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Autore: Ria    09/05/2016    7 recensioni
Era il blu del mare che non aveva mai visto e del cielo nascosto dietro nubi perenni, a casa, e lo odiava.
Era il verde di una terra che non avrebbe mai visto, una terra viva e florida, e lo odiava.
Retasu era blu e verde. Era cocciuta, ingenua, speranzosa oltre il tollerabile e il buon senso.
Tanto da fargli tremare la mano sulla propria arma ogni volta che se la ritrovava di fronte.
E per questo l'aveva odiata.

Prima classificata al contest "All the songs make sense" indetto da Hypnotic Poison sul forum di efp
http://www.freeforumzone.com/d/11255124/All-the-songs-make-sense-Tokyo-Mew-Mew-contest/discussione.aspx
Genere: Introspettivo, Malinconico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Pai Ikisatashi, Retasu Midorikawa/Lory
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Salva anche tu una tastiera da pazzoidi che le massacrano scrivendo come disperate! Non chiudere gli occhi, puoi salvare milioni di vite elettroniche.

 

 

 

Io perché partecipo a questi contest? Non lo dovrei fare, che poi succede così T_T e ora sono triste e depressa e HP giuro ti odio mannaggia a te fai dei contest allegri la miseriaccia TT___TT!

In super ritardissimo perché ero in stand allo Spezia Comics and Games, onestamente sono poco sicura di aver fatto un buon lavoro, ma ho spremuto ogni grammo di depressione concessomi e sappiate che mi sto detestando il doppio perché se non bastava Danya, in 'sto contest, a massacrarmi l'OTP, io mi massacro la seconda e voglio piangere T_T.

 

 

 

 

 

 

 

Blu e Verde

 

 

 

 

E non esiste un luogo dove non mi torni in mente.

(Marco Mengoni – Ti ho voluto bene veramente

 

 

Blu e verde.

Due colori che fino a pochi anni prima erano considerati una rarità assoluta.

Non c'era verde sulle pietre nere delle viscere di quel pianeta, niente blu nei costoni di ghiaccio gelido che si insinuavano dalle spaccature del soffitto; il cielo era bianco e grigio, la terra grigia, gli edifici d'acciaio. I volti della sua gente erano anch'essi pallidi, smorti, quasi senza luce.

Quando aveva visto la Terra per la prima volta, da dietro i vetri della navicella, aveva avuto un sussulto nello scorgere quei due colori, brillanti, vivi, dietro alla rada coltre di nubi candide: oceani di blu così intenso da fare male agli occhi, terre così verdi, dolcemente screziate di ocra, da fargli odiare chiunque ne avesse goduto per pur solo un minuto.

Aveva soffocato ogni cosa appena atterrati. C'era una conquista da portare avanti, occorreva lucidità, fermezza, pianificazione, e quei colori così sgargianti erano una distrazione per i suoi occhi e la sua mente.

Aveva rinchiuso ogni emotività dentro al proprio animo con la naturalezza acquisita negli anni, temprata nell'addestramento, lasciando solo a sobbollire il proprio gelido astio per la razza stupida e crudele che aveva deturpato la sua patria nativa. Aveva posto un filtro davanti a tutto e il suo sguardo si era ingrigito, fredda pietra con cui scrutare sprezzante il nemico.

E poi quei colori erano tornati ad esplodergli di fronte con la potenza accecante del sole.

« Perché? Perché noi che siamo nati sullo stesso pianeta, dobbiamo ucciderci l'un l'altro? »

 

 

 

« Ohi, Pai, ci sei? »

Il giovane uomo impiegò un'altra manciata di secondi a rispondere a Kisshu, che lo scrutò con la testa inclinata di lato e l'aria scettica:

« Pai? »

« Cosa vuoi? »

Il verde corrugò la fronte stizzito dalla sua risposta brusca:

« Ti sto parlando da un minuto. »

« Cosa vuoi? »

Ripetè gelido l'altro e Kisshu schioccò la lingua irritato, ma evitò di puntualizzare che, per una volta, non avesse colpe tali da far saltare la mosca al naso al fratello e ripetè a denti stretti:

« Ti stanno chiamando dal Consiglio Maggiore, non so che cosa c'è con il sistema di mantenimento del laboratorio interno. »

« E…? »

« E io non ho voglia di ripeterti tutto un'altra volta. – sbottò dandogli le spalle – Muovi il culo e vai. »

Pai squadrò il verde allontanarsi a passo di marcia con le dita intrecciate dietro la testa e si passò due dita sulla tempia, forse più irritato dal suo recente essere sempre più distratto che dall'atteggiamento di Kisshu.

