il mio bene? A nessuno sembrava importare.” Nei miei settant'anni di vita non avevo mai espresso ad alta voce questo pensiero, che da sempre risiedeva negli angoli più nascosti della mia mente. “A nessuno a parte te” aggiunsi.
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Genere: Malinconico, Romantico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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UN GIORNO, TRE AUTUNNI


Era passato molto tempo dall'ultima volta che ero salita quassù. Ogni passo verso la soffitta era una spina che si conficcava nelle mie ginocchia. Avvolsi le dita attorno al corrimano, convincendomi a continuare. Non sapevo il perché io lo stessi facendo. Mi trovavo in salotto con un panno imbevuto tra le mani. Stavo spolverando una cornice sullo scaffale in mogano, quando gli occhi mi caddero sulla vecchia fotografia. Aveva i bordi consumati e una parte del colore era ormai andata via col tempo. Nonostante ciò, riuscii a distinguere mio fratello, che teneva sottobraccio una ragazza con un abito sobrio dai colori tenui. Rivedere me così giovane e soprattutto mio fratello, mi fece salire un nodo alla gola. Il suo viso così giovanile e serio mi ricordò quanto, in realtà, fosse stato un ragazzo spensierato ed allegro. Mi aleggiò un lieve sorriso sul volto nel pensare al suo carattere così fuori dalle righe ed alle ricorrenti ramanzine che nostro padre gli infliggeva. Gli occhi cominciarono a pizzicare e, complice la solitudine che mi circondava, mi lasciai sfuggire una lacrima fredda che corse lungo la mia guancia.  Poi passai in rassegna l'infantile me stessa, Rosalia Grasso, quindici anni, vestitino chiaro, capelli al vento ed una smorfia tirata nel tentativo di camuffare una risatina puerile. Reggevo tra le mani un diario rivestito di pelle marrone e dei piccoli lacci tenevano unite le due copertine. E fu in quel preciso istante che quel pezzo di infanzia mi solleticò la mente.

Così salii quei gradini alla ricerca di quel diario che un tempo era stato il mio unico sfogo. Arrivata in cima alla rampa di scale, spinsi la porta, che da parecchi anni non riusciva a chiudersi del tutto, e oltrepassai la soglia, facendomi strada tra la penombra. Mi mossi con cautela e tastai il muro per premere l'interruttore della luce. Quando ci riuscii, il bagliore non era abbastanza forte e la stanza conservò la sua parziale oscurità, costringendomi a brancolare nel buio. Presto mi abituai e, con la mia solita andatura oscillante, arrivai ad un baule consumato e torturato dai tarli. Scostai la polvere dalla fibbia e sospirai, ripensando all'ultima volta che avevo sfiorato quel mobile. Con sforzo, sollevai il coperchio e le cerniere cigolarono. Un odore di antico e stantio mi invase le narici e la polvere mi indusse a starnutire ripetutamente. Ciò che trovai al suo interno mi regalò un sottile senso di malinconia: foto della mia adolescenza, un biglietto per uno spettacolo a teatro, una raccolta di poesie e qualche vestito. Un abito di cotone azzurro attirò la mia attenzione e lo estrassi da quella valanga di ricordi. Lo presi e il mio pollice ripercorse tremolante le cuciture sull'orlo della gonna. Questo era il vestito che indossai la prima volta che andai da una mia cugina per una serata in compagnia di altre persone, di cui allora ne conoscevo solo una minima parte. Lo ripiegai alla meglio e lo poggiai sul bordo del baule, che osservai per un altro paio di minuti, prima di trovare il diario. Le mani sussultarono ed il dubbio che non dipendesse dalla vecchiaia mi attraversò la testa. Armeggiai con i due lacci e sollevai la copertina. Cercai di leggere, ma la mia vista offuscata non me lo consentì. Decisi perciò di tornare in casa, per leggerlo con calma. Richiusi il baule, gettando una veloce occhiata alle mie cose. Feci forza sulle ginocchia per alzarmi e, con in mano il diario, tornai indietro. Finalmente recuperai i miei occhiali da vista e mi gettai sulla poltrona in salotto. Mi misi comoda e con impazienza aprii il diario e cominciai a leggerne una pagina ad alta voce:

