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Autore: BlueButterfly93    11/05/2016    4 recensioni
(REVISIONE STORIA COMPLETATA)
MIKI: ragazza che, come il passato le ha insegnato, indossa ogni giorno la maschera della perfezione; minigonna e tacchi a spillo. È irraggiungibile, contro gli uomini e l'amore. Pensa di non essere in grado di provare sentimenti, perché infondo non sa neanche cosa siano. Ma sarà il trasferimento in un altro Stato a mettere tutta la sua vita in discussione. Già da quando salirà sull'aereo per Parigi, l'incontro con il ragazzo dai capelli rossi le stravolgerà l'esistenza e non le farà più dormire sogni tranquilli.
CASTIEL: ragazzo apatico, arrogante, sfacciato, menefreghista ma infondo solamente deluso e ferito da un'infanzia trascorsa in solitudine, e da una storia che ha segnato profondamente gli anni della sua adolescenza. Sarà l'incontro con la ragazza dai capelli ramati a far sorgere in lui il dubbio di possedere ancora un cuore capace di battere per qualcuno, e non solo..
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Lo scontro di due mondi apparentemente opposti, ma in fondo incredibilmente simili. Le facce di una medaglia, l'odio e l'amore, che sotto sotto finiranno per completarsi a vicenda.
Genere: Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: Triangolo
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Ubriaca d'amore, ti odio!'
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Capitolo 24

Ritorno (in)atteso








MIKI

Lei era lì. Non era finzione, quella volta non era un sogno, non era un incubo ma pura e forse amara realtà. La donna che mi aveva messo al mondo sedeva beatamente ad un tavolo poco distante dal mio. Come poteva essere vero? Perché stava accadendo tutto così all'improvviso? Quel viaggio a Roma sembrava esser stato maledetto da qualcuno; stavano accadendo troppe cose strane, troppe coincidenze concentrate in un giorno solo.

Teresa rideva. Dovetti stropicciarmi gli occhi per capire se quel che stavo vedendo fosse realtà o finzione. Per fortuna il trucco se n'era già andato precedentemente, altrimenti sarei diventata una maschera di Carnevale tanto dalla forza e convinzione che misi nel gesto. Lei rideva in quel sorriso ricordato solo grazie ad alcune foto. Era un sorriso semplice di una donna solare, una donna che sembrava felice, come se non avesse mai commesso nessun peccato. Da quei sorrisi si capiva perfettamente che ogni peccato compiuto in un'altra vita era stato lavato. Sì, lavato ma non eliminato. Perché i suoi peccati erano talmente tanti da non poter essere eliminati in nessun modo, neanche se fosse diventata una suora. Peccati che potevano essere paragonati a tante macchie sui vestiti, quelle macchie insistenti che lavaggio dopo lavaggio si schiariscono ma restano sempre ben presenti sul tessuto. Io in quel caso ero la macchia fastidiosa; ero un peccato che non poteva essere lavato, cancellato. Purtroppo esistevo seppure non mi avesse voluta, o forse sì... Inizialmente il gioco del genitore era stato facile anche per lei, poi le situazioni si complicarono ed aveva ben pensato di fare la prostituta; "sei un genio, Teresa". Come se non esistessero altri lavori, come se non fosse stato meglio guadagnare poco ma tenersi la dignità stretta... Eh no! Non avevo mai compreso le sue scelte, ma, mai avuto la possibilità di confrontarmi con lei. Ero maledettamente piccola quando aveva deciso di fare quella vita e qualsiasi mio giudizio, eventuale, sarebbe stato ignorato. All'epoca io non contavo nulla, anzi, semmai pesavo.

Dall'espressione che le si leggeva sul volto, in quell'istante, non trasparì nessun rimpianto per quel lavoro sporco fatto per anni, anche perché, tra l'altro, fu grazie alla prostituzione che conobbe la sua anima gemella; forse non ricordava neanche di aver abbandonato una figlia vista la spensieratezza che emetteva ogni secondo di più... E poi c'era lui. Lo ricordai subito quando lo vidi seduto affianco a Teresa. Era uno dei suoi clienti abituali, un musicista che secondo lei aveva qualcosa di diverso dagli altri. Aveva promesso di portarla via, di non farle fare più quella vita; aveva promesso che le avrebbe concesso una vita degna di una regina. Almeno lui - al contrario di lei - fu di parola; perché altrimenti non starebbero ancora insieme, non avrebbe provocato a Teresa una di quelle risate più belle e sincere di sempre. Quella risata. La ricordavo ancora sebbene fossi piccola, troppo, per memorizzare. C'è chi dice che i bambini tendono a ricordare gli eventi straordinari, belli o brutti, che vivono. Ed io infatti ricordavo bene. Avevo quasi quattro anni, prima che mio padre diventasse un'alcolista, prima che la mia vita diventasse vergogna ed incubo...

 

Era uno di quei giorni che la mamma lasciava liberi da ogni impegno, solo per me. Succedeva almeno due giorni alla settimana, mi dedicava tutta la giornata invece di pulire casa. 

Quel giorno stavamo giocando con le Barbie, le svestivamo e cambiavamo loro i vestiti. Stupidamente credevo nella magia. Credevo che le scarpe delle bambole con un po' di forza potessero essere indossate da chiunque, e quindi, che poggiandole sul proprio piede si sarebbero ingrandite su misura. E così feci, quel giorno. Ma invece d'ingrandirsi, le piccole scarpe, andarono sotto la pianta di entrambi i piedi e mi fecero scivolare goffamente sul pavimento provocando un grande rumore. Teresa aveva osservato -in silenzio e curiosa- tutta la scena. Appena mi vide cadere corse in mio soccorso mentre le uscì una delle risate più belle di sempre. Era una risata piena, una di quelle risate che coinvolgono chiunque, e che farebbero ridere anche i più depressi. Era una risata ricca di felicità e soddisfazione, una di quelle risate che sono riservate a pochi. Io in quel caso fui fortunata, ebbi il privilegio di sentirla e persino di provocarla. Pur non sapendo ancora cosa mi sarebbe aspettato, quel momento, lo avrei portato per sempre nel cuore e nei ricordi.

«Tesoro...» s'interruppe per continuare a ridere, poi continuò: «devi sapere che le scarpine delle Barbie non possono diventare grandi quanto le tue», mi sollevò tra le sue braccia, esili ma nello stesso tempo grandi e calde, portandomi sul divano insieme a lei.

Dopo qualche minuto riuscì a tornare seria e proseguì il discorso: «non siamo nel cartone animato che ti piace tanto guardare. Nella vita reale gli oggetti piccoli restano piccoli ed i grandi restano grandi, né s'ingrandiscono né si rimpiccoliscono. Capito, amore?» usando parole semplici, che potessero entrare nella testa di una bambina di quasi quattro anni, terminò la sua lezione con un dolce bacio sulla fronte.

Amavo quei momenti, amavo lei. Alla follia.

 

Ripensando ai giorni passati mi chiesi, ancora una volta, come una donna dai sani principi, semplice e buona, potesse essersi trasformata in avida, senza cuore e quasi cattiva in un breve periodo. Forse neanche dei dottori specialisti sarebbero stati in grado di spiegarlo. In pochi istanti mi passò davanti agli occhi tutta la vita: il dolore, l'abbandono, la solitudine. Con tre semplici parole avevo spiegato i miei ultimi dodici anni di esistenza. E fu terribile, terribile davvero ripensare a quanto quella donna mi aveva fatto soffrire. Le urla, la cucina, la solitudine, la stanza del sesso, le tante facce degli uomini che ogni sera giravano per casa, mi fecero andare su tutte le furie nonostante fossero trascorsi tutti quegli anni. Così, senza collegare i muscoli volontari al cervello mi alzai di scatto. Per un momento dimenticai di trovarmi seduta ad un tavolo in compagnia di Castiel e Stefania. Avevo dimenticato tutto ciò che mi circondava; nella mia visuale esistevano solo Teresa e la sua nuova famigliola felice. Anzi non era nuova, quella seduta al tavolo con lei, era la sua prima, unica e vera famiglia. Vederla lì, a pochi metri da me, da quella distanza ravvicinata, mi fece sentire ancora più orfana. 

D'istinto sbattei le mani con violenza sul tavolo, facendo sollevare di qualche millimetro le posate, e con un filo di voce informai il rosso e Stefania: «Ho bisogno di prendere una boccata d'aria. Torno subito!»

La mia sedia nel frattempo era cascata sul pavimento provocando un rumore che fece voltare tutte le persone presenti in sala verso la mia direzione.

Anche lei si voltò. Ci guardammo ma non riuscii a sostenere lo sguardo per più di qualche secondo. Abbassai gli occhi e facendola sembrare, quasi, una fuga mi diressi verso l'uscita del locale a passo svelto. Non sapevo se lei mi avesse riconosciuta; anzi non volevo neanche saperlo. Non la conoscevo abbastanza da indovinare un suo pensiero anche solo con uno sguardo. Tra di noi non c'era, e probabilmente non ci sarebbe mai stata, quella complicità, quella conoscenza, quell'intimità che poteva esserci solo tra mamma e figlia. Un po' lo rimpiansi; perché infondo avrei voluto chiedere, avrei voluto conoscere le sue ragioni, i motivi: cosa l'avesse spinta ad abbandonarmi. Forse solo dopo aver ascoltato tutte le sue ragioni avrei potuto giudicare le sue azioni. Forse anche lei meritava di essere ascoltata. Ma come poteva meritare qualcosa, se, nei suoi pensieri, io: Micaela Rossi, figlia bastarda, non passavo neanche per sbaglio?

«Favorisci?» Castiel, mi distolse dai miei pensieri contorti. Solo grazie alla sua voce ritornai alla realtà.