Alzò lo sguardo ametista verso la finestra e si perse ancora nei suoi pensieri, un gusto amarognolo dietro le labbra.

Blu.

Un cielo blu che pareva infinito.

Era passato quasi un anno e mezzo, e ancora non si abituava alla sua vista.

Dopo che avevano riportato il goccio di MewAqua sopravvissuto alla battaglia contro Deep Blue ci erano voluti comunque cinque anni prima che la situazione si stabilizzasse: la gemma non aveva molto potere, e lui e la sua gente avevano dovuto lavorare sodo coadiuvando l'influsso benefico del cristallo, che aveva rianimato quel pianeta morto sotto il ghiaccio, con i loro sforzi.

Finalmente vivevano appieno sulla superficie di un mondo vivo e florido, sotto un cielo sfavillante privo di gelo mortale.

E allora perché lui aveva l'impressione di soffocare ogni volta che alzava gli occhi all'insù?

 

 

 

« Perché? Perché noi che siamo nati sullo stesso pianeta, dobbiamo ucciderci l'un l'altro? »

« … È ciò che si chiama destino. »

O forse, si era detto al tempo dopo aver pronunciato quelle parole, una prova del destino nei suoi riguardi.

Non vedeva altra ragione del perché quella terrestre dallo sgargiante abito verde e gli occhi grandi e titubanti continuasse ostinatamente a cercare il confronto con lui.

Avrebbe potuto capire se avesse voluto provare a parlare con Taruto. Era un ragazzino, abile e forse un po' crudele in certi aspetti proprio perché giovane e, nella somma, un valido alleato, ma pur sempre poco più che un bambino che pensava più a far dispetti che alla guerra.

Avrebbe potuto capire se avesse provato a parlare con Kisshu. Moltissimi aspetti del verde gli risultavano contorti e insondabili anche dopo una vita, e se non ci fosse stato il suo sospetto verso Ao No Kishi e verso Deep Blue, o i suoi progetti di scavalcare il loro comandante per provvedere da soli alla salvezza del loro pianeta, sarebbe bastata probabilmente l'insana infatuazione – come Pai si ostinava a minimizzarla – per la leader delle nemiche a renderlo, probabilmente, più incline ad una qualche alleanza, o magari anche solo al dialogo. Tutto era possibile con quel contorto cervellino che si ritrovava il verde.

Ma Pai non aveva mai, mai capito come Retasu potesse solo minimamente pensare di dialogare con lui.

Lui non aveva mai lasciato spazio a dubbi, a insicurezze, o a spiragli di comprensione. Aveva sempre svolto il suo ruolo nella missione con inflessibilità, senza pietà, arrivando a spianare la strada del suo signore rivoltandosi contro il sangue del proprio sangue.

Eppure se l'era ritrovata di fronte ogni volta.

A guardarlo senza odio, senza astio. La fronte corrugata nello sforzo della battaglia, la decisione nonostante tutto con cui lo attaccava – per fermarlo, perché di quegli attacchi nulla pareva mirato a fare del male, che fosse un fiotto d'acqua o un calcio, ma per immobilizzare, bloccare, permetterle di farsi ascoltare – e lo sguardo che, a dispetto dell'indole timida che perfino lui intuiva, la ragazza poneva con decisione quasi sconveniente nel suo.

Sguardo desideroso di comprendere, uno sguardo combattuto su quanto stava accadendo. Lo sguardo di due occhi verdi.

Quel verde tanto accecante da essere insopportabile.

Ed era sempre lo stesso, che fosse trasformata o meno. Solo che nella sua versione di fragile e goffa umana, era blu.

Un blu così intendo da arrivare ad odiarlo.

Li odiava così tanto che non se li toglieva dalla mente, l'irritazione che ribolliva nelle vene ogni momento in cui la sua memoria, libera dal progettare un nuovo attacco o dal controllare qualche nuovo dato, gli riportava con irruenza quei colori nel campo visivo pur non avendoli di fronte.

Era il blu del mare che non aveva mai visto e del cielo nascosto dietro nubi perenni, a casa, e lo odiava.

Era il verde di una terra che non avrebbe mai visto, una terra viva e florida, e lo odiava.