“Era un tranquillo e fresco sabato di marzo del 1963. Con l'aiuto di mia madre, ero riuscita a terminare un grazioso vestito di un azzurro incantevole. Mi ero punta parecchie volte i polpastrelli nella foga e nell'angoscia di non riuscire a finirlo in tempo. Quella sera, ero stata invitata da mia cugina Carmela, che consideravo come sorella, essendo effettivamente cresciute insieme, per passare una piacevole serata, ballare e svagarci un po'. Mio padre aveva deciso di mandarmi senza problemi, l'unica preoccupazione che gli fece storcere il naso fu l'aver compreso che alla serata avrebbero preso parte anche amici del fratello di Carmela.
Alla fine, però, si convinse a mandarmi grazie a Giuseppe, che mi avrebbe tenuta d'occhio qualora avessi fatto qualcosa che avrebbe potuto far adirare nostro padre.
Indossai il vestito di cotone, che mi cadeva morbido fin sotto il ginocchio, ed una giacca in lino per coprirmi le spalle. Mia madre mi tessette i lunghi capelli castani in una treccia elegante e semplice, mi sistemò una ciocca sfuggita dalle sue abili mani e me la portò dietro l'orecchio. “Quantu si bedda” mi disse quando finì. Le sorrisi in segno di gratitudine e mi lasciai baciare la fronte.
Giuseppe era rimasto ad aspettarmi in cucina. Attendeva in silenzio mentre mio padre mescolava il mazzo di carte. Le divise e ne poggiò quattro sul tavolo con le figure rivolte verso il soffitto. "Non riuscirai mai a vincere papà" dissi sorridendo. Quest'ultimo si voltò e mi osservò con minuziosa attenzione. Raccomandò mio fratello e ci congedò. Presi a braccetto Giuseppe e facemmo una piacevole passeggiata fino alla casa dei nostri cugini.

Quando arrivammo, Carmela stava ancora spostando il divano per fare più spazio. Ci salutammo e l'aiutammo a completare gli ultimi ritocchi per il festino. Arrivarono alcuni nostri cugini e cugine e qualche amico. Enzo, il fratello di Carmela, accoglieva alla porta le ragazze con un bacio e i ragazzi con una stretta di mano o una pacca sulla spalla. Un gruppo di giovani, tutti e quattro in giacca e cravatta, si avvicinò a Giuseppe con fare amichevole. Uno ad uno mi salutarono con un cenno del capo, ma un ragazzo in particolare aveva accompagnato quel saluto con un ampio sorriso, che mi lasciò sorpresa. Ricambiai e abbassai lo sguardo per l'imbarazzo. La serata proseguì tranquilla, tra risate e musica, almeno fino a quando Carmela non mi fece notare che quel giovanotto non aveva fatto altro che starsene seduto in un angolo della sala a fissarmi. Ragazze come Carmela, avrebbero sicuramente apprezzato quelle piccole attenzioni, ma io non ne ero capace. Quell'interesse mi faceva esattamente l'effetto contrario.”

“Era questo ciò che non mi permetteva di staccarti gli occhi di dosso.”

Alzai di scatto il capo e lo vidi in tutta la sua giovinezza e avvenenza. Le gambe accavallate, quel vestito beige e lo stesso sorriso di sempre. Solo in quel momento realizzai quanto veramente mi fosse mancato. L'impulso di abbracciarlo era forte, ma non dovevo farmi ingannare. Era solo un brutto scherzo della mia florida fantasia. Mio marito Salvo morì dieci anni fa e la sua assenza involontariamente mi spinse ad immaginarlo di nuovo accanto a me. Per un primo momento, pensai di scacciare via quella dolorosa ed allo stesso tempo piacevole visione, ma decisi di godermela il più possibile. I ricordi di quegli anni erano ormai pochi ed anche un piccolo momento in più era prezioso per la mia memoria.