Mi guardai intorno. Mi trovavo difronte all'entrata del ristorante, un'entrata diversa da quella principale dell'hotel che dava accesso alle camere. Ero, in pieno Gennaio, con addosso solo una maglia sottile di cotone. Fino a quel momento non avevo sentito neanche un briciolo di freddo, ma non appena il rosso si avvicinò, era calato il gelo dentro me; non capii il motivo di quella sensazione.

Schioccò la lingua contro il palato «E poi mi accusano di non essere gentile. Una volta tanto che avevo deciso di compiere un'opera di bene...» aggiunse il rosso brontolando vedendo che non lo avevo degnato neanche di uno sguardo.

Subito, diventò oggetto della mia attenzione. Lo guardai. Tra le mani teneva un pacchetto di sigarette, aperto, verso la mia direzione come se me ne stesse offrendo una. Eppure sapeva che io non fumassi. Senza cercare minimamente di sforzarmi per capire il suo intento o il motivo di quel gesto, accettai prendendo una sigaretta. Non avevo mai fumato e sperai fino all'ultimo di non risultare una bambina ridicola, ai suoi occhi.

Mentre si portò l'accendino di fianco alla bocca per accendere la sua sigaretta, replicai alla battuta di qualche istante prima: «E quindi... Fammi capire; le tue opere di bene consisterebbero nel portare le brave ragazze in cattive strade? Bravo Castiel, mi stupisci ogni giorno di più!» accennai un sorriso.

Con solo una battuta ed un piccolo gesto stupido era riuscito a riportare il buon umore. Lo ringraziai mentalmente.

«Ma io qui non vedo nessuna brava ragazza...» si guardò intorno come per cercare una "brava ragazza" e subito dopo sorrise con quel sorriso, con il sorriso che ogni giorno di più mi faceva perdere la testa; lasciò la frase in sospeso mentre fissava l'entrata del locale. Io mi trovai di spalle alla porta quindi non potei vedere chi fu il soggetto che aveva attirato la sua attenzione. Non ebbi neanche il tempo di provare a voltarmi per sbirciare che, subito Castiel, si avvicinò a me con l'intento di accendere la mia sigaretta. Non sapevo come accenderla, ancor meno in quel momento di confusione. Lo guardai dritto negli occhi quasi impaurita e dispiaciuta; sembrò capire da cosa derivasse la mia preoccupazione. Senza permettermi nessun movimento mi sfilò la sigaretta che avevo portato precedentemente alla bocca, e porgendomi la sua -già accesa- ripeté il meccanismo di accensione anche con la mia. Quello che stava accedendo sembrò un sogno, non perché fosse qualcosa di particolarmente bello o romantico ma perché mi sentii spettatrice di quella scena, quasi come se non fossi legittimata a compiere alcuna azione, come se tutto era già stato programmato ed io non dovevo far altro che guardare.

Proprio quando feci il primo tiro di sigaretta, c'interruppe la voce di un uomo. Mentre lui parlava, partì il mio primo colpo di tosse. Il tabacco mi aveva asciugato e seccato la bocca, già da quell'istante capii che la sigaretta non avrebbe mai fatto al caso mio, neanche in casi di forte stress.

«Castiel, Castiel, Castiel... adesso capisco perché Debrah ha insistito così tanto per venire a trovarci, in Italia. Allora... cosa ci fai a Roma?» il mio cuore si bloccò.

Sebbene fosse passato del tempo riconobbi la sua voce; Marcel, l'unico uomo che si era affezionato a mia madre non solo per il suo corpo; uno dei clienti abituali, uno dei tanti musicisti che quando erano di passaggio grazie al loro tour, venivano a farle visita. Una visita che tra l'altro pagavano profumatamente. Non capii mai cosa potesse fare di così speciale, ma i servizi di Teresa erano abbastanza costosi.

Varie immagini ripercorsero la mia mente. Non odiavo Marcel, anzi era l'unico dei tanti uomini di Teresa che mi stava simpatico. 

Fu allora che decisi di affrontare finalmente la realtà. Mi voltai nella direzione della voce e li vidi. Quella volta con maggior vicinanza, fecero più ribrezzo. Ed io cercai di evitare di squadrarla, cercai di far passare quegli istanti come se nulla fosse accaduto, ma risultò impossibile. E la guardai, ancora...

Gli occhi scuri, i capelli lunghi e ondulati di quel rosso ramato e naturale che aveva un po' scurito con le tante colorazioni, segnavano -purtroppo per lei- la nostra somiglianza. Sebbene non avesse cambiato pettinatura ed i suoi lineamenti fossero rimasti identici ad otto anni prima, sul suo volto s'intravedevano i segni del tempo. Qualche ruga in più, però, le fece soltanto bene; di sicuro da quando aveva abbandonato casa Rossi aveva iniziato a condurre una vita serena e agiata. Lo si capiva dai vestiti che indossava, lo si capiva dalla serenità delle sue espressioni. Indossava una pelliccia, che Dio solo sa quanti animali innocenti avevano ucciso per farla, e degli stivali di pelle nera firmati Dolce & Gabbana. Di sicuro sotto indossava una gonna visti i collant neri che le s'intravedevano dalla lunga pelliccia. Era stata sempre una bella donna, alta e snella, non c'erano dubbi. Ma la bellezza esteriore serviva a poco visto che interiormente aveva dimostrato di non avere niente. 

«Sì, sono a Roma con la mia ragazza, Miki. Micaela Rossi!» Castiel, con tanta sicurezza, spezzò i secondi di silenzio ed i miei tormenti interiori.

Strabuzzai gli occhi. La sigaretta, che maldestramente tenevo tra le dita, cadde sul pavimento marmoreo del marciapiede. Ero incredula. Anzi, ero esterrefatta... Anzi no, ero tutti gli aggettivi più assurdi e meravigliati esistenti al mondo. Dovevo aver capito male. Cosa caspiterina aveva detto? Per quale motivo lo aveva detto?



 

CASTIEL 

Teresa non poteva passarla liscia. Già da quando Marcel fece la sua entrata trionfale avevo previsto ed immaginato la scena. Se non avessi usato quelle frasi e non avessi pronunciato il nome di sua figlia la conversazione sarebbe terminata all'istante, e la "madre a convenienza" l'avrebbe passata ancora una volta liscia. Vero, inizialmente volevo che le due non s'incontrassero proprio sebbene si trovassero nello stesso ristorante, ma dopo aver ragionato capii che non doveva andare per quel verso. Teresa era stata fuori dalla scena per troppo tempo, aveva giocato il ruolo di antagonista da lontano ed era giunto il momento che anche lei sentisse il peso di tutti quegli anni persi, di tutta quella lontananza dalla figlia. Teresa doveva sentirsi in colpa e se -per come mi aveva raccontato Debrah- fino a quel momento non aveva pensato minimamente a Miki, le avrei fatto rimpiangere tanto, più del dovuto. Oramai ero stato tirato in ballo in tutta quella faccenda e avrei giocato per bene il mio ruolo. 

Castiel Black non perdeva mai nessuna partita.



 

MIKI

Intanto nella mia testa governava ancora più caos di pochi minuti prima. Castiel non poteva aver affermato quella cosa perché lo pensava realmente, non poteva aver lasciato Debrah. Avevano litigato, li avevo sentiti. Se si fossero lasciati lui me l'avrebbe detto. Ma cosa pretendevo? Cosa andavo a pensare? Di sicuro mi aveva definita "la sua ragazza" solo per farmi riconoscere da Teresa, per marcare il mio nome e quindi renderle inevitabile l'avvicinamento. Lui non la conosceva, non l'aveva mai vista prima d'allora, eppure sicuramente aveva ricollegato il padre di Debrah a lei. Nella mia testa c'era tanta confusione come del resto capitava spesso, non riuscii in alcun modo a mettere in ordine i pensieri.

E non mi aiutò di certo la voce che mi rivolse la parola: «Ehi... come stai?» disse Teresa con una naturalezza e freddezza da far rabbrividire.

"Come sto? Come sto, mi prendi in giro?!? È questo tutto quello che riesci a dire ad una figlia che hai abbandonato come un rifiuto in mezzo ad una strada? È questo quello che si dice ad una figlia che non vedi da otto anni? Vaffanculo Stronza!"

Sperai di aver sentito male, ma non fu così. Capii di non aver frainteso quella domanda dall'espressione sconvolta che si dipinse sul volto di Castiel. Anche se a parlare era stata Teresa, continuai a guardare lui per tutto il tempo. Non compresi il motivo di tale istinto ma forse non c'era neanche tanto bisogno di capire. Nonostante la situazione surreale che stavo vivendo da qualche mezz'ora, ero serena in un certo senso. Mi sentii fortunata perché il ragazzo dai capelli rossi mi era vicino continuamente; vero, lo faceva in un modo tutto suo, ma nel bene o nel male mi stava difendendo e proteggendo. Probabilmente non avrei mai compreso se lo stesse facendo da amico o qualcosa di più, ma lo stava facendo e quello era l'elemento di maggiore importanza. A volte m'innervosiva, ma davanti a gesti come quelli ogni altro fatto negativo perdeva valore. Io non ero sola; mi sentivo forte se affianco a me ci sarebbe stato lui.

Ancora una volta fui distratta da quella donna. Non contenta della pessima domanda appena formulata si avvicinò a me, oltrepassando quella distanza di sicurezza che una mamma dopo otto anni di lontananza dalla propria figlia dovrebbe mantenere, e mi accarezzò il braccio a malapena sfiorandolo quasi come se fossi una malata o una povera da compatire. Quel gesto m'irritò ancor di più e mi scansai violentemente riprendendomi quella distanza di sicurezza che mi spettava di diritto. 

