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Autore: DarkYuna    20/05/2016    1 recensioni
"Inarca le sopracciglia, livida in viso, sta per dare sfogo alla furia e il malcapitato è il sottoscritto. Se è in fase premestruale posso iniziare a scrivere il mio necrologio. Migé avrebbe potuto cantare al funerale o magari Linde, un’Ave Maria Heavy Metal, con chitarre distorte e voci roboanti."
Genere: Malinconico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovo personaggio, Un po' tutti, Ville Valo
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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PREFAZIONE
 
 
 
 
 
 
 
      
Otto ore, Dio sono otto ore che sono acquattata dietro questa colonna ad aspettare. Conosco le striature della dannata colonna a memoria, le frasi d’amore e d’addio scritte da pennarelli frettolosi e da mani veloci, appartenenti a proprietari che devono prendere un aereo per chi sa dove.
 
 
Ho il cuore a mille, parlo sottovoce con me stessa, come una pazza e dalle occhiate bizzarre delle persone in transito, deve essere proprio così che sembro: una pazza.
Sì, ma una pazza d’amore.
 
 
Otto ore e finalmente i passeggeri del volo Berlino – Helsinki, sono finalmente atterrati. Una fila di gente stanca, dal viso pallido e sbattuto, esce dal Gate otto.
Oddio eccolo!
Mi sento mancare, la colazione si rimescola selvaggia nello stomaco e sono sul punto di rimettere perfino la deliziosa cena preparata da Francesca ieri sera.
 
 
Quasi non posso crederci, ho dovuto aspettare otto ore, colpa mia che ho letto sul sito dell’aeroporto l’orario sbagliato, presa dalla fretta di vederlo, perdendo una giornata intera di lavoro solo per questo bramato momento. È bellissimo, d’altronde non può essere altrimenti, per chi guarda l’oggetto del proprio desiderio con occhi innamorati. È dimagrito però, molto, la maglia gli calza larghissima, sorride al bassista degli HIM, sembra felice, spero che sia così. A parte l’aspetto spossato, non credo che stia male, mi auguro che si sia divertito in Germania al festival “di non ricordo cosa”. Sono gelosa, spero che nessuna gli abbia preso davvero il cuore, ma poi che diritto ho di essere gelosa? Dio, quanto sono scema!
 
 
Trascina un trolley nero e sulle spalle ha il classico zainetto da viaggio, che fa da paio all’abbigliamento corvino, suo marchio di fabbrica. Si sistema il berretto di lana e d’improvviso alza gli occhi vero di me.
 
 
Mi nascondo dietro la colonna, presa alla sprovvista, mi sento una stalker, una pervertita, anzi, una spia in missione. Mi avrà vista? Provo a sbirciare e lui è tutto preso dal parlare con Linde. No, non mi ha vista, meno male.
 
 
Non voglio sembrare la classica fan svitata, però è ciò che sono, sono una fan e sono svitata per giunta. Quale povera imbecille trascorre otto ore in aeroporto, nell’attendere il cantante della propria band preferita?
Forse sono l’unica o forse no, però ho atteso questo giorno da dieci anni quasi, è la mia occasione, voglio giocare la mia partita, me lo merito, ho fatto tanta strada, versato un oceano di lacrime.
 
 
Ville mi passa accanto, fingo di giocare al cellulare, il bum bum del cuore bastona nelle orecchie, non si rende conto di niente, ignaro di chi sono e cosa provo per lui… ignaro della mia esistenza, ma non per molto. 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
1.
Nella vita, come per la morte, anche in amore, non si ha alcun controllo.
 
 
 
 
 
 
Voglio un amore doloroso... 
Voglio un amore doloroso, lento, 
che lento sia come una lenta morte, 
e senza fine (voglio che più forte 
sie della morte) e senza mutamento. 
Voglio che senza tregua in un tormento 
occulto sien le nostre anime assorte; 
e un mare sia presso a le nostre porte, 
solo, che pianga in un silenzio intento. 
Voglio che sia la torre alta granito, 
ed alta sia così che nel sereno 
sembri attingere il grande astro polare. 
Voglio un letto di porpora, e trovare 
in quell’ombra giacendo su quel seno, 
come in fondo a un sepolcro, l’Infinito.
-Gabriele D’annunzio
 
 
 
 
 
 
Le dita premono i tasti bianchi, inseguono la giusta nota, la melodia esatta, il ritmo fedele che interpreta il rumore corvino dell’anima, l’angoscia attecchita che solo un’artista solitario possiede, quell’isolamento aleatorio che crea un velo impenetrabile tra me e il mondo, lo stesso velo che mi tiene al sicuro in una prigione oscura.
 