Retasu era blu e verde. Era cocciuta, ingenua, speranzosa oltre il tollerabile e il buon senso.

Tanto da fargli tremare la mano sulla propria arma ogni volta che se la ritrovava di fronte.

E per questo l'aveva odiata.

 

 

 

Si coprì gli occhi con una mano e digrignò i denti infastidito, non si sarebbe mai abituato alla luminosità che poteva dare un vero sole in tutto il suo splendore.

Kisshu e Taruto dicevano sempre che era solo la sua naturale indole ad essere intollerabile a qualunque cosa e ad essere lui stesso poco sopportabile, ma la verità era che tutta quella luce per lui rendeva i colori troppo vividi.

Non era abituato a farsi stravolgere i sensi da alcunché.

Né l'animo.

Aveva sempre posto una distanza da tutto ciò che lo circondava. Il suo mondo, la propria famiglia, ogni cosa che era attorno a lui aveva sempre avuto come un paio di centimetri di tolleranza tra essa e se stesso, un margine che gli permetteva di ricevere qualunque stimolo o notizia attutita, con la calma necessaria per assorbirla e affrontarla razionalmente.

Tutta la luce che ora aveva attorno non glielo permetteva più.

Non glielo permetteva l'aria fresca sulla pelle, il rumore assordante degli insetti e dei pochi piccoli volatili che disseminavano le fronde degli alberi giovani attorno alla città.

Non glielo permettevano quei colori che parevano aver invaso tutto l'orizzonte solo per ferirgli gli occhi.

Verde di giovani boschi, di erba fresca, blu del cielo sconfinato.

E il gusto amaro in bocca gli adombrava ancor di più il viso facendogli desiderare di chiudere gli occhi e non vedere.

« Perché? Perché noi che siamo nati sullo stesso pianeta, dobbiamo ucciderci l'un l'altro? »

 

 

 

Se ci ripensava lei era la sola ad averlo mai guardato in viso.

Raramente si era scontrato con la petulante ragazzina in giallo, non ritenendola molto più che un noioso diversivo; pure con la loro leader aveva di rado incrociato battaglia, forse per eccessiva prudenza verso i poteri sconosciuti dell'arma che possedeva, più probabilmente perché aveva sempre ritenuto – errando, purtroppo, ormai era in grado di ammetterlo – fosse sufficiente relegare la sua dipartita a qualche chimero; la ragazza volatile era più combattiva e non lesinava dal tentare colpi diretti, pur attaccando da lontano per via della propria arma, e la ragazza lupo era di certo stata l'avversaria che più volte si era ritrovato ad affrontare direttamente sul campo.

A ripensarci, comunque, tutte loro non lo avevano mai guardato. Né lui aveva fatto altrettanto.

Si affrontavano a viso aperto, squadrandosi in faccia con decisione, ma senza vedersi a vicenda; per lui e per loro erano reciprocamente obbiettivi da sconfiggere, non era necessario fare altro se non avere la figura nemica con precisione nel campo visivo, non occorreva vederla.

Probabilmente era per quello che non aveva un ricordo distinto di nessuna di loro.

Retasu no.

Lo guardava sempre dritto negli occhi. Lo osservava, quasi cercando nella minima ruga di quel volto marmoreo e inespressivo un lampo di qualcosa che nemmeno lei, forse, sapeva, forse umanità – se si poteva passare il termine – di esitazione o dubbio; forse di sentimento di qualsiasi genere.

Probabilmente era per quello che invece il suo, di viso, gli era rimasto come incastrato nella memoria.

« Tu sei…?! ti prego, fammi passare! Devo salvarlo! »

« Se ti dicessi di no, mi uccideresti? »

« Ti prego! Voglio… Solo salvarlo…! »

Nemmeno quello aveva mai fatto.

Le sue compagne non avevano mai lesinato di attaccarlo rabbiose, con un certo livore aggiunto nei suoi confronti che non aveva mai dimostrato alcun genere di empatia che fosse verso la razza umana o verso i suoi stessi compagni. Lo avevano guardato con disgusto e gli avevano rivolto parole di odio quando lo avevano visto proseguire, cieco e testardo, nella sua missione macchiandosi le mani della vita del suo stesso fratello.

Retasu mai.

Non aveva mai pronunciato una sillaba che sottintendesse un qualche disprezzo verso di lui, dell'ira, o della volontà di affrontarlo come il nemico privo di pietà che lui era.

Ti prego! Gli aveva detto.

Come si poteva pregare un nemico?!

Perfino dopo, quando il bel cielo azzurro della Terra si era coperto di nuvole nere in cui il palazzo di Deep Blue svettava come una gemma blu veleno, quando la polvere aveva nascosto, pietosa, il corpicino inerme di Taruto tra le braccia di Purin e i tuoni soffocati avevano coperto il pianto della biondina, Retasu ancora non lo aveva odiato.

Biasimato, sì. Ma non odiato.

« Dalla guerra può nascere solo dolore, non lo riesci ancora a capire?! »

Il verde di quegli occhi lucidi di dolore era parso volerlo trapassare. Come un pugnale che donava la morte con un colpo indolore, rapido e veloce, quel verde lo aveva colpito in pieno petto e per un secondo la sua determinazione si era incrinata.

Per un secondo, uno solo, aveva avuto la sensazione che se, nel medesimo istante, avesse abbassato la testa e avesse dato voce al dubbio che gli aveva fatto vacillare l'animo, Retasu avrebbe a sua volta abbassato l'arma.

Era sicuro che se fosse rimasto lì, in piedi, smarrito e raggelato negli eventi, senza sapere dove andare, Retasu lo avrebbe raggiunto. Le amiche le avrebbero gridato di rabbia chiedendole cosa pensasse di fare, ma lei si sarebbe comunque avvicinata a lui e con la sua voce flebile, eppure così chiara e cristallina, gli avrebbe concesso un'altra possibilità.

Nonostante avesse appena fatto del male irreparabile, nonostante non ci fossero scusanti per il suo comportamento fino ad allora e lui, che aveva lottato pensando alla sua casa, non ne volesse né se ne pentisse, se non per quell'ultimo fendente.

Nonostante tutto era stato certo che Retasu gli sarebbe andata vicino, gli avrebbe magari sfiorato il braccio che gli pendeva debole sul fianco destro e avrebbe sorriso stentatamente dicendogli che non tutto era ancora perduto.

Che c'era ancora speranza.

Gli umani dicevano che il verde era il colore della speranza.

Mai come in quel momento gli erano sembrate parole più vere guardando la ragazza che ai suoi occhi simboleggiava la speranza stessa.

« Forse, se fossimo nati in un'epoca diversa… »

« Uh? »

« Lascia stare. È una sciocchezza. »

Nessuna concessione. Nessuna possibilità.

« Anche se questa lotta è senza senso, è la missione che mi è stata affidata. »

Gli occhi verdi di Retasu si erano chiusi un momento, afflitti e per la prima volta, rassegnati.

C'era stata determinazione, nella sua voce acuta, fermezza nelle sue parole quando aveva riaperto bocca. Eppure ancora non era stato odio a far tremare quei due frammenti di smeraldo.

 

 

 

« C'è troppo bel tempo – sospirò Kisshu stiracchiandosi – mi fa venire sonno. »

« Te basta non fare niente di quello che dovresti fare e diventi narcolettico, uh? »

Il verde afferrò Taruto per il collo minacciandolo per gioco e prendendo a punzecchiarsi con lui, incurante che il brunetto ormai non fosse più un bambino e come altezza lo raggiungesse pericolosamente.

Pai li studiò in silenzio da poca distanza, camminando vicino ma senza unirsi né al loro chiacchierare né alle loro risa. Non era una novità che dei tre lui fosse quello più composto, ma dal ritorno dalla Terra i rapporti coi fratelli si erano abbastanza raffreddati; con Taruto in particolare, e non gliene faceva un torto, solo di recente gli era stato concesso un po' di spazio per riavvicinarsi al minore che aveva smesso negli anni anche di guardarlo in faccia, rispondendo quando lo chiamava con grugniti e sibili e squadrandolo livoroso.

Forse era stato il tempo, anche se ce ne sarebbe voluto ancora perché le cose tornassero, se non come prima, molto simili. O magari era solo che nell'ultimo anno Pai era diventato più taciturno del normale e al contempo più distratto e distante, cosa che doveva aver rianimato il poco di affetto fraterno ancora presente negli altri due.

« A che pensi? »

Kisshu, il braccio ancora attorno al collo di Taruto – che con nonchalance glielo stava mordendo di ripicca – guardò Pai in attesa di risposta che il viola non gli diede. Questo rimase a fissare il cielo fuori dalla finestra del corridoio e scrollò le spalle senza dare voce ad una vera replica, sorpassandoli e proseguendo con le braccia conserte come se la loro morsa potesse attenuare la stretta al petto e alla gola.