La riguardai negli occhi con l'illusione che dentro i suoi avrei potuto trovare un po' di me, con l'illusione che dentro quegli occhi oltre al nero avrei potuto trovare un po' di compassione, di frustrazione, di sensi di colpa; ma non c'era nulla. Per me, piccola bastarda, dentro di lei non c'era posto. E lo capii ancor di più quando dall'uscita del locale spuntò una ragazzina che attirò completamente la sua attenzione. Quella ragazzina non era una qualunque. 

Era sua figlia. 

Lo capii sin da subito e non solo perché precedentemente, nel ristorante, l'avevo vista seduta accanto a lei. Mi bastò guardare i suoi occhi per capire tutto. Erano gli stessi occhi, lo stesso sguardo che riservava soltanto a me quando potevo ancora definirla mia madre. Perché solo nel vederla le si era illuminato lo sguardo di felicità e soddisfazione. Teresa, la puttana, era soddisfatta di aver cresciuto una figlia lontano dal male e dal mondo del denaro sporco. Teresa aveva fatto il genitore, aveva cresciuto una figlia per bene, bella e sana. Quella figlia, la sua prima a tutti gli effetti, non indossava minigonne, non doveva fingere di essere un'altra persona, di avere altri genitori perché i suoi genitori erano realmente perfetti come raccontava ai suoi compagni. Poteva vantarsene a scuola, avere la sensazione di essere aspettata da qualcuno all'uscita, poteva giocare e non doveva cucinare tutti i giorni dopo il rientro a casa. Quella figlia non aveva peccati da scontare, non aveva vissuto nelle bugie e di conseguenza non ne raccontava. Valori belli da possedere, vero, peccato però che quella figlia non ero io.

«Flora, vieni qui!» la privilegiata ubbidì alla mamma e si posizionò di fianco a lei, Teresa poi continuò: «lei è tua sorella Miki. Ricordi? Te ne ho parlato qualche volta!»

"Qualche volta". 

Ecco. Io ero proprio quello: qualche volta. Qualche volta ero sua figlia. Qualche volta ero importante e qualche volta non esistevo proprio. Ed infatti con il principio del "qualche volta", per lei non ero esistita per ben otto anni e probabilmente -anzi sicuramente- se per casualità non ci fossimo incontrate in un ristorante, sarei continuata a non esistere per lei.

Per un attimo il mio sguardo cadde su quella bambina di massimo nove anni. Era bella, non c'erano dubbi. Notai sin da subito qualche somiglianza con Debrah che a sua volta somigliava parecchio al padre, Marcel. Gli occhi chiari dovevano essere una caratteristica di famiglia visto che entrambi ne avevano due grandi color del ghiaccio. Flora, poi, aveva dei lunghi capelli lisci e ramati, un misto tra biondi e rossi. L'elemento che però più mi colpì fu la sua espressione. Era spensierata e felice come d'altronde dovrebbero essere tutte le bambine della sua età. Forse era solo un'espressione tipica dei bambini ma per me risultò una novità perché, guardandomi allo specchio da piccola, non l'avevo mai avuto. Io ero diversa da lei, in tutto e per tutto.

«Mi scusi Signora, deve aver sbagliato persona. Mia mamma è morta otto anni fa, era una prostituta, girava nuda per casa e scopava con uomini diversi ogni tre ore. Insomma... non era una signora per bene come lei» nervosa più che mai la derisi, dopo qualche secondo di silenzio.

Nonostante dentro fossi distrutta, fuoriuscì una voce decisa e forte. Mi congratulai con me stessa per quello che avevo appena affermato. Tutti quegli anni di rabbia, di pensieri su ipotetici incontri, infondo mi erano serviti per gestire con saggezza quel momento; saggezza che a Teresa non apparteneva neanche in un briciolo. Non avevo alcuna intenzione di ricucire i rapporti con lei; non dopo la sua presentazione. Non meritava il mio perdono o che le rivolgessi la parola. Nella testa continuavano a rigirare tante domande da porle, ma l'orgoglio vinse sopra ogni cosa.

Marcel, Castiel e Flora restarono da spettatori a quella scena. Non guardai nessuno in faccia, per un momento non riuscii a guardare neanche il rosso. Esisteva solo Teresa e la mia ossessione di trasmetterle tutto l'odio che provavo e che avevo represso in quegli anni. Non ne potei fare a meno. Fu allora che esagerò ancora una volta. Aprì la sua borsa costosa, quanto una macchina di seconda mano, ed infilò le mani per cercare qualcosa e dopo averlo trovato, mi porse un biglietto da visita fucsia con su scritto il suo nome e numero di cellulare. D'istinto e con tutta la rabbia che possedevo in corpo accartocciai quel pezzo di cartoncino e lo gettai sul marciapiede. Per tutto il tempo continuai a guardarla negli occhi con odio, non smisi di trasmettergliene neanche per un attimo.

«Direi che non c'è più niente da fare qui, me ne torno dentro» dissi dopo altri vari secondi di silenzio.

Nonostante i suoni ed i rumori assordanti di una città che non dormiva mai, nello spicchio in cui ci trovavamo noi il silenzio si sentì pesantemente per tutta la frazione di tempo passata lì fuori. Il traffico, le voci dei passanti, i mezzi pubblici, tutti sembravano aver percepito la situazione assurda in cui ci stavamo trovando ed il mondo decise di lasciarci in pace. Pace, come se io conoscessi il significato di quella parola.

Percorsi qualche metro e già sulla soglia della porta del locale, di spalle a tutti i presenti, aggiunsi:

«Ah, Teresa... Io per te devo continuare a non esistere. Non voglio mai più incontrarti... che sia chiaro!» e con quelle parole dure ma -sperai- chiare tornai all'interno del ristorante. 

La differenza di temperatura con l'esterno della struttura mi diede un senso di calma improvvisa. Sospirai e tornai da Stefania che si era ritrovata improvvisamente sola e spaesata.



 

CASTIEL

Qualcuno di davvero potente da lassù mi stava trattenendo dal non fare sceneggiate quella sera. Avevo una voglia irrefrenabile di spaccare la faccia ad una donna, per la prima volta nella mia vita. Sebbene non avessi avuto la migliore educazione durante l'infanzia anch'io ero a conoscenza che le donne non bisognava sfiorarle neanche con un dito, ma quella tizia, Teresa, aveva oltrepassato davvero tutti i limiti. Permettendosi il lusso di sentirsi superiore si era rivolta a Miki con una sfacciataggine e freddezza persino superiore alla mia. Una mamma non doveva, non poteva farlo. Miki apparve forte, ma si percepiva nell'aria quanto in realtà fosse distrutta. Le sue risposte lo testimoniarono. E se lei non era stata abbastanza coraggiosa, di rispondere a modo a quella mala donna, allora dovevo per forza esserlo io.

E lei mi facilitò le cose: «Senti tu... Castiel, giusto?!? Potresti farmi un favore?» m'interpellò dopo essersi assicurata che Miki fosse rientrata definitivamente nel ristorante.

«Non credo» le risposi freddamente. Era anche poco.

«Senti, so' di non esser stata la migliore madre del mondo con lei, ma ora sono cambiata. Credimi!» Cercò di giustificarsi, la troia.

«Senti, a me pare che neanche stasera ti sei comportata da Santa. Credimi!» imitai il suo tono di voce e alcune parole. La figlia preferita ed il baccalà di Marcel facevano da spettatori, esibendosi di tanto in tanto con delle smorfie.

«Faresti meglio a guardare la tua, di mamma, invece di pensare a quella degli altri» non sapendo come rispondere si aggrappò sull'unico punto in cui poteva attaccarmi. Teresa mi conosceva, aveva sentito parlare di me e sapeva anche troppo della mia vita. Ringraziai sarcasticamente Debrah per quello.

Chiusi gli occhi per qualche istante e sospirai pesantemente. Dovetti trattenermi dal bisogno di spaccare qualcosa, qualsiasi cosa che somigliasse alla faccia della presunta madre di Miki. Quella donna era ancora più odiosa dei racconti che avevo letto nel diario segreto. Chiusi le mani a mo' di pugno quando, poi, la mia mente malata andò a pensare Debrah. Era stata lei: pettegola, ficcanaso e gatta morta qual era, aveva spifferato ogni dettaglio, anche il più piccolo, del suo -ormai ex- ragazzo. Ed io povero imbecille mi ero fidato, ancora una volta, di quella perfida ragazza. "Stupido Castiel".

«Se fossi cambiata realmente, avresti fatto in modo d'incontrarla prima. Non avresti aspettato quest'incontro squallido e casuale. Non le avresti parlato con questa faccia di merda fresca e rilassata. Stronza!» le sputai contro un briciolo della rabbia che le donne come lei, mi provocavano. 

Avevo davanti alla faccia la causa del male di Miki. Colei che aveva contribuito a renderla una persona che non era, colei che aveva creato corazze e maschere sul volto di un'innocente creatura. Avevo urlato troppo poco di quanto in realtà meritava.

«Tu non sai niente. Niente. Non puoi permetterti a parlare!» si difese banalmente dalle mie accuse alzando la voce, di rimando.

Sì come no. Invece sapevo più cose di quanto lei avrebbe mai potuto immaginare.

«Marcel» urlai quasi con odio contro quell'uomo, che poco c'entrava, poi continuai in toni più bassi: «porta via da qui la tua puttanella, altrimenti stasera, le andrà a finire male!» strinsi i denti guardandoli di sbieco. 

Il mio cervello non avrebbe sopportato più nulla, anche una piccola battuta fuori luogo avrebbe potuto scatenare il litigio peggiore. Marcel con la saggezza di un uomo, ormai quasi, cinquantenne si diresse verso la sua donna e sussurrandole nell'orecchio la convinse a gettare la spugna. Contro di me non poteva competere, non c'erano dubbi.

«Un giorno, quando la tua ragazza si dispererà di non aver potuto riappacificare con sua madre in tempo, ti pentirai di questa scelta. I sensi di colpa ti uccideranno!» la donna cercava di convincermi, ancora. Dovetti ammettere che era un osso duro. In lei riconobbi la tenacia della figlia.

Continuò: «dovevi prendere un semplice bigliettino da visita, lo stesso che Micaela ha gettato poco fa. Non ti ho chiesto mica soldi!»

Non m'interessò se si trattava di un semplice numero di telefono, quello avevo già intenzione di recuperarlo con le mie forze. La questione era ben più complessa. Teresa doveva soffrire proprio come Miki aveva sofferto. Tutte le mamme che in qualche modo avevano abbandonato i loro figli, meritavano di soffrire, un po' come mia madre Adelaide. Ogni cosa, ogni fatto poteva essere collegato con un altro, e qualche parte profonda del mio "io" voleva a tutti i costi che qualsiasi mamma stronza soffrisse. Teresa era la regina delle mamme stronze, se ci fosse stata una battaglia di stronzaggine lei sarebbe stata la vincitrice. Secondo Debrah, Teresa non aveva mai cercato di ricucire i rapporti con la figlia, il che spiegherebbe il motivo per il quale abitando nella stessa città, le due, non si fossero mai incrociate. 

E allora, se Teresa aveva realmente compreso i suoi errori avrebbe dovuto lottare per rimediare, lottare per riavere Miki nella sua vita. Ed io per capire realmente come stessero le cose, dovetti mettere in scena il ruolo del cattivo.

«Addio. Teresa» risposi semplicemente voltando le spalle ed incamminandomi dalla parte opposta dell'entrata del locale.

Aspettai che i tre se ne andassero per ritornare indietro. Quando scomparvero dalla mia vista m'incamminai verso l'entrata del ristorante. Intravidi il biglietto stropicciato -con il numero di telefono di Teresa- che Miki aveva gettato precedentemente sul marciapiede e lo presi infilandomelo nella tasca dei jeans neri.

Proprio quando oltrepassai la porta in vetro e mi trovai, quindi, dentro il ristorante vibrò il cellulare. Lo presi e con mia sorpresa trovai un messaggio che non mi aspettavo di trovare.

 

Debrah:

Visto?! Quando voglio so essere brava. Sappi che l'ho fatto solo per te

 

Castiel:

Non ti seguo, spiega!

 

Avrei voluto tanto non doverla risentire, non avere più alcun tipo di contatto con lei ma avevo bisogno di capire per poter unire almeno due tasselli di quel puzzle apparentemente senza fine.

La risposta arrivò dopo meno di un minuto.

 

Debrah:

La tua amichetta e la mamma si sono incontrate, SOLO OGGI, dopo otto anni... pensa che coincidenza!!!

 

Era stata lei ad architettare tutto, ogni mio piccolo sospetto risultò fondato. Era vero, avrei dovuto capirlo prima. C'erano state troppe coincidenze. Teresa era riuscita a nascondersi per tutto quel tempo e se solo avesse voluto sarebbe riuscita a farlo anche quella volta. Solo nei film più assurdi ci si riusciva a trovare in un posto comune per coincidenza. Quell'incontro era stato programmato dalla mente diabolica più diabolica di tutti i tempi, ed io in un certo senso ero cascato nella sua rete ancora una volta. E allora? Quale sarebbe stato il suo prossimo passo? Debrah non era tipa da fare favori senza ricevere niente in cambio.

Riuscì a spiazzarmi di nuovo, ovviamente... Maledetta!



 

MIKI

Il giorno dopo mi alzai di buon'ora e dopo essermi vestita in modo più che comodo per le lunghe ore di cammino che avremmo dovuto fare da lì a poche ore, gli occhi mi andarono su un cartoncino fucsia stropicciato e poggiato sul comodino affianco al cellulare, segno che il giorno precedente era stato una condanna per il resto della mia vita. Lo presi e lessi, anche se avevo già immaginato il contenuto. Era destino che in un modo o in un altro dovessi conservare quel numero. Nessuno poteva avere accesso alle stanze, nessuno aveva la chiave, nessuno tranne Castiel. Anche il rosso si era fatto abbindolare da quella donna, si era schierato dalla sua parte come d'altronde tutti gli uomini. Grazie o meno al suo ex mestiere sapeva come accalappiarli, se solo avesse voluto avrebbe potuto far cascare ai suoi piedi tutto il genere maschile. Nonostante quel dato di fatto però, decisi di lasciar passare ed infilai il cartoncino nel portafoglio, seppur convinta di non utilizzarlo mai. 

Ero intenzionata a passare quel giorno nel migliore dei modi evitando qualsiasi tipo di dramma. Mancavano solamente cinque giorni alla fine di quella vacanza e quei momenti non me li avrebbe mai più ridati nessuno. Dovevo smetterla di piangermi addosso, smetterla di attirarmi noie, smetterla di essere negativa. Dovevo vivere, vivere e sorridere. Con quei buoni propositi decisi che fosse giunto il momento d'iniziare la giornata, e quale poteva essere l'inizio migliore?

Sorpassai quella specie di separé, il pezzo di stoffa che mi separava dal lato di stanza di Castiel, e andai dritta a poggiarmi contro il muro della finestra di fianco al suo letto. Iniziai a fissarlo; dormiva ancora. 

Era lui il mio inizio migliore. 

Dormendo appariva quasi dolce. I lineamenti del viso erano rilassati e di conseguenza sembrò più giovane rispetto a come dimostrava da sveglio. La coperta gli copriva quasi tutto il corpo, solo alcuni pezzi di pelle erano scoperti. Il petto era nudo e ciò mi fece immaginare che stesse dormendo con solo i boxer addosso o perlomeno a petto nudo. Avvampai all'istante e d'istinto mi portai entrambe le mani sul volto, coprendolo interamente. Non avevo mai visto Castiel nudo, cosa che invece non avrebbe potuto dire lui di me. Il rosso, infatti, mi aveva vista nuda, anche se per pochi istanti, anche se non aveva avuto il tempo neanche di sfiorarmi. Quei pensieri mi portarono inevitabilmente al pomeriggio prima e la situazione sul mio volto non fece che peggiorare; mi andò completamente in fiamme. Per chi non l'avesse vissuto, per chi non era presente a Roma risultò difficile credere che già nel primo giorno di vacanza erano accaduti tutti quegli avvenimenti. Incredibile ma vero, era successa ogni cosa a poche ore di distanza.

«BUUU!» saltai all'improvviso quando insieme a quella parola sentii dei respiri sul collo ed una risata incrementarsi.

Non era difficile da capire che quel fiato appartenesse a Castiel. Il mio viso prese colore e calore. Nel tempo passato a pensare avevo tenuto le mani sul volto e non avevo visto e né sentito il rosso svegliarsi. Dopo aver preso la giusta distanza di sicurezza per tornare a pensare coerentemente, mi voltai per guardare quanto si stesse divertendo alle mie spalle.

Corrugai le sopracciglia quando vidi che con il dito indice di una mano indicava la mia figura e con l'altra teneva la pancia, come per evitare che gli scoppiasse dalle risate. A detta delle persone che lo conoscevano più o meno bene, Castiel non rideva ormai da anni, o se lo faceva, accadeva solo accennando un sorriso e senza sforzare minimamente i suoi muscoli facciali. Anche appena lo conobbi era così. Per quel motivo in un certo verso, in quel momento, pur sentendomi un fenomeno da baraccone, rimasi lusingata. Quelle risate forse erano riservate soltanto a me; forse quella era la dimostrazione che, infondo, in mia compagnia, Castiel, stava bene.

Quando riuscì finalmente a parlare: «tu... t-tu non ti s-sei vi-sta che faccia hai fatto» riprese a ridere senza smettere ed io strabuzzai gli occhi incredula.

In realtà non capii perché la mia espressione lo aveva fatto ridere così esageratamente; anche perché io, invece, ebbi una reazione totalmente contraria alla sua. Quando mi concentrai sul suo abbigliamento e lo guardai attentamente, molto attentamente, mi accorsi fosse a petto nudo come immaginavo, non in boxer, ma, con pantaloni da tuta a vita bassa che gli cadevano divinamente sull'inguine. Fu inevitabile guardarlo. Avrei avuto voglia di strapparmi il viso, di prendermi a ceffoni ripensando ai miei valori autoimposti in sedici anni di vita. Mi ero giurata di non sbavare -come invece stupidamente stavo facendo- per un uomo, di non far dipendere il mio umore da lui, ma soprattutto di non innamorarmi. Erano i valori fondamentali che mi ero autoimposta sin da bambina per sopravvivere alla vita e soprattutto ai sentimenti, ma stavo finendo per non osservarne neanche mezzo. "Stupida Miki!"

«Quando finirai di prendere in giro la gente a caso, fammi uno squillo!!!» lo liquidai con un modo di dire tipico delle mie parti; mi finsi nervosa e gli voltai le spalle tornando dalla mia parte di stanza. Non avevo alcuna intenzione di farmi accorgere dell'effetto che aveva su di me.