 
Sì, ecco, ci siamo, il pianoforte prende vita sotto le mani, mi parla, racconta storie dimenticate, vicende segrete che reclamano la mia attenzione, vogliono essere svelate, è un amore che spezza l’anima, la riduce in brandelli e sgretola il cuore come sabbia fredda nel vento. Una serenata al tormento.   
Tre affondi, una pausa, replico l’identica armonia, due pause e daccapo. Mi piace. Lo scheletro della canzone inizia a prendere forma, siamo ancora in alto mare, ma sto imboccando la strada giusta. È come spogliare una donna, adagio per degustare appieno ogni attimo, un pezzo per volta, le forme sgorgano, le curve al posto giusto, il rosa della pelle, il  calore della lussuria, le morbidezze femminili e poi la visione dell’insieme.  
 
 
Tiro una boccata alla sigaretta, prendo la matita e lo spartito, scrivo con calligrafia rabberciata le note musicali, fumo di nuovo, nervoso, più per tenere occupata la mente, che per altro. Combino spezzoni diversi, li appunto, ma non ne sono soddisfatto, sembra che mi avvicini alla meta finale, però la manco per un pelo. Sono scontento di me stesso, non è una novità, sono scontento di me stesso da una vita, puntiglioso perfezionista, che perfetto non lo è stato mai.
Ricomincio da dove mi sono fermato, poggio la sigaretta nel posacenere, la bocca screpolata si schiude ed accompagna la cadenza languida del pianoforte e canto, nessun vocabolo ordinato, solo consonanti e vocali a casaccio. La mia voce un lamento intonato che riecheggia nel silenzio del soggiorno ottagonale.
 
 
L’abat-jour è l’unica luce che rischiara le tenebre, un uccello al di fuori della torre è l’interferenza molesta che mi distrae, di tanto in tanto una macchina transita, per il resto non vola una mosca. Nell’altra stanza, abbandonata sul ripiano della cucina nera, il cartonato di pizza che Irina ha portato per una cena romantica che è saltata: non sono in vena. È bella, indubbiamente, ma una bellezza gelida, distaccata, altre mille donne ho incontrato come lei in Finlandia. Mille donne che mi somigliano, prodotte in serie, introverse e fin troppo austere nel carattere impostato.
Basto io ad essere colmo di lacune, individualista, scontroso e indifferente, nel mio mondo non c’è spazio per un’altra come me. Nel mio mondo non c’è spazio più per nessuna. Punto.
A chi voglio rifilare balle? Posso risparmiarmi la recita, qui nessuno mi punta un obbiettivo addosso, qui posso essere sincero, qui non ho bisogno di fingere.
Dormo poco, non ho più fame, sono stanco, tuttavia continuo a suonare, piccolo sfogo personale per liberare il nido di malinconie al centro del petto. Fa male, non mi da pace e la solitudine non fa altro che ingigantire l’ansia, mi schiaccia, spezza il respiro e divora dal profondo.
 
 
Ruoto la sigaretta tra il pollice e l’indice, il fumo sale verso l’alto e si disperde nell’ambiente, in un chiaroscuro che serve ad accompagnare questa notte lunga un secolo. I minuti vanno avanti come macigni, le ore interminabili e l’alba una chimera irraggiungibile.
 
 
I polpastrelli vezzeggiano i tasti del pianoforte, ripetono la melodia scritta sul pentagramma, ora detesto quelle poche note, le ho scritte io? Fanno schifo. Fa tutto schifo, mi sento stretto, come se indossassi una camicia di forza, la casa mi va stretta o forse è la vita a calzarmi qualche taglia in meno.
Scuoto la testa, gratto i capelli scarmigliati, prendo il posacenere e balzo via dallo sgabello, per avvicinarmi alla finestra. Nel buio della notte, il lampione arancione attenua gli oggetti, le chitarre rotte appese alla recinzione del giardino, il gargoyle pensieroso e l’erba tagliata di fresco. Riesco a sentirne l’odore pungente, come di terra bagnata o pioggia rancida.
Fisso un punto impreciso, le venature del legno della staccionata, ma un movimento inaspettato cattura la fiacca attenzione, non capisco cosa sia, noto solo una chioma corvina che stona con la natura, una chioma corvina che non dovrebbe essere lì, una chioma corvina che è chiaramente la clandestina. Un po’ come il gioco che, da bambino, facevo con mia madre Anita, in una serie di oggetti accomunati da particolari sinonimi, dovevo trovare l’intruso. Jesse era più bravo di me.
 