Perché tornava a tormentarlo?

Perché?

Erano passati cinque anni… Aveva compreso, a denti stretti e carico di rimprovero verso se stesso oltre che di vergogna, ma aveva accettato la cosa nei primi anni. Aveva accettato di vedere ovunque lampi di quei colori tra le fenditure della caverna sotterranea, nel cielo sbafato dolcemente di nuvolette candide e nell'erba che tentava di insinuarsi nei primi metri di terreno sotto la crosta, dove arrivava più direttamente il sole.

Aveva accettato che lei gli tornasse alla mente con prepotenza, togliendogli l'aria e facendogli desiderare di assecondare i capricci di Kisshu – come si ostinava a chiamare pure quelli, non volendo definirli come le esplosioni di rovente nostalgia che erano per non dare una forma più evidente ai propri – e salire sulla prima navicella disponibile diretti verso il Sistema Solare.

Aveva atteso che diventasse un rimbombo sordo e distante, un dolore vago come il ricordo che era e doveva essere, sforzandosi di non rivedere segni che gliela riportassero alla mente in ogni cosa.

Ci era riuscito almeno un po'.

Ora la rivedeva ovunque.

Non c'era centimetro, fuori o dentro casa, sotto la luce del sole che non gli ricordasse Retasu.

E più succedeva più la cosa peggiorava. Ormai non c'era più niente che non gli facesse rimbombare il ricordo di quel viso, di quella voce, di quegli occhi verdi e di quel sorriso timidissimo che le aveva intravisto fare: con giri contorti della propria mente, che perfino dopo avergli fatti gli parevano privi di senso, rivedeva ogni cosa di lei, nei visi allegri della gente, nei colori del suo mondo redivivo; e se non ne vedeva, il ricordo tuonava più forte per l'assenza, facendogli notare tutto ciò che mancava, che fosse il suono della voce della mewfocena o il profumo sottile di salsedine che associava a lei, nemmeno lui sapeva bene perché.

« … Io rientro. Ho da fare. »

« Sai la novità! »

Il brontolio di Taruto sfiorò appena le orecchie di Pai mentre fece dietrofront e tornò al confortevole buio del laboratorio.

Odiava quel cielo blu.

Odiava tutto il verde che si dispiegava lussureggiante ai suoi piedi.

Li odiava, perché gli ricordavano Retasu, e il ricordo di lei gli lacerava il cuore.

Non lo aveva detto a nessuno. Mai una parola. Non lo aveva confessato ad alta voce nemmeno a se stesso.

Kisshu delle proprie prese di coscienza portava ancora il segno, nascosto sotto gli abiti, proprio al centro del petto al modo di un piccolo e preciso segno lungo un palmo, come la spada che lo aveva trapassato.

Taruto lo aveva detto poco tempo addietro, quando bofonchiando e giocando con un foglietto aranciato di alluminio aveva detto di voler prendere una licenza appena acquisiti i nuovi gradi per cui si stava impegnando all'Accademia.

« E per far che? »

Aveva biascicato Kisshu a bocca piena. Il brunetto aveva impiegato qualche istante a rispondere, il viso rosso d'imbarazzo, poi aveva preso un bel respiro e detto con voce ferma:

« Voglio andare a vedere Purin. »

Era sceso il silenzio. Taruto non aveva aspettato che qualcuno commentasse, o obbiettasse, aveva semplicemente riconfermato la cosa privando chicchessia della possibilità di replicare ed era tornato nella sua stanza ringraziando della cena.

Pai non aveva indagato se il suo desiderio fosse dettato da un affetto amicale verso la bionda terrestre, anche se conoscendo il fratellino aveva dei dubbi in merito e, temeva, si trattasse di ben altro, ma la cosa che lo aveva sconvolto più dell'annuncio o della decisione di Taruto era stato il vago senso di invidia per il suo coraggio.

Lui non aveva la forza di formulare una resa neppure nella sua testa.

Lui che dopo tutto quanto, dopo le sue affermazioni decise, dopo le sue prese di posizione a discapito dell'evidente follia in cui si era ritrovato, si era frapposto tra le terrestri e il colpo letale sferrato dal suo signore.

Lui che si era voltato e l'aveva cercata, aveva cercato gli occhi verdi di Retasu che si era accorta di lui, di come lo sguardo ametista si fosse posato su di lei, ed era rimasta teneramente confusa a ricambiare quello sguardo vedendo, senza comprendere, Pai sorriderle prima di proteggere lei e i suoi compagni.

Il viola aveva iniziato a pensare di aver esaurito tutta la propria temerarietà con quel gesto. Era un pensiero che lo confortava un poco, facendolo sentire meno vigliacco, meno piccolo.

Meno sciocco a ricordare come, tornato miracolosamente alla vita, avesse salvato una seconda volta le terrestri dal morire nel crollo del palazzo di Deep Blue e aveva avvertito uno strano colpo al petto nel sentire Retasu – la piccola, fragile, dolce umana Retasu – chiamarlo per nome e guardarlo con i grandi e meravigliosi occhi color del mare.

Non aveva detto niente. Non aveva minimamente pensato a dire qualcosa, a spiegare.

Taruto non aveva avuto bisogno di spiegarsi, nemmeno Kisshu. Lui sì.

Lui, che aveva lottato fino a prima con la ferocia di una belva, aveva dato la sua vita senza un perché. Apparentemente.

Avrebbe dovuto dire qualcosa.

Avrebbe voluto.

Il bisogno di spiegare lo aveva soffocato guardando la figurina della mewfocena allontanarsi da sé, mentre il pavimento si spaccava e franava, vedendo il suo viso e il suo sguardo confuso; nessuno avrebbe detto niente, né che fosse il momento sbagliato né che non fosse giusto: il suo corpo fino a due minuti prima giaceva riverso nelle macerie, freddo come le stesse, nessuno avrebbe mai potuto biasimarlo se in quei pochissimi istanti in cui ancora poteva vederla avesse parlato.

Se le avesse detto che tutto nel suo essere lo faceva vacillare.

Come le sue parole spegnessero la sua rabbia, lo facessero desiderare di avere il tempo per parlare. Lo facessero desiderare di distruggere il velo di grigio che aveva posto tra sé e il mondo per ascoltare lei con chiarezza, per vederla chiaramente.

Per lasciarsi sopraffare dall'intensità di quello sguardo e di quella voce.

Per dirle che sì, aveva vinto, si arrendeva. C'era un'altra via, c'era sempre stata, e se l'avesse ammesso prima lei sarebbe stata pronta a guidarlo.

Per dirle che se aveva scelto di morire lo aveva fatto solo per lei.

Che aveva scelto di soccombere perché a farlo non fosse lei.

Per dirle che se fossero nati in un'altra epoca l'avrebbe amata con ogni grammo del suo essere, con la stessa bruciante ostinazione e incrollabile fede che aveva dimostrato di avere dietro alla sua indole di gelido soldato.

Ma non aveva detto niente.

Pai aprì con un sospiro la porta del laboratorio e si rimise a lavorare con un bisogno feroce di ottundere la mente. Sullo schermo passarono tutte le disposizioni giornaliere inviate dal comando e con la coda dell'occhio vide il permesso di licenza concesso a Taruto, in allegato con i piani di volo previsti.

Mise la segnalazione da parte allontanandosi dalla tastiera con rabbia e reggendosi la fronte con la mano.

Il brunetto sarebbe partito il giorno dopo. Anche Kisshu sarebbe andato, irrimediabilmente vincolato ad uno strano masochismo per confrontarsi, ancora, con l'amore convulso verso la mewneko, con ogni probabilità.

Lui no.

Lui sarebbe rimasto lì.

Perché erano sempre nella stessa epoca, erano sempre lui l'invasore e Retasu la paladina del bene. Lui che aveva sputato su ogni dialogo e lei che aveva tentato fino all'ultimo istante di non lottare.

Non aveva alcun diritto di ripiombare nella sua vita, né voleva affliggersi ulteriormente con l'immagine di Retasu felice della vita che aveva, magari accanto all'umano biondo che con tanta caparbietà aveva salvato da una tomba d'acqua e che Pai le aveva visto proteggere sempre, strenuamente, facendogli odiare inspiegabilmente e in modo più spietato più di tutti gli altri quell'umano, che non pareva vedere l'amore con cui lei lo ammirava.