Non appena presi lo zainetto per sistemare gli occorrenti da portare durante la visita guidata che avremmo dovuto iniziare dopo neanche un'ora, squillò il cellulare ma smise subito. Si susseguì un messaggio. Incuriosita presi subito quel mattone e lessi il nome del mittente, sia della chiamata che del messaggio. Era lo stesso per entrambi: "Castiel <3"

 

Da Castiel<3:

Squillo fatto! Ho finito di prendere in giro la gente a caso

 

Con quel messaggio stava facendo riferimento alla battuta che avevo pronunciato qualche minuto prima. La mia era detta in senso metaforico ma lui l'aveva osservata alla lettera, ovviamente. Iniziai a ridere anch'io, senza trattenermi, per la stupidità del mio "amico".

Castiel era la mia unica fonte di felicità, nonostante tutto.

Già alle dieci di mattina tra battibecchi vari eravamo giunti al primo posto da visitare: Piazza Campo de' Fiori, l'unica piazza di Roma a non avere delle chiese nei dintorni. Avevo sempre mostrato un certo interesse verso la provenienza dei nomi dei vari monumenti, e almeno di Roma li conoscevo tutti. Ad esempio, quella piazza pareva avesse preso il nome da Flora, donna amata da Pompeo, il quale aveva costruito nelle vicinanze della piazza, il suo teatro. L'elemento di quel posto che mi aveva da sempre attirato più degli altri era il famoso monumento con raffigurato Giordano Bruno, al centro della piazza. Leggende metropolitane raccontavano che se qualcuno avesse guardato quella statua negli occhi non si sarebbe mai laureato. Ed io per il terrore di un futuro già segnato o forse semplicemente per scaramanzia, guardai solo le spalle di Bruno; Non avrei voluto la stessa vita di mia madre, una donna che si porterà per sempre sulle spalle il peso ed il rimorso di non aver mai concluso il suo ciclo di studi. Scossi il capo quando i miei pensieri si spostarono su Teresa. Lei doveva essere terreno invalicabile almeno per quel giorno. Così mi fissai a guardare la piazza, nuovamente per distogliere i pensieri.

Altro elemento: nella Roma contemporanea Campo de' Fiori era famosa tra i giovani soprattutto nelle ore notturne, per la forte presenza di locali nei dintorni. Non aveva molto senso quella visita guidata visto che sia io che Castiel conoscevamo Roma quasi alla perfezione, ma non potevamo sottrarci alle spiegazioni che la signora Lamberto ci stava dando con passione. Dopo aver terminato il monologo, Stefania, senza farci fermare un attimo, ci fece partire in direzione della successiva tappa da visitare: Piazza Navona. Certo, come primo giorno era parecchio noioso, conoscendo il posto avrei favorito altri monumenti e luoghi da visitare. Dopo circa sette minuti a piedi, giungemmo già sul posto.

Piazza Navona, ai tempi dell'antica Roma, era lo Stadio di Domiziano che fu fatto costruire dall'imperatore nell'ottantacinque. Era lungo duecentosettantasei metri, largo centosei e poteva ospitare trentamila spettatori. Nei mesi d'Estate veniva inondata interamente e si tenevano le cosiddette "battaglie navali". Nell'epoca contemporanea la piazza nei suoi duecentosettantasei metri di lunghezza è contornata da ben tre fontane, tutte rese particolari da delle statue. 

Quel giorno, essendo quasi orario di punta, la piazza era gremita di persone tra turisti, passanti ed artisti di strada. Fui attratta da un uomo anziano che dipingeva, aveva la barba lunga e bianca; grazie anche alla stazza fisica mi venne spontaneo paragonarlo alla figura del mitico Babbo Natale. Ma non fu solo quell'aspetto ad incuriosirmi; faceva i ritratti e non erano caricaturali come spesso si vedeva nei paraggi della piazza. L'anziano signore sedeva su uno sgabello in legno ed era circondato da una decina di quadri, tutti dipinti da lui. Sembravano parecchio belli e suggestivi, da quella distanza. Senza pensarci troppo lasciai la signora Lamberto, ancora intenta nella spiegazione delle caratteristiche storiche della Piazza, e mi precipitai affianco al signore per osservarlo da vicino nel suo lavoro. Mi sentii quasi come Ulisse con le sirene incantatrici. Quell'atmosfera, quei quadri sembrava avessero la bocca e stessero pronunciando il mio nome. Fui ammaliata. L'uomo, tra l'altro, aveva un aspetto protettivo e quindi molto rassicurante m'incantai nel guardarlo dipingere. Non mi accorsi neanche di quanti minuti trascorsero ma a giudicare dalla voce stridula della Lamberto che percepii in lontananza, doveva esser trascorso più del dovuto.

«Ehm ehm... Giotto?!?» m'interruppe Castiel -con un finto colpo di tosse- toccandomi la spalla «se hai finito di far finta di essere intenditrice di arte, vieni! Altrimenti sarò costretto a tappare la bocca, in modo poco piacevole, a quell'oca della Lamberto... Sta urlando da non so quanti minuti e tu non rispondi».

Era vero, non me ne intendevo di arte, ma la passione che quel signore ci metteva mi affascinava parecchio, tanto da isolarmi dal mondo.

«Venite. Sedetevi, faccio un ritratto anche a voi» c'interruppe una voce molto vissuta. Dopo essermi voltata nuovamente in direzione dei dipinti, mi accorsi che quella appena udita era la voce del pittore.

Spinta dalla curiosità mi avvicinai a lui ancor di più e Castiel mi seguì: «Allora... da quanto tempo state insieme? Capitano parecchie coppie da queste parti e mi piace sempre chiedere informazioni sulla loro storia. Non sono impiccione, se è quello che vi state chiedendo, è solo che sono amante dell'amore.»

Divenni rossa quanto un peperone, forse anche più rossa dei capelli di Castiel. Il signore aveva confuso la situazione, ma sembrava stesse facendo un monologo e ne parse anche soddisfatto, così entrambi lo lasciammo finire prima di correggerlo.

«NO-NO-NO!!!» dicemmo ad un tratto in sincrono muovendo entrambi le mani in senso di diniego. Mi voltai verso Castiel per vedere quanto e se anche lui fosse imbarazzato per quell'equivoco, ma non lo sembrò più di tanto. Certo, lui non provava niente di reale per me a differenza della sottoscritta.

«Siamo solo amici» Castiel respirò un attimo davanti a quell'affermazione che sembrava gli stesse pesando, poi continuò «lo fa lei il ritratto. Siediti!» si voltò verso di me pronunciando l'ultima parola.

Ma quanto si poteva essere sbruffoni? E se non avessi avuto abbastanza soldi dietro? E se non avessi voluto fare il ritratto senza chiedere prima il prezzo? E se non volevo farlo e basta? M'infastidii e con braccia conserte guardai Castiel di sbieco, giusto per fargli capire come stavano le cose. Ma lui si comportò come se non esistessi. Mi voltò le spalle, andò avanti a pochi centimetri di distanza dal vecchio pittore e vidi solamente che prendeva il portafogli. Bastò per capire. Voleva regalarmi un ritratto di me stessa, ma perché? Chi gliel'avrebbe spiegato che il più bel regalo sarebbe stato un suo, di ritratto? Senza pensare un secondo di più mi avvicinai velocemente a lui, cercai di opporre resistenza, di dargli i soldi che aveva speso, di protestare, ma non servì. Dopo aver pagato, con nonchalance e continuando ad evitarmi, si diresse nuovamente verso Stefania ed iniziarono a parlare animatamente. Non feci in tempo a muovere i primi passi verso di loro, che subito il pittore mi disse quale posizione assumere per il ritratto.

Dopo circa venti minuti il ritratto era già terminato. Ero troppo curiosa di vederlo. Castiel per tutto il tempo era stato un po' più lontano, ma sempre dietro di me. Stefania, invece, era sparita.

«Psss psss...» il pittore mi fece segno di andare dietro la sua postazione. Feci come mi diceva e con mia gran sorpresa notai che nel dipinto non ero raffigurata solo io; c'era anche Castiel, nella sua tipica posa, nella stessa ed identica posizione che stava assumendo anche in quell'istante. 

Le braccia conserte, l'espressione del volto corrucciata, un atteggiamento spavaldo, erano caratteristiche tipiche del rosso ed il vecchio pittore era riuscito a coglierle tutte come se lo conoscesse da parecchio tempo. Il mio volto era in primo piano ed in lontananza c'era lui con parte di piazza come contorno. Era magnifico, non riuscii neanche a parlare, ad esprimere quanto quel dipinto divenne importante in un solo secondo di esistenza. Non solo mi era stato regalato da una persona a cui tenevo particolarmente, ma era proprio come desideravo. Quel vecchietto con la barba doveva saperla lunga, era saggio, più di quanto dimostrava essere. Senza aggiungere altro, incartò il dipinto ed augurandomi buona fortuna per la vita, mi salutò.


Per arrivare alla tappa successiva ci vollero cinque minuti. Proseguimmo a piedi e per tutto il tragitto strinsi tra le mani, con fierezza, il mio dipinto incartato. Quello di Castiel era stato un piccolo gesto, un piccolo regalo, il primo regalo dopo quasi cinque mesi di conoscenza. 

Sebbene non ne parlassi con nessuno di lui, o meglio di quello che qualche volta accadeva tra noi, mi ero sempre trovata a disagio nel definire la nostra relazione, rapporto o quello che era. Era vero, di lui ne parlavo solo e solamente a me stessa e a volte a Rosalya, ma provavo sempre e comunque disagio anche solamente nel pensarlo. E fui in disagio ancor di più quando di quel quadro, Castiel, non ne volle proprio a che sapere. Appena il vecchio pittore me lo mostrò avevo iniziato a farmi tanti film mentali su un ipotetico litigio del rosso che, seppur avendo dato ordini ben precisi sui soggetti che doveva contenere il dipinto, non era stato ascoltato. E invece... il vuoto. Quell'atteggiamento m'insospettì e più che altro m'indispettì perché, per me, era stato qualcosa d'importante ma evidentemente per lui non aveva lo stesso significato. Davanti a quei pensieri, iniziai a pensare varie possibilità. Forse aveva deciso di pagare il quadro solo per evitare di sentire altre lamentele della Lamberto, forse si sentiva in colpa per quello che aveva provocato la sua ragazza il giorno prima... e forse era già ritornato insieme a lei. Non c'era nessuno scopo romantico in quel gesto, dovevo smetterla d'illudermi. 