“In tutti questi anni, non ho mai compreso cosa tu abbia trovato in me” gli risposi con voce scossa.

“Nei tuoi occhi vedevo la passione bruciare come la lava dell'Etna, la bellezza e la semplicità della zagare, la dolcezza dei mandarini. In te ho visto lo splendore della Sicilia" disse con quella voce così vellutata, che mi sembrò di ricevere una morbida carezza sul viso.
Non potei fare a meno di commuovermi a quelle parole gentili. Chiusi gli occhi, le palpebre mi tremarono e provai a sorridere.

“Quando ti vidi all'entrata della chiesa del quartiere erano passati esattamente nove giorni dalla prima volta che ti vidi. Il paese in cui abitavamo non era molto grande, ma i nostri incontri erano più unici che rari.”

“Tenevi il conto dei giorni?” gli chiesi e sentii le guance colorarsi di rosa.

“Certo. Vederti a quel festino fu la cosa più interessante di tutta la serata. Ero rimasto seduto in quella sedia per tutto il tempo, ma sul finire della festa avevo deciso di invitarti a ballare. Sapevo quanto Peppe fosse geloso, ma tentai ugualmente. E non ne potei essere più felice quando mi diede il permesso. Ti ricordi quel momento? Ti chiesi di ballare e fortunatamente accettasti. Cercavo di danzare con disinvoltura, ma sembravo solo molto goffo.”

“Non eri un granché, lo sai?”

“La tua bravura compensava la mia insicurezza nei passi” mi spiegò. “Ad ogni modo, ballare con te mi spinse a volerti conoscere di più e sapevo che anche in cuor tuo desideravi lo stesso.”

“Beh, per un primo periodo non è stato esattamente così. Quando quella mattina ti vidi all'ingresso della chiesa, non ti nego che il mio cuore perse un battito. Ero stata cresciuta in una certa maniera ed il tuo ingresso nella mia vita mi aveva lasciata parecchio scombussolata. E poi, io ero già promessa sposa del figlio del macellaio, Ciccio. Vedevo la tua presenza come una minaccia per i piani prescelti per il mio futuro.”
Avevamo parlato parecchio di quella faccenda, ma ogni volta che la tiravo fuori, un'antipatia remota montava nell'animo di mio marito.

“Non sopportavo per niente quel ragazzetto. Non faceva per te. Era troppo lineare e monotono. Ti serviva qualcuno che ti sconvolgesse le giornate.”

“A me necessitava trovare una stabilità economica ed una famiglia” ribattei. “Per questo, quando Ciccio mi chiese se avessi voluto una compagnia per tornare a casa, acconsentii. I miei genitori camminavano a cinque metri di distanza da noi ed io rimasi tutto il tempo in silenzio, ad ascoltare Ciccio che mi parlava della macelleria che un giorno sarebbe divenuta sua. O meglio nostra.”

“Nonostante ciò, non mi diedi per vinto. E tu lo sai bene. Continuai a provarci, a fermarti per strada ogni volta che ti vedevo andare all'oratorio per quei corsi di cucito. Alcune volte mi sorridevi, altre mi ignoravi del tutto. Io davvero non riuscivo a capire se realmente mi odiassi o se ti piacessi almeno un po'.”

“Mi piacevi, ma avevo capito che il mio destino era un altro, che i miei genitori volevano altro per me, che non eri tu l'uomo che avrei dovuto sposare.” Dissi queste parole con una tristezza tale che la mia voce si incrinò sul finire della frase.

“Ero molto esasperato da quella situazione. Così una sera comprai una rosa dal fioraio vicino casa mia e la legai con un nastro al mio libro preferito. Era una raccolta di proverbi e detti antichi di tutto il mondo e te ne indicai uno in particolare, quello che più mi rispecchiava l'animo. Te lo lasciai sotto casa, vicino una forma di pecorino che u zu Alfio vi lasciava sempre la domenica mattina.”

“Un giorno, tre autunni” recitai, scandendo le parole con lentezza. “La mancanza di qualcuno è talmente tanto forte che un giorno pesa come se fossero tre anni.”
“Speravo che avessi compreso con quelle parole semplici, ma ricche di significato, che ti amavo.”
Abbassai il capo ed una lacrima cadde sul diario. In qualche pagina più avanti, vi era conservata quella rosa, oramai appassita, che con tanto amore annusavo tutte le sere dopo aver letto qualche riga del suo libro. Tornai a guardarlo, era più adulto. I lineamenti si erano definiti ed una mascella squadrata era ricoperta da un leggero strato di peluria.

“Fu una decisione dura da prendere: andare dai miei genitori e comunicare che non avevo nessuna intenzione di sposare Ciccio era una delle cose più difficili che io avessi mai fatto. Ma con il tuo sostegno, ci riuscii.”
In paese si era già sparsa la voce di noi due e la gente cominciò a gonfiare questa storia. Si diceva che Salvo mi avesse messo incinta e che per salvarmi la reputazione, avesse deciso di prendermi in moglie. Voci false, ma a cui la gente credeva. Perciò, prima che i pettegolezzi giungessero alle orecchie dei miei genitori, decidemmo di parlare a cuore aperto con loro.
Il giovane mi guardò e nelle sue iridi verdi potei vedere riflesso tutto il suo amore. “Tuo fratello era parecchio sorpreso. Non se l'aspettava di vedermi in una situazione del genere.”

All'inizio fu dura sostenere lo sguardo di mio padre. Sapevo quanto li stessi deludendo. I nervi a fior di pelle, la tensione era palpabile nell'aria. Iniziò Salvo a spiegare la realtà dei fatti. Per tutto il tempo non ci interruppero. Rimasero in silenzio ad ascoltare, la serietà dipinta in volto, la delusione trasudava dai loro pori. Avevo già capito quale sarebbe stata la risposa dei miei genitori ancor prima che Salvo terminasse di parlare. Ma quando quelle due lettere caddero dalla bocca di mio padre come schegge di vetro, realizzai quanto fossi stata stupida nello sperare in una fine felice.

“Non ti avevo mai vista così avvilita” mi disse tenendo gli occhi bassi. “Dopo quella volta, provai ogni singolo momento della giornata un senso di colpa insormontabile. Era colpa mia se soffrivi.”

“Lo sai benissimo che non è vero. La colpa non è mai di uno solo” risposi. “Quella storia del matrimonio non mi era mai piaciuta, ma solo con te avevo trovato il coraggio di oppormi. Ero stata destinata ad un futuro che non sentivo appartenermi. Era frustrante sapere che era stato già deciso tutto, che la mia vita non era nient'altro che una successione di comandi da seguire per il bene della famiglia. E per il mio bene? A nessuno sembrava importare.” Nei miei settant'anni di vita non avevo mai espresso ad alta voce questo pensiero, che da sempre risiedeva negli angoli più nascosti della mia mente. “A nessuno a parte te” aggiunsi.

I mesi seguenti li trascorsi nel silenzio più totale. Un muro insormontabile si era alzato tra me ed i miei genitori. Mi sentivo morire ogni volta che tornavo a pensare a Salvo. Mio padre invitava Ciccio per un caffè ogni volta che poteva. Voleva che lo conoscessi in modo più approfondito prima di maritarmi con lui. Era una persona davvero affabile e disponibile, anche se ogni tanto diveniva leggermente noioso con i suoi interminabili discorsi. Era il genero che mio padre aveva sempre desiderato.

“Ti ricordi quando ci mettevamo nel sottoscala di quella casa abbandonata?” mi chiese, sollevandomi dai miei pensieri. “Al termine della messa, sgattaiolavi subito fuori e ti confondevi tra la folla che si accingeva ad uscire. Attraversavi la strada, giravi l'angolo e mi trovavi già lì ad aspettarti. Ti portavo sempre una sfogliatella con la ricotta. Quando ne mangiavi una, ti sporcavi sempre la punta del naso con un po' di zucchero a velo. Ti impregnavi di quell'odore dolciastro, quasi irreale, e starti accanto era una gioia per i miei sensi.” Salvo mi guarda negli occhi, gli unici ad essere rimasti immutati nel tempo.

“Ricordo anche che odiavi il sapore della ricotta, ma facevi uno sforzo per me. Lo apprezzavo molto” aggiunsi sorridendo.

“Particolari irrilevanti” commentò con un velo d'ironia.
Vederci in quel posto ogni domenica era diventata una piccola tradizione, dalla quale nessuno dei due avrebbe mai voluto sottrarsi.

“Poi però non potemmo più incontrarci. Tuo padre si era accorto delle tue piccole evasioni e ti aveva proibito di allontanarti da lui al termine delle funzioni. Fu un altro boccone amaro da digerire.”

Ciccio si era già installato a casa nostra. L'amore che i miei genitori, ed anche i suoi, volevano che nascesse, non sbocciò, il che ci indusse a ragionare sulla brutta piega che stava prendendo quella spiacevole situazione. Parlammo a lungo quel pomeriggio, eravamo incerti su cosa dirci, ma capimmo che, alla fine, i nostri pensieri non erano poi così divergenti. Facemmo un accordo: io sarei fuggita via di casa e avrei raggiunto Salvo, mentre Ciccio mi avrebbe coperto le spalle e, saltato il matrimonio, avrebbe potuto stare con una certa Maria Grazia, una ragazza che lavorava come sarta nella piccola bottega di paese.

Pensai e ripensai molto a lungo e minuziosamente le azioni da seguire affinché nessuno sapesse della mia scomparsa, almeno per il tempo necessario ad allontanarmi abbastanza di casa.
Una sera di luglio, mia cugina Carmela mi venne a trovare, andammo in camera da letto e parlammo del più e del meno con un leggero sottofondo musicale. Verso le ventuno, come da copione, silenziosamente ci scambiammo i vestiti, indossai il suo foulard per nascondere i capelli, dal momento che Carmela aveva una folta chioma rossastra, ed il suo cappello. Silenziosamente attraversai la sala da pranzo, il salone ed infine la porta d'ingresso. Pensai d'averla fatta franca, quando sentii la voce di mio padre chiamare un nome che non mi apparteneva. Mi bloccai e senza voltarmi, imitai la voce di Carmela e salutai le donne e gli amici che si erano seduti per prendere un po' di fresco davanti casa nostra. Enzo era appena arrivato con la sua macchina per portarmi da Salvo, che mi aspettava in una casetta in campagna.
Carmela, da quel momento in poi, avrebbe dovuto fingere di essere me per una sera, dormire nel mio letto e cercare di procrastinare lo svelamento della mia fuitina. Le lasciai anche una lettera da consegnare ai miei genitori, nella quale spiegavo il perché del mio gesto estremo, sperando con tutto il cuore che comprendessero che il sentimento che provavo non era soltanto un'infatuazione giovanile.

Abbassai il finestrino e mi sentii per la prima volta in vita mia veramente libera. Fu una sensazione che mi elevò fin sopra la terra, sentivo quasi di poter toccare le stelle con la punta delle dita. La casetta era a dieci minuti circa dal paese ed era in condizioni ottime per essere stata abbandonata più di vent'anni fa.

“Dopo la nostra fuga, dovemmo arrangiarci un po’. Non potevamo mica restare in campagna per sempre.” Guardai Salvo e la prima cosa che mi saltò all’occhio fu la stessa camicia a quadri beige che indossava quella sera. Aveva i capelli scompigliati ed un leggero sorriso dipinto in volto. “Fortunatamente un anziano signore ci vendette una mucca che, essendo leggermente in là con gli anni, comprammo a basso prezzo. Tu iniziasti a ricamare dei centrini, che trovasti in un mobile nella sala da pranzo, e cercasti di venderli alle donne che passavano di lì per giungere agli agrumeti ed io scendevo in paese e vendevo il latte prodotto. Così raggiungemmo una somma tale da permetterci di poter acquistare una piccola casa nel paese vicino e ci trasferimmo.”

“Il modo perfetto per ricominciare” aggiunsi. Erano passati due anni prima di arrivare al nostro obbiettivo, perciò Salvo aveva un aspetto più vissuto, uno strato di barba scura gli copriva la mascella, gli occhi, sempre di un verde intenso, apparivano più stanchi, ma con lo stesso amore di sempre. “La vedova, che incontrammo non appena arrivati, mi stette subito simpatica. Non avendo avuto figli, viveva da sola in una piccola casa che dava sulla via principale. Provai a venderle qualche centrino, ma inaspettatamente ci invitò ad entrare, ci preparò uno squisito pranzo e ci raccontò la sua storia d’amore. Restammo così inteneriti che iniziammo a farle visita ogni volta che potevamo. Quando morì e ci lasciò la casa come ultimo desiderio, piansi per giorni. Però fui sollevata nel pensare che almeno una persona così buona non sia morta da sola.”

“Da lì in poi, la fortuna iniziò a girare dalla nostra parte. Eravamo cresciuti in famiglie di sarti, così tentammo subito di aprire una piccola sartoria. Io mi occupavo di giacche, camicie, pantaloni e quant’altro, mentre tu eri impegnata con il vestiario femminile ed i tuoi adorati centrini ricamati.”

“Ricordo la tua schiena curva sul tavolo da lavoro, a rammendare l’orlo di un pantalone venuto troppo lungo. Una sera ti raggiunsi, ti posai una mano sulla schiena e ti accarezzai. Poi ti chiesi a cosa stessi lavorando e tu mi rispondesti che stavi ultimando il tuo vestito per le nozze. E fu in quell’istante che sentii il mondo fermarsi, le gambe mi cedettero e il mio cuore sussultò. Dopodiché ti mettesti in ginocchio, mi prendesti la mano e mi facesti quella domanda che avevo aspettato per tanto tempo. Piansi lacrime di gioia, mi abbassai al tuo livello e ti abbracciai. Vidi le nostre ombre, create dalla luce di una candela e sentii veramente di appartenere ad una persona.”

“Il nostro matrimonio fu meraviglioso. Il vestito da sposa che avevi cucito avvolgeva le tue forme e ti faceva apparire una principessa. In quel momento mi facesti l’uomo più felice della Terra e si coronò il nostro sogno.”
Avrei voluto abbracciarlo, stringerlo e digli che lo amavo, ma rimasi al mio posto, immobilizzata da un sentimento troppo forte persino per me. Dal matrimonio in poi, ripresi i rapporti con i miei genitori, la rabbia lasciò il posto all’amore e tornammo quelli di una volta.

“Gli anni passati insieme sono stati straordinari. Siamo cresciuti insieme, ci siamo amati ed abbiamo generato tre fantastici figli. Sono stato molto fortunato a vederti quella sera e non avrei potuto fare scelta migliore quando decisi di sposarti.” Man mano che parlava, lo vedevo mutare in viso. Lentamente gli anni si posavano su di lui. I capelli di schiarirono, gli occhi furono circondati da solchi profondi e le mani gli incominciarono a tremare. Avevo compreso ormai che quella visione stava per scomparire, così mi affrettai a pronunciare le uniche parole che rappresentavano al meglio il nostro amore. “Un giorno, tre autunni” sussurrai, stringendo la copertina del diario.

“Un giorno, tre autunni” ripeté prima di girarsi verso la finestra e scomparire in un raggio di sole. 
   
 
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