Lui sarebbe rimasto nel suo mondo a lasciar morire il proprio cuore in quei ricordi che, come onde di marea, lo soffocavano per poi lasciarlo andare ad una malinconia agrodolce, a ferirsi l'animo fantasticando su cosa sarebbe potuto accadere.

Ad amare con odio violento il cielo e la terra che gli ricordavano lei.

 

 

 

 

 

« Nee-chan! Nee-chan! »

Retasu sussultò richiudendosi alla bene e meglio la camicetta della divisa che si stava togliendo per cambiarsi e guardò Purin stranita della sua agitazione:

« Che succede? »

La mewscimmia non aveva fiato e due uova al tegamino per occhi, il viso rosso d'euforia:

« Sono tornati…! Sono tornati! »

Tartagliò nervosa. Retasu strizzò appena le iridi oceano dietro le lenti e le spalancò a sua volta, il cuore che perse un battito connettendo:

« … Quando? »

« Ora! Ora…! Devi…! Vieni! – continuò a farfugliare agitatissima – Sono tornati…! »

La mewfocena chiuse la camicetta e si riassestò le trecce, ebbe l'impressione di avere un tamburo in petto:

« Tutti? »

Purin si gelò di colpo. L'espressione eloquente del suo viso non ebbe bisogno di spiegarsi oltre e Retasu spense il piccolo sorriso che le era spuntato.

« Nee-chan… »

La verde abbassò la testa un secondo e la rialzò quello dopo sorridendo materna:

« Su, vai no? – la redarguì con decisione – Io ti raggiungo subito. »

Purin titubò ancora per nulla convinta del suo tono, ma dal salone Ichigo tuonò prima sgridando qualcuno – era cambiata nel tempo, ma Retasu fu sicurissima fosse di Kisshu la voce che rispose alla rossa – e poi infuriandosi con qualcun altro che, dal tono, doveva essere sicuramente Taruto; gli diede conferma la reazione di Purin che scattò su come una molla, gettandole un'altra occhiata preoccupata e non resistendo più al nuovo scoppio di voci dall'altra parte e scattando verso l'ingresso, da cui Retasu sentì l'amica bionda esplodere in risate e lacrime urlando a pieni polmoni il nomignolo con cui si ostinava a chiamare il giovane alieno.

Retasu si sedette sulla panca negli spogliatoi e strinse le mani in grembo, mordendosi le labbra cercando in tutti i modi di non piangere.

Era solo una sciocca.

Era ovvio che succedesse. Purin non aveva fatto altro per cinque anni, ripetere come una macchinetta che Taru-Taru sarebbe tornato a trovarla perché erano amici e si volevano bene; su Kisshu chi poteva stupirsi, non era mai stato il tipo da accettare un due di picche, né uno adatto ad arrendersi.

Pai quali ragioni mai avrebbe potuto avere per tornare?

Eppure per pochi secondi lo aveva sperato.

Aveva sperato di rivedere quei due occhi viola come un cielo di Novembre, severi e freddi, eppure così caldi e profondi, quegli occhi che aveva visto un solo istante illuminarsi di un sorriso e una volta sola. Aveva sperato di rivederli per davvero e non più solo nei sogni, vederli ed avere la certezza che non se li era immaginati, che tutto andava bene, che fossero capitati in un'altra epoca e lei avrebbe potuto permettersi di provare a guardarli e smarrircisi dentro.

Ma a quanto pareva, era sempre la stessa epoca.

« Lascia stare, è una sciocchezza. »

La verde appoggiò la fronte ai pugni chiusi piegandosi su se stessa, rimanendo in silenzio soffocando qualche singhiozzo roco, quindi si alzò, prese un gran respiro e asciugandosi gli occhi si impose il miglior sorriso di cui fosse capace ed uscì.

Avrebbe finto di non notare la sua assenza se non vagamente.

Avrebbe finto che non le importasse.

Avrebbe finto di non cercare, per l'ennesima volta, uno sguardo del colore delle ametiste che non c'era.

 

 

 

 

~ ~

 

 

 

*piange in un angolino*

Ok scherzi a parte mi piace partecipare ai contest :3 e questo è stato una bella sfida che mi ha un pochino riattivato i neuroni ormai defunti in queste settimane sullo scrivere :P adesso però esigo che sforniate roba fluffosa a nastro, perché ultimamente il fandom è molto tranquillo e con questa riga di tristezza io devo riprendermi TT___TT… Baci a tutti


Mata ne
~♥! 

 

Ria

 

 

 

   
 
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