«Grazie, comunque» sussurrai ad un certo punto del cammino, nonostante i mille dubbi, sperando che Castiel ne capisse il motivo. Pronunciai quel ringraziamento tenendo il volto basso, non riuscii a guardarlo negli occhi per la troppa emozione.

Mi sentii il volto in fiamme quando poi percepii i suoi occhi su di me. Mi stava guardando ne ero sicura. Non sapevo come comportarmi, come muovermi eppure non ci conoscevamo da un giorno. Quel giorno mi accorsi che in sua presenza, più tempo passava, più lo conoscevo, e più divenivo impacciata. Mi maledii perché significava solo una cosa che, a quei tempi, non ebbi il coraggio di ammettere neanche ai miei pensieri.

Lui incrementò il mio imbarazzo quando -alzai lo sguardo e girando il volto verso la sua direzione- incontrai i suoi occhi grigi che ancora mi fissavano. Accennò un sorriso per rispondere al mio ringraziamento ed accelerò il passo lasciandomi sola, interdetta e con tremila pensieri confusi che si sovrapponevano tra loro.

I miei ennesimi dilemmi furono interrotti quando ci ritrovammo davanti alla meta: il Pantheon. La prima parte della spiegazione di Stefania partì all'esterno della ponente struttura...

«Il Pantheon, dal greco "tempio di tutti gli dei", è un edificio della Roma antica. Fu fondato nel ventisette a.C. da Marco Vipsanio Agrippa, genero di Augusto. Fu fatto ricostruire dall'imperatore Adriano tra il centoventi e il centoventiquattro d.C., dopo che gli incendi dell'ottanta e del centodieci d.C. avevano danneggiato la costruzione precedente di età augustea. L'edificio, come potete vedere, è composto da una struttura circolare unita a un portico in colonne corinzie -otto frontali e due gruppi di quattro in seconda e terza fila- che sorreggono un frontone. La grande cella circolare, detta rotonda, è cinta da spesse pareti in muratura e da otto grandi piloni su cui è ripartito il peso della caratteristica cupola semisferica in calcestruzzo. La cupola ospita al suo apice un'apertura circolare detta oculo, che permette l'illuminazione dell'ambiente interno. A quasi due millenni dalla sua costruzione, la cupola del Pantheon rimane la più grande cupola del mondo in calcestruzzo non armato. Venite! » si rivolse direttamente a noi, poi continuò «adesso entreremo all'interno della struttura.»

«UHH... Che sballo!» disse Castiel a voce alta con finto entusiasmo tra uno sbadiglio e l'altro. Avevamo visitato ancora poco di Roma, non poteva essere già stanco.

Stefania provò ad ignorarlo per quella volta anche se si notò una nota di delusione trasparire dal suo volto. Ci stava mettendo tutta sé stessa nelle spiegazioni, dovetti ammetterlo.

Calò un gran silenzio e tutti entrammo dentro l'edificio. Stefania continuò a spiegare mantenendo un tono molto più basso per rispettare il luogo di culto. Era molto preparata, finalmente riuscii a capire per quale motivo era stata scelta per quel lavoro. Certo, dall'aspetto si presentava in modo poco professionale, ma quando parlava della storia e dei monumenti romani sembrava trasformarsi. Il brutto anatroccolo diventava un -maestoso e sicuro di sé- cigno quando entrava nel suo mondo; e probabilmente la Roma Antica era il suo habitat naturale. Non conosceva il francese e forse neanche l'inglese, vero, ma restai ugualmente impietrita per la passione che Stefania ci metteva nel suo lavoro. Non era un'avvocatessa, non era una dottoressa eppure dai suoi occhi fuoriusciva tanto orgoglio, quasi come se facesse il lavoro più pagato e importante esistente sulla terra. Restai affascinata nel guardare la gioia e la soddisfazione nei suoi occhi.

Lo stesso non si poteva dire, però, di Castiel che da menefreghista com'era continuava a sbadigliare sgarbatamente senza nascondersi o mettersi la mano davanti alla bocca come sarebbe di educazione. Lo fece, tra l'altro, sotto gli occhi di Stefania che quando -dopo aver finito la sua spiegazione- tornò nel mondo contemporaneo si accorse ancora una volta dei gesti del rosso e andò su tutte le furie. Abbandonò quella posizione disinvolta e sicura di sé che aveva assunto parlando della sua passione, s'irrigidì e strinse le mani a mo' di pugno, segno di forte nervosismo. Fissò per tutto il tempo Castiel che, invece, sbadigliava spalancando ogni secondo di più la bocca e senza neanche avere l'accortezza di piazzarsi le mani davanti. Mi dispiacque per Stefania, così, approfittando della mia vicinanza al rosso gli lanciai una gomitata che andò a finire tra il petto e lo stomaco, un punto molto delicato e quindi doloroso vista la presenza dell'osso.

Saltò all'improvviso: «AHI! Ferma, che diavolo fai?» l'urlo rimbombò per tutta la struttura. Parecchi turisti presenti nel tempio si voltarono nella nostra direzione, ma lui disinvolto li evitò continuandosi a massaggiare la parte lesa.

Per quanto pareva essere muscoloso, risultò molto debole. Arrivai alla conclusione, allora, che fece di proposito ad ingigantire il dolore e la reazione, solo per far innervosire la signorina Lamberto. A volte sembrava un bambino. E come se non bastasse la gomitata, senza rispondergli lo guardai di sbieco e a braccia conserte, poi mi voltai nuovamente verso la signorina Lamberto senza degnarlo di attenzioni. Mi sentii quasi in colpa vista la gentilezza mostratami qualche mezz'ora prima nel regalarmi il quadro, ma doveva capire di star esagerando comportandosi scostumatamente con quella povera signora.

«Ma hai il ciclo, per caso?» insistette lui, alludendo al nervosismo solitamente sintomo mestruale. Nonostante si fosse sbagliato arrossii parecchio per la frase pronunciata ad alta voce. Chiunque avrebbe potuto ascoltare, e per giunta ci trovavamo a pochi metri di distanza dalla nostra guida.

«Vuoi smetterla? Ascolta!» lo rimproverai guardandolo nuovamente negli occhi e mostrando con la mano la signora Lamberto per indicare che avrebbe dovuto ascoltare lei.

Poteva sembrare stupido, ma amavo quei momenti. Amavo la sua lieve immaturità, i suoi scherzi, le sue battute. Amavo quel punzecchiarci senza alcun motivo.

Appena fuori, di nuovo, dall'edificio la signorina Stefania c'informò sbirciando l'orologio:

«Adesso, siccome sono le dodici, vi porterò nella gelateria più...»

«...famosa e antica di Roma, la gelateria Giolitti! Mmm... potrei guadagnare qualche spicciolo facendo la guida turistica. È un lavoro comodo, non si fa una cazzo dalla mattina alla sera, ed in più rimorchierei qualche bella ragazza. Ottimo direi!» si ringalluzzì, il rosso.

"Prevedo Castiel morto tra 3...2...1..."

«BLACK... Non lo ripeterò più! Al prossimo rimprovero laverai i piatti di ogni cliente, dopo cena, per tutta la settimana!» urlò Stefania attirando gli sguardi di tutti i passanti tranne quello del diretto interessato, che invece continuò a guardare il cellulare fregandosene altamente dei rimproveri della nostra guida.

Tra urla e menefreghismi vari, ci trovammo dopo qualche minuto davanti al vetro del bancone della famosa gelateria. Inevitabilmente ricordai i primi giorni di conoscenza con Castiel quando, dopo la punizione, mi aveva offerto un gelato. All'epoca non potevo immaginare quanto quella relazione sarebbe diventata essenziale e nello stesso tempo pericolosa per continuare a vivere.

Scelsi nocciola e amarena. Sapevo non legassero bene tra di loro, quasi nessuno li sceglieva come ipotetici gusti da mettere insieme. Eppure erano i miei gusti preferiti e ogni volta non potevo fare a meno di prenderli. Ciak, il migliore amico di cui ogni giorno sentivo la mancanza, ogni volta scherzava su quel discorso; mi diceva: "sei capace di abbinare mille gonne e mille maglie, ma non sai farlo con un gelato?"

Castiel ordinò entrambi i miei gusti. Non era possibile che anche a lui piacessero insieme quei due. Erano così diversi di sapore tanto da farmi pensare che nessun altro osasse sceglierli in un eventuale cono. 

«Copi il mio gelato?»

«Caso mai sei stata tu a copiarlo, non io. Questi sono i miei gusti preferiti da sempre. Puoi anche chiedere a chi mi conosce bene se non ti fidi. Sarebbe una cosa piuttosto assurda da fare per un gelato, ma se proprio ci tieni...»

Entrambi ci voltammo l'uno nella direzione dell'altra e accennammo un sorriso. Erano passati mesi, ma i gusti non erano cambiati. Ordinò anche per me i suoi stessi gusti, senza bisogno di chiedermi conferma. Per la scintilla che intravidi negli occhi di Castiel fui sicura che, anche lui, davanti al bancone della gelateria Giolitti aveva rivissuto i momenti di quel giorno ormai lontano.



 

ADELAIDE

Visite, ecografie, analisi varie. Ormai la mia vita era basata solamente su quelle tre forme di controllo, se cosi si potevano definire. In poche parole passavo tutti i giorni in ospedale. Salivo e scendevo scale, venivo spedita da un reparto all'altro senza capirne il motivo. Mi sentivo un pacco postale senza vita e senza alcuna ragione. Ma proprio quando ero diretta all'ultimo reparto, prima di poter tornare a casa, mentre salivo altre scale sentii una voce:

«Adelaide?!» la sua voce, in quel momento, mi sembrò quasi una salvezza, come una mano che aiuta a risollevarsi dagli abissi del mare. Ero sprofondata e lui mi aveva salvata già solo pronunciando un nome banale come tanti.

«Isaac...» mi voltai nella sua direzione come se avessi visto Dio.

«Cosa ci fai qui?» mi chiese, senza far trasparire alcuna emozione.

«Potrei farti la stessa domanda, sai?» risposi evitando il discorso.

Non ero mai stata brava a mentire, tantomeno a lui. L'organizzazione del mio finto fidanzamento ne era la prova. Non ero stata in grado di mentire davanti ad Isaac neanche per due giorni, perché già al secondo giorno l'avevo informato che la storia con il ragazzo del quale non ricordavo neanche il nome, fosse finita.

«Basta mentire, Adelaide so tutto!» mi si bloccò il cuore ed in concomitanza il respiro si affannò. Dovetti avanzare verso il muro di quelle scale per poggiarmi e riprendermi.

Isaac mi seguì: «Sapevi che non avresti potuto tenermi all'oscuro da questo. I tuoi amici sono anche miei amici, il tuo dottore è anche il mio dottore».

Aveva ragione. Come ogni santissima volta, avevo calcolato tutto male. Del resto quando c'era lui di mezzo, perdevo il lume della ragione. Se il mio ex marito era nei dintorni o nei discorsi, l'ossigeno non arrivava al cervello, non ragionavo. Ero ancora innamorata di lui, nonostante l'odio; e nonostante mi avesse allontanato da mio figlio, l'amavo ancora. Inutile mentire davanti all'evidenza. Lui aveva voltato pagina, io no. 

Pur avendo estremamente bisogno della sua vicinanza in un momento duro come quello, avevo deciso di non avvertirlo della mia malattia, non volevo...

Perché dovevo risultare, per l'ennesima volta, una donna forte.

«So bene che non vuoi apparire fragile» sembrò che mi stesse leggendo nel pensiero.

Non mi ero mai mostrata debole, neanche dopo aver scoperto i suoi tradimenti. Davanti a lui non era mai scesa neanche una lacrima.

«So bene quanto ti ho ferita in passato. So bene quanto avresti voluto urlarmi contro ma non l'hai mai fatto», continuò a leggermi dentro. Fu incredibile.

Ma quella ormai era acqua passata. Io ero stata di passaggio, come quei posti in cui si prova a vivere solo per lo spirito di avventura, ma dopo un po' di tempo si abbandonano. Isaac era così, visitava molte donne, le frequentava per poco tempo e poi le lasciava.

«Sai come sono fatto, ma credimi tu sei rimasta la donna più importante della mia vita ed ora permettimi di starti accanto. Sapevo avresti avuto delle visite in giornata e sono venuto qui solo per te. Io voglio aiutarti. Devo aiutarti. Non ero mai stato così a lungo con una donna, ti ho voluto bene veramente!» le sue parole stavano andando fuori rotta.

Quelle parole fecero scattare un meccanismo strano dentro al mio corpo, qualcosa che non sarei mai stata in grado di spiegare neanche con una laurea apposita. D'istinto e a scatto, mi allontanai da quella distanza pericolosa e finalmente riuscii a pensare di nuovo con la mia mente. Lui voleva aiutarmi solo per levarsi il peso di avere sensi di colpa. Forse aveva pensato che fosse stato lui, in qualche modo, a farmi ammalare, forse lo impietosivo per come mi ero già ridotta. Ma non avevo bisogno di quel genere di attenzioni, non avevo più bisogno di lui. Avevo ammesso di amarlo ancora, ma il sentimento non era corrisposto ed io non volevo finte attenzioni, finti sentimenti, finti amori. Volevo sincerità, quella sincerità che nella vita mi aveva dato solo una persona: Castiel. Lui mi odiava, mi riempiva di brutte parole, vero, ma tutto quello che provava era pura e sola verità. L'unica persona che volevo accanto per il resto dei miei giorni era lui, non avevo bisogno di un mezzo compagno finto.

Avevo affermato di volere una sua carezza, un suo gesto, ma se lui l'avesse compiuto solo per levarsi i sensi di colpa, non sarebbe servito a niente. In un certo senso ringraziai il destino per aver incrociato il mio cammino con il suo, di nuovo, perché ebbi l'opportunità di vedere quanto quell'uomo facesse schifo. Non aveva detto nulla eppure mi era bastata una semplice battuta per comprendere il soggetto, peggiorato dopo la separazione. Così, nella mia nuova debolezza trovai la forza di reagire. Sotto lo sguardo confuso di quell'uomo e senza bisogno di proferire parola, scappai via da Isaac nella speranza di non doverlo rivedere mai più. 

Finalmente l'odio che provavo nei suoi confronti era riuscito a superare l'amore... finalmente e per la prima volta dopo tanti, troppi, anni riuscii a respirare di nuovo autonomamente. Fu bellissimo.

Fu come rinascere.



 

MIKI

Dopo una breve visita con spiegazione anche a Montecitorio, in due minuti di tragitto ci recammo a Piazza Colonna. Il quadro iniziava ad intralciare un po' il cammino anche se alla fin dei conti era solo un foglio più spesso e quindi molto leggero, così lo misi all'interno del mio zainetto seppure più della metà fuoriusciva da esso. Ci recammo al centro della piazza, difronte alla Colonna di Marco Aurelio e Stefania iniziò la sua spiegazione.

«Piazza Colonna deve il suo nome alla Colonna di Marco Aurelio che qui sorgeva sin dall'antichità, e che dà il nome anche all'omonimo Rione Colonna, di cui la piazza fa parte. Proprio davanti alla colonna, sul lato nord della piazza potete vedere l'entrata di Palazzo Chigi alla cui famiglia appartenne dal 1659 fino al 1916, quando fu acquistato dallo Stato. Venne fatto costruire nel sedicesimo secolo da Pietro Aldobrandini per la sua famiglia; già sede dell'ambasciata dell'impero Astro-Ungarico è oggi sede della Presidenza del Consiglio dei Ministri. Alla sinistra di questo potete ammirare, invece palazzo Wedekind, storica sede del quotidiano, che presenta un porticato formato da antichissime colonne ioniche originarie della città etrusca di Veio. Infine, affacciato alla piazza ma anche su Via del Corso, sull'area dove sorgeva il palazzo detto Piombino perché proprietà dei Boncompagni-Ludovisi, oggi sorge il palazzo della galleria Colonna, ora denominata galleria Alberto Sordi.»

Come sempre, ero abbastanza rapita dal racconto. Conoscevo quei posti, e, quella storia l'avevo studiata e sentita mille volte, ma la passione di Stefania aggiungeva magia ad ogni angolo. Amai particolarmente l'espressione del suo volto tanto da fissarla, senza spostare lo sguardo, per tutti i minuti di spiegazione; mi accorsi anche di alcune smorfie che fece dopo aver guardato Castiel. Di sicuro ne aveva combinate una delle sue. 

Così per capire mi voltai esasperata verso di lui che era imperterrito a sbadigliare sgarbatamente mentre giocava al cellulare. Era incorreggibile.

«NOOOOO...» urlò il suo dissenso quando di presunzione gli sequestrai il cellulare. Lo presi di scatto dalle sue mani e lo infilai nello zaino che avevo in spalla, per essere sicura che non se lo sarebbe ripreso.

«Mi mancava una sola mossa per superare il livello 182 di Candy Crush Saga, ed io sapevo quale fare. Sei crudele!» rispose incrociando le braccia e facendo il finto broncio. In quel momento mi ricordò Armin, un nostro compagno di classe, da sempre troppo affezionato a qualsiasi tipo di videogioco.

«Pensa un po' Black: a me invece non ne mancano più mosse. Ho vinto», si avvicinò verso di noi Stefania, sorprendendoci; aveva sempre mantenuto le distanze da noi, sia fisicamente che mentalmente, risultando ancora più fredda della direttrice del Dolce Amoris. Quella volta si era superata.

Castiel la fissò confuso e Stefania continuò il discorso cercando di dare un senso alla frase pronunciata qualche secondo prima: «da stasera laverai i piatti, dopo cena tutti i giorni per una settimana. Bello vincere con un avversario debole, vero?» lo sfidava, ma per quale motivo?

Sebbene non capissi l'origine di quell'astio tra i due, scoppiai a ridere per quella situazione che pian piano stava diventando sempre più assurda. Castiel e Stefania potevano essere paragonati a due personaggi dei cartoni animati: Tom e Jerry; passavano la maggior parte del loro tempo a farsi dispetti. Fino a quel momento era stato Castiel a deriderla sempre, a prevalere, ma Stefania con una sola mossa e in un baleno era passata in vantaggio. Subito immaginai un Castiel con un grembiule da cucina intento a lavare piatti. Così, spontaneamente iniziai a prenderlo in giro modificando una filastrocca e quindi cantandogliela a tono:

«Il bello lavanderino che lava i piattini per i cittadini della città...» mi fermai per ridere, ma subito continuai quella specie di cantilena che mi facevano canticchiare spesso le maestre nei primi anni di scuola: «fai un salto», saltai sotto gli occhi increduli di Castiel. Forse non mi aveva mai vista così allegra... e forse non mi riconobbi neanch'io.