 
Non faccio in tempo a prendere coscienza di cosa sta avvenendo che, un paio di colpi al portone, mi fanno sobbalzare dallo spavento. La cicca cade sulla mano, mi brucia, impreco, sono confuso, preso contro piede, mi sbarazzo di sigaretta e posacenere, e prima che possa raggiungere il cellulare per chiamare la polizia, una furibonda voce femminile tronca il perenne silenzio.
All’inizio non capisco, ha un accento strano, la rabbia distorce le frasi, colgo poche parole in un inglese stonato, se mi avesse a portata di mano mi cambierebbe i connotati. 
È la vicina di casa: una delle tante.
Una decina, forse quindici, non li ho contati, si sono trasferiti la settimana scorsa. Ho sentito dire che hanno comprato la casa in mattoni rossi adiacente alla torre, sono in così tanti lì dentro dato il prezzo alto dell’immobile, tutti giovani, non superano i trenta.
Per un po’ li ho osservati nel giorno del trasloco: sono forestieri. Di dove, non ne ho la più pallida idea, ma sono vitali, non fastidiosi, pieni di energia, li sento ridere dalla mia camera da letto, voci femminili che cantano, i ragazzi sono in netta minoranza. Quasi li invidio. Loro così tanti ed io solo come un cane.
 
 
Sento bussare di nuovo, è sul punto di buttarmi giù la porta, non ho paura, però sono infastidito: violazione di domicilio. Non chiamerò la polizia, ma la ramanzina non gliela toglie nessuno, specialmente stanotte che sono teso come una corda di violino.
Raggiungo il portone nero, lo spalanco, pronto a mostrare quanto poco posso essere gradevole in nottate devastanti come questa, ciononostante il piano non va esattamente come lo avevo prefissato e resto di sasso.
È lei… la ragazza delle rose.
 
 
L’appellativo è nato spontaneo, dopo averla vista piantare delle rose nel suo giardino, curarle con tanto amore e devozione, annaffiandole giorno per giorno, trattandole come creature vive. La prima volta l’ho vista per caso, dopo il trasferimento, poi è stato un appuntamento fisso, al pomeriggio, poco prima delle cinque, usciva di casa e tornava puntuale alle sette. Spesso ho pensato di seguirla, come uno sciocco, come se cercassi in quella ragazzina chissà cosa, forse me stesso, forse la scintilla di vita persa, forse ciò che nessuno riesce a darmi più.
 
 
Carina, è l’aggettivo giusto, non bellissima, non perfetta, non alta o magrissima, però è carina davvero, ha l’aria da dura, ma forse è solo scocciata. I capelli neri in un moderno taglio a caschetto, le sopracciglia scure ben definite danno lo giusto spessore ad un viso furente. È carina così arrabbiata, emana un’energia cupa che mi riscopro esserne attratto, come una falena con la luce più abbacinante. Ma gli occhi… oddio, quegli occhi… non è il colore a fare la differenza, non riesco ad isolare il particolare preciso che mi aggroviglia le budella in una danza di morte e distruzione, sono grandi, potenti, oscuri, violenti, così profondi che quasi ci cado dentro, celano misteri inenarrabili, mi assorbono, non posso fare a meno di contemplarli inebriato. È una strega, conscia del potere travolgente che mi rovescia addosso come lava bollente, esatto, lei è proprio fuoco indomabile, che mi avvolge e mi fa deflagrare in un incendio che mi consuma dal profondo. È giovane, anche troppo, sui vent’anni, spero non così giovane, a tratti appare una donna matura, in altri, una bambina capricciosa.
 
 
Arriccia la bocca morbida, scoprendo i denti bianchi e dritti.
<< La smetti di fare tutto questo macello? >>, esordisce sfrontata, mani sui fianchi e indocile fin nel midollo osseo. Mi affronta, quasi mi aggredisce verbalmente e mi piace, che Dio mi salvi, mi piace. << Sono le tre del mattino, ti sembra l’ora questa di lagnarti come una cicala in fin di vita? >>. La pronuncia stravagante la rende più buffa che minacciosa.
Mi viene da ridere, ma sono certo di aizzarla con tale atteggiamento, perciò mi limito a risponderle per le rime. Nessuno dei vicini si è mai lamentato in questi anni del mio comporre ad ore impossibili, ho il dubbio sul perché. Nel mio vecchio appartamento, lo stronzo del pianerottolo di fronte, mi aveva spedito in galera per due giorni.
 
 
<< Comprati un paio di tappi per le orecchie. >>, la liquido con nonchalance, faccio per chiudere il portone, ma lei è più veloce e mi tira una cinquina dritta, vigorosa e spietata sulla guancia. Non l’ho vista arrivare, sento solo il pizzicore sulla pelle. Sono spiazzato ed incazzato.
 
 
<< Stronzo cafone! >>.
 
 
<< Tu sei tutta pazza! Non solo ti introduci illegalmente nella mia proprietà, ma mi schiaffeggi pure? Due reati in meno di dieci minuti. >>. Avrei dovuto chiamarla davvero la polizia.  
 
 
Inarca le sopracciglia, livida in viso, sta per dare sfogo alla furia e il malcapitato è il sottoscritto. Se è in fase premestruale posso iniziare a scrivere il mio necrologio. Migé avrebbe potuto cantare al funerale o magari Linde, un’Ave Maria Heavy Metal, con chitarre distorte e voci roboanti.
 
 
<< Sta per arrivare il terzo reato! Se non la smetti di tenermi sveglia tutta la notte, giuro che ti spedisco a cantare all’opera nel coro dei soprani. >>. Ha tutta l’aria di volermi castrare sul serio. << Devo alzarmi alle sei e già mi sono giocata le prime tre ore, grazie a te! Che problemi hai? Non riesci a dormire? Hai mai provato i sonniferi, sono molto utili, sai? O preferisci una botta in testa? >>. È inesorabile, mi investe con insulti, offese ed ingiurie, ma non sono risentito, sono deliziato. Mi diverte e per poco non mi eccita.
 
 
Incrocio le braccia, poggiandomi allo stipite della porta. Le do una seconda, generosa occhiata, da capo a piede, piano, gustandomela tutta, le gambe slanciate, i fianchi morbidi, il seno né eccessivo e né carente, una terza di certo, accertandomi che se ne accorga, fin tanto da metterla in imbarazzo.
<< Sì, beh, la botta è ben accetta, ma non in testa. >>. La voce è calda, sensuale, mirata a turbarla e l’istante di smarrimento che le transita nelle iridi dorate, mi fanno capire che il proposito è andato in porto. È proprio come tutte le altre donne. Missione compiuta.  
 
 
Riprende il fretta il controllo delle emozioni.
<< Stronzo, cafone e pure pervertito! >>. È schifata, ma non sul serio, più disorientata, nondimeno la parola “sesso” le è balenata a carattere cubitali sul viso di porcellana. Ci ha pensato, anche se per pochissimo, ci ha pensato, e sono io il protagonista della fantasia erotica.  
Qualche anno in più e ci avrei provato sul serio, anche se, chiaramente, non è il mio tipo. Troppo giovane ed inesperta per riuscire a tenere il mio passo.
 
 
<< Non ho detto che la botta la darei a te. >>, replico tagliente, in questa guerra a suon di battute saccenti.
 
 
Mi lancia uno sguardo di puro odio: l’ho zittita. Evento biblico, ho chiuso la bocca ad una donna, no meglio, ad una ragazzina petulante che si atteggia da donna vissuta.
 
 
<< Ma vaffanculo! >>. Ruota su se stessa, non ha più voglia di continuare a giocare, ma io sì, ha dato un carattere nuovo a questa notte interminabile, ha portato parapiglia, chiarore e disordine. Non voglio lasciarla andare e non mi spiego la motivazione. Se non avesse rotto lei il muro del silenzio, non mi sarei sognato di fare la prima mossa, ma ora è qui e voglio capire cosa riesce a provocarmi dentro.
 
 
La blocco per un braccio, lei si ritrae in fretta, come se si fosse scottata.
<< Ma se insisti tanto, potrei fare uno strