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Autore: Weightlessness    15/05/2016    0 recensioni
-Osservavo il soffitto dipinto a cielo stellato e leggevo una scritta incisa su uno scudo di pietra attaccato alla volta che recitava “Il prezzo è alto ma è pagato da uno solo.”-
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La maledizione del Re Arton Dervarden imponeva che il regno potesse sopravvivere solo se il sovrano avesse rinunciato a ciò che lo rendeva vivo, come aveva fatto lui. Quando il re morì il regno cadde in disgrazia e l'erede non fu all'altezza del sacrificio che avrebbe dovuto compiere. Passarono anni prima che la notte si disperdesse e potesse rinascere la speranza.
Genere: Avventura, Drammatico, Fantasy | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Lemon | Avvertimenti: nessuno
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Capitolo 1: OH MIO ARCIERE



La locanda era un luogo sporco e chiassoso ma era un buon posto per passare le fredde e cupe serate invernali. Una sera di gennaio, dopo una lunga giornata di caccia poco producente, decisi di andare alla locanda per scaldare i miei organi con un po’ di buon vino forte. Aveva nevicato molto in quelle ultime settimane e quel giorno in particolare tirava un vento così gelido, che sembrava che l’aria fosse fatta di coltelli affilati. Il mio mantello mi proteggeva a mala pena da quelle fredde raffiche, ma d’altronde non potevo permettermi indumenti più pesanti. È una vita abbastanza ingrata quella di un cacciatore, eppure per me era un buon modo per tirare avanti. Avevo vissuto tempi peggiori, anzi, ringraziavo ogni giorno gli spiriti per avermi concesso una vita così pacifica e tranquilla, dopo tutti gli anni passati tra le schiere dell’esercito. Amavo stare nel bosco; ogni volta che tendevo l’arco e miravo al cuore della mia preda, e ogni volta che mi addentravo nella foresta e assaporavo il profumo dei tronchi e del muschio, mi sentivo così vivo che non avrei potuto invidiare neanche il più ricco dei re.
Quella sera notai immediatamente qualcosa di strano quando entrai nella locanda ma non capii subito cosa fosse. Il baccano era il solito e anche l’odore. Mi tolsi i guanti e mi avvicinai al bancone chiamando a gran voce Fermus, il locandiere. Mentre aspettavo che il buon uomo uscisse dalla sua cantina per darmi il benvenuto, notai una testolina mora china su una schiera di bicchieri, poco più in là da me, dietro il balcone. Capelli così lucidi e sottili non ne avevo mai visti. Rimasi a fissare la testa di quella ragazza attendendo solo che si voltasse verso di me e mi permettesse di vedere i tratti del suo viso. La sua presenza sembrava essere stata ignorata dagli altri presenti eppure ai miei occhi era tremendamente evidente il contrasto tra la sua figura aggraziata ed elegante e la rozzezza del luogo e dei suoi frequentatori.
-Voi non dovete essere di queste parti.- le dissi. Lei alzò il viso lentamente e mi regalò uno sguardo limpido e intenso.
-Vengo da lontano.- rispose semplicemente.
-Avete l’accento dell’Est.-
La mia considerazione la incupì e ritornò a lucidare mestamente i bicchieri senza rispondermi. Alle mie spalle un uomo urlò che voleva altra birra; la ragazza ne approfittò per sfuggire alla mia curiosità e subito portò al contadino un boccale pieno. Io la accompagnai con lo sguardo e osservai che le maniche del suo vestito erano così lunghe da intralciare i movimenti delle mani. Iniziai a chiedermi per quale motivo una donna dall’est fosse venuta a Windwall. Mi insospettiva, aveva aria tipica di chi ha qualcosa da nascondere e indossava un vestito che evidentemente non era il suo. La analizzai scrupolosamente. Era bella, ma non abbastanza per attirarsi le attenzioni dei bifolchi che frequentavano la locanda. Quelli preferivano donne in carne e sfacciate fino alla volgarità. Lei aveva qualcosa di nobile nell’aspetto, l’espressione del suo viso mi ricordava quella fiera e altera dei comandanti di nobile stirpe del mio battaglione. Non era una puttana, né una serva. Da cosa stava fuggendo? Cosa l’aveva spinta a rifugiarsi in un paese infelice e scomodo come Windwall?
Mentre mi ponevo quelle domande, improvvisamente, grugnendo e borbottando bestemmie, fece il suo ingresso Fermus, trascinandosi sulle spalle una botte di vino dalla cantina.
-Salve, cacciatore! Un buon bottino oggi?- esclamò caloroso non appena mi vide.
-Solo qualche magra lepre.- commentai sollevando le spalle.
-Meglio di niente.- Rispose lui appoggiando la botte sul pavimento.
-Stasera gli spiriti d’inverno sono particolarmente furiosi. Solo un po’ di buon vino potrebbe aiutarmi a scongelare le ossa.- dissi mentre il mio sguardo veniva nuovamente rapito dalla figura della misteriosa giovane morettina.
-Vedo che hai notato il nostro nuovo arrivo. Lei è Clea, mia nipote, viene dalla pianura.- disse Fermus appoggiandole una mano grassoccia sulla spalla. Lei alzò gli occhi e mi sorrise con cortesia.
-Incantato.- Risposi. Fermus mentiva. Lo conoscevo da troppo tempo e non aveva mai accennato al fatto di avere fratelli o sorelle, inoltre mi sembrava troppo strano che avesse parenti nell’Est, lui che era nato e cresciuto in quel piccolo e selvatico villaggio del Nord, come i suoi genitori. Fermus sapeva bene che avevo fiuto per i raggiri e che non era facile riuscire a mentirmi, infatti impallidì e cominciò a parlottare per sviare la mia attenzione dalla ragazza, lamentandosi della scarsità di provviste che gli approvvigionatori del regno avevano portato a Windwall.
-In pochi vorrebbero avventurarsi sulle montagne in questo periodo, sappiamo bene quanto sia difficile raggiungere la nostra valle con questo tempaccio. Non possiamo biasimare gli approvvigionatori, ci accontenteremo di ciò che abbiamo.-
Commentai appoggiando le labbra sul vetro del mio bicchiere.
La discussione morì lì. Fermus si dedicò a servire i suoi clienti e la misteriosa Clea non sollevò più i suoi occhi verdi su di me.
Fu una serata come tante altre in realtà, e per quanto fossi rimasto incuriosito dalla figura di Clea, me ne dimenticai in fretta. Non avevo tempo di pensare alle donne e lei non mi sembrava adatta a me.
Per tre giorni non mi presentai alla locanda. Arrivavo a sera che ero così esausto e scoraggiato dalle mie deludenti e faticose battute di caccia che mi buttavo sul letto e mi addormentavo profondamente. Per tre notti di seguito feci un sogno strano di cui non riuscivo a capire il significato. Nel sogno camminavo in un’immensa sala con pareti e colonne d’oro che riflettevano con bagliori gialli la forte luce che entrava da altissime vetrate. Osservavo il soffitto dipinto a cielo stellato e leggevo una scritta incisa su uno scudo di pietra attaccato alla volta che recitava “Il prezzo è alto ma è pagato da uno solo.” Poi il mio sguardo si posava su un gruppo di uomini in armatura che al mio arrivo si inchinavano. Io mi inginocchiavo sul pavimento freddo e un uomo con uno stemma azzurro sulla corazza sollevava il pugnale sopra di me, allora io chiudevo gli occhi. Avvertivo il mio cuore battere all’impazzata e poi più nulla. Urlavo e il mio stesso grido mi svegliava. Quelle immagini erano così vivide che quando aprivo gli occhi all’alba ero quasi certo di non aver affatto sognato.
Il terzo giorno mi svegliai con lo scintillio di quel pugnale davanti agli occhi e per un momento temetti che la luce del sole che colpiva i miei occhi fosse veramente il riflesso di una lama. Mi alzai e cercai di dimenticare il mio sogno preparando le mie frecce e assicurandomi che l’arco fosse ben teso. Ma non riuscivo a togliermi dalla mente quella scritta sullo scudo e quella stanza dorata. Mai in vita mia avevo visto con i miei occhi un luogo così ricco, perciò non poteva essere un ricordo, doveva essere un sogno premonitore o forse un avvertimento. Ma Windwall era un paese modesto, non c’erano palazzi o castelli nei dintorni ed io ero convinto che vi avrei passato il resto della mia vita. Insomma, non avevo mai visto né avrei mai visto una stanza d’oro come quella che la mia mente mi aveva mostrato. Eppure mio padre mi diceva sempre che i sogni non vanno mai sottovalutati. Mi raccontava che il sonno è un ponte di cristallo tra la terra degli uomini e quella degli spiriti, un ponte sopra il fiume del tempo in cui gli uomini possono vedere il passato o il futuro attraverso le trasparenze del cristallo. Mio padre non era un ingenuo e non credeva veramente a quelle leggende da balie, eppure sosteneva che per chi fosse stato in grado di capirne il senso, erano molto meno assurde di quanto potessero sembrare.
Fu una giornata più calda del solito e a metà pomeriggio uscì perfino il sole. Camminai nel bosco per un paio di miglia e riuscii a stanare ben cinque conigli. Decisi che ne avrei portati quattro alla locanda e li avrei venduti a Fermus in cambio di qualche moneta e una cena calda. Ritornai verso il villaggio con il mio bottino legato sulla spalla. Il sangue di quelle sfortunate creature gocciolava dietro di me sulla neve producendo un suono icredibilmente fastidioso che accompagnò il mio cammino fino al villaggio.
Quando arrivai nella piccola piazzetta su cui si affacciava la locanda di Fermus, il falegname Tod stava uscendo dalla casa dell’ex giudice Parson e aveva appena finito di dire:-Le donne sono buone solo per partorire pargoli.- quando gli passai accanto. Appena mi vide, mi salutò svogliatamente, adocchiando con un accenno di invidia i miei conigli, poi se ne andò verso quella scricchiolante e lurida baracca di legno che chiamava “casa”. Entrai nella locanda e il clima mi sembrò più freddo di quanto non fosse fuori. C’era uno strano brusio che si interruppe appena feci il mio ingresso. Alcuni uomini erano chini sui propri calici di birra ancora pieni e fissavano il vuoto con aria preoccupata e assorta.
-Cosa puoi darmi in cambio di quattro conigli?- Chiesi a Fermus gettandogli sul bancone le mie prede.-Puoi sceglierli.-
-Tre monete, non di più. Sono molto magri.- rispose lui gravemente.
-Facciamo due monete e un pasto caldo.- Dissi, accomodandomi a un tavolo, e accennai un saluto con la testa agli altri già seduti, che fiaccamente mi chiesero come mai non mi ero fatto vedere per tre giorni.
-Ho cacciato molto e il tempo che non ho passato nel bosco l’ho trascorso a scuoiare conigli e ad affilare le punte delle frecce.-
Nessuno sembrò sinceramente interessato a cosa avessi fatto in quei giorni, così pensai di fare io qualche domanda.
-L’atmosfera è piuttosto tesa stasera, brutte notizie?- chiesi.
-Abbiamo saputo che si sono stati problemi nella capitale.- rispose Fermus evasivo.
-La Regina ha abbandonato la corte e ha lasciato il regno in mano a quella troia di sua sorella.- grugnì Kent Turner battendo un pugno sul tavolo. -Ci aspettano tempi duri, come se le cose non fossero già una merda prima.-
-La Regina ha fatto molto per il regno, non possiamo negarlo.- azzardò Jonas, il maniscalco.
-Una donna non è fatta per governare, questo è il punto. La Regina Ardesia era solo meno troia di sua sorella, ma non sarebbe mai stata in grado di migliorare veramente le cose.- borbottò Turner masticando un osso ormai spolpato. Calò il silenzio e ognuno si chiuse in meditazione per conto suo. Fermus mi portò un piatto di zuppa fumante in una scodella di legno e un bicchiere di birra scura, dicendo:-Stasera mia nipote ha fatto la focaccia con le rape, appena la sforna ne offro un pezzo a tutti.-
-Ci sarà una guerra, me lo sento.- ringhiò Turner guardandomi. -Oggi parliamo e beviamo insieme e domani ci ritroveremo ad ammazzarci l’un l’altro.-
-L’unica arma che io abbia mai impugnato è stato il coltello con cui taglio il mio cibo.- disse tristemente Jonas. –Se dovesse scoppiare una guerra verrei sicuramente arruolato e allora non avrei scampo.-
-Jonas, in questo villaggio non saresti il solo ad essere spacciato. Quasi nessuno di noi ha mai impugnato un arco o una spada.- gli rispose Fermus  guardando prima lui e poi me. Io ero l’unico che sapeva combattere, l’unico che in vita sua aveva ucciso altri uomini, l’unico che aveva indossato un’armatura. Mi sentii improvvisamente a disagio. Non dissi una sola parola, anche se sapevo che tutti stavano aspettando un mio intervento. Forse avevano bisogno di qualcuno che dicesse loro che la guerra non era così terribile, ma non me la sentivo di mentire. I più robusti di loro avrebbero potuto resistere qualche mese nelle condizioni in cui avevo vissuto io da soldato, ma la maggior parte sarebbe morta in breve tempo. Era un villaggio di brava gente e nessuno di loro era mai andato oltre i confini della valle. L’unico contatto col mondo esterno avveniva tramite i messaggeri e gli approvvigionatori. Non ne sapevano niente di sangue e uccisioni.
Quella sera la focaccia parve a tutti più dura del solito, ma ultimamente non c’era molto cibo e qualsiasi cosa si potesse mettere sotto i denti era accettata di buon grado. “Mani troppo delicate per poter impastare una focaccia di rape.” Pensai osservando le sottili dita di Clea sporche di farina, mentre distribuiva ai presenti quadrati di focaccia fumante. Fermus la congedò immediatamente quando notò che Castore, il macellaio, le chiedeva troppo spesso pezzi di focaccia.
-Controlla che i cani siano ben legati e portagli qualche scarto di carne da mangiare.- le disse Fermus spingendola gentilmente verso la porta del retro. Clea ubbidì in silenzio, incrociando le mani in grembo come una bambina ben educata. Ancora una volta notai che il vestito che indossava non era della sua misura e tornai a chiedermi quale fosse il suo segreto.
  
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