«Fanne un altro», ripetei il salto. Una strana gioia e spensieratezza mai avuta prima pervase ogni cellula del mio corpo, non capii cosa mi stesse accadendo.

«Fai una giravolta», feci un giro su me stessa mentre Castiel, esasperato, poggiò una mano sulla fronte coprendosi gli occhi per qualche secondo.

«Falla un'altra volta», ripetei nuovamente la giravolta;

«guarda in su», guardai il cielo;

«guarda in giù...» all'improvviso mi bloccai per la vergogna, la spensieratezza terminò, guardai i miei piedi cercando di trovare un modo per non canticchiare la strofa mancante, quella che avrei dovuto pronunciare per ultima. Mi zittii in un microsecondo senza staccare gli occhi dalle mie scarpe e tornando seria. Sembrai bipolare persino davanti i miei occhi. Ero riuscita a cambiare la prima strofa, ma quell'ultima proprio no. Avrei dovuto pronunciare "dai un bacio a chi vuoi tu", ma il gioco si stava facendo solo tra me e Castiel, il pensiero di un ipotetico bacio -pur se innocente- mi mise in soggezione, ammutolendomi. Mi diedi della stupida.

«Dai uno schiaffo a chi vuoi tu!» intervenne concludendo la filastrocca Castiel. Mi stupì, ma realmente. Era corso in mio soccorso; aveva compreso il motivo del mio disagio che tra l'altro era, proprio, stato causato da lui. 

Ma come poteva, Castiel Black, fare qualcosa di carino per una persona e poi starsene buono in un angolo? Non era nella sua indole e infatti, avanzò verso di me e con disinvoltura mi mollò un lieve schiaffo sul braccio. "Grazie eh!"

Stefania restò inerme davanti a quel baccano; non solo fece finta di non sentire la mia filastrocca ma continuò ad essere nervosa per tutto il resto del viaggio. Partì in direzione dell'altro monumento da visitare senza avvertirci. Certo, conoscendo entrambi il posto, anche senza la sua guida non avremmo perso l'orientamento, ma essendo -appunto- una guida, avrebbe dovuto restare tale senza farsi coinvolgere da sentimenti personali.

In quattro minuti arrivammo, senza Stefania, alla famosa Fontana di Trevi definita da me stessa la fontana più romantica di Roma. Forse era anche la più famosa e conosciuta dagli stranieri, ma per me restava sempre e solo "la più romantica". La gente di tutto il mondo giungeva ai bordi della fontana, si accomodava sui marmi e gettava qualche spiccio nell'acqua solo per avere maggiori possibilità che il loro desiderio più grande si avverasse. Era favoloso, quel mito. 

Così anch'io da turista, visto che -pur essendo originaria del posto- l'avevo fatto solo qualche volta, cercai due monetine nello zaino e le presi. 

Una monetina la porsi a Castiel ed una la tenni.

Ma vedendo che non decideva a prenderla.. «Ehi, perché non la prendi? Conosci anche tu questa tradizione, no?» non rispose, ma il suo sguardo infastidito valse molto di più. Sebbene quel giorno avessimo trovato la pace, i suoi sbalzi d'umore non mancavano mai.

«Ma dai, su. Avrai anche tu un desiderio irrealizzato, un sogno e...»

«Ferma» poggiò il palmo della sua mano sinistra sotto le dita della mia -dapprima aperta per porgergli la moneta- e le chiuse delicatamente «esprimi un desiderio anche per me... Fai tu al posto mio. Fa' come se avessi accettato!» arrossii per quel nostro piccolo contatto.

Non insistetti, lo lasciai nel suo orgoglio mentre mi accomodai sul bordo della fontana e pensai a quali desideri avrei potuto chiedere. Un desiderio lo avrei espresso per lui ed uno per me. Castiel era un ragazzo troppo orgoglioso, troppo arrogante, non riusciva a fare qualcosa di carino e di diverso dal suo solito. Di certo se avesse accettato educatamente la mia moneta, non sarebbe sembrato un debole, ma lui ragionava in un modo tutto suo. Era cocciuto e nessuno gli avrebbe fatto cambiare idea.

Chiusi gli occhi ed espressi il desiderio: "Vorrei che Castiel diventasse la persona più dolce e felice del mondo con la ragazza che deciderà di amare per la vita". Ed anche se dentro di me fui sicura che non sarei stata io, quella ragazza avrebbe meritato di avere un Castiel diverso esclusivamente per lei. E poi.. lui meritava di essere felice con chiunque volesse, di aprire il suo cuore, di smettere di trattenersi indossando la maschera da duro. Con la speranza che quella ragazza non sarebbe stata Debrah lanciai la prima moneta alle mie spalle e quando toccò l'acqua emise un lieve suono. 

Sospirai, riaprii gli occhi e mi ritrovai davanti un Castiel che, di nuovo, giocava al cellulare. Evidentemente era riuscito a riprenderselo dal mio zaino; l'avevo poggiato ingenuamente affianco alla fontana. Non m'impuntai e, stringendo l'altra monetina tra le mani, richiusi gli occhi per esprimere l'altro desiderio: "Vorrei che Adelaide guarisse e trovasse finalmente serenità con suo figlio". Non ebbi neanche un momento di esitazione nel desiderarlo. Lanciai convinta anche quella moneta, lasciando all'acqua torbida ma magica un arduo compito. Lasciai lì tutte le mie speranze per una donna forte che aveva bisogno di avere le sue rivincite in una vita che in pochi anni era stata già troppo crudele con lei. Avevo rinunciato al mio desiderio. C'erano cose più importanti che in quel momento avevano bisogno di attenzione e preghiere, non volevo essere egoista, davanti ad una cosa del genere non avrei mai potuto.


***


Poco dopo si fece viva Stefania. Ci richiamò a lei perché nonostante la sua incazzatura avrebbe dovuto deliziarci, ugualmente, della sua spiegazione. Quella volta non ascoltai, non solo perché la Fontana di Trevi a mio parere aveva una storia tutta sua, qualcosa che andava al di là della storia in se', ma anche perché il Re dei disturbatori per eccellenza mi stuzzicò.

«Scommettiamo...» disse sibilando divenendo serio e bloccandosi, però, quasi subito.

«Scommettiamo cosa?!? Finisci di parlare!» quel suo atteggiamento m'incuriosì.

«NAAA... non lo faresti mai. Non voglio perdere tempo a fare scommesse con te» mi liquidò non solo con le parole, ma anche con un gesto della mano.

«Sei sempre il solito, butti la pietra e nascondi la mano. Hai il coso lì sotto, ma sai usarlo solo a letto... durante la giornata poi te la fifi anche a fare una scommessa. Ammettilo che hai paura di perdere!» per una volta volevo essere io quella che stuzzicava. Forse ci riuscii. Ero curiosa, volevo scoprire cosa avesse in mente.

«E questo linguaggio volgare da dove esce fuori, signorina?» la mia battuta lo divertì, lo testimoniò il sorriso sghembo che gli spuntò ai lati della bocca: «comunque okay, vediamo se hai il coraggio...» continuò.

«Parla!» quella situazione mi stava mettendo parecchia ansia. Non capivo dove volesse andare a parare.

«Scommettiamo che sarai la mia schiava per un mese perché non riuscirai a fare il bagno... qui dentro, stanotte?!?» terminò mostrando la fontana, alle nostre spalle, con il pollice. Non volevo crederci; non potevo assolutamente farlo.

«Un bagno nella Fontana di Trevi? Stanotte? Quando? Come? Cazzo!» sgranai gli occhi incredula, andai in panico e lui ovviamente se ne accorse.

«Sì! Ovviamente dopo il coprifuoco. Dobbiamo uscire di nascosto durante la notte, magari verso le due, altrimenti non ci sarebbe gusto» la situazione proposta dal rosso si stava facendo sempre più assurda e pericolosa.

«Tu verresti anche?» ero impaurita e incuriosita allo stesso tempo. Due armi letali per una come me. Quello dopotutto sarebbe stato un modo per mettersi in gioco, per divertirsi. Non avevo mai fatto scommesse in vita mia, quella -qualora avessi accettato- sarebbe stata un'altra mia prima volta... con lui.

«Certo! Chi mi direbbe che l'hai fatto davvero? Forse la polizia, ma non ci sarebbe gusto» cercò di mettermi paura con l'ultima affermazione, ma non ci riuscì, forse...

«Se vincessi tu, cosa dovrei fare io? Chiarisci meglio il significato di "schiava"...» m'intimorii lievemente pensando ipotetici scenari. Castiel sarebbe stato capace di tutto.

Capì il mio senso d'intimorimento e sghignazzò «non siamo mica in quella porcheria di "Cinquanta Sfumature", quì. Intendo cose normali, divertenti. Ora non mi viene in mente nulla, ma... insomma cose non collegate al sesso, ecco!» apparì quasi a disagio nell'affrontare la seconda parte del discorso, lo accentuò passandosi le dita della mano tra i lunghi capelli.

«Ok e se perdessi tu, io cosa vincerei?» gli chiesi, cercando di capire meglio ed allontanandomi il più possibile da quel discorso quasi a luci rosse che stavamo per affrontare senza volerlo.

«Scegli tu, naturalmente qualcosa collegato a me» sbuffò spazientito di tutte quelle domande, in un momento sembrò persino pentito di avermi proposto quella scommessa. 

Infatti proseguì, «perché continui a fare domande se non accet...»

Ma io lo bloccai prima di rovinare tutto «ACCETTO!» respirai, poi continuai «Sì, voglio farlo!»

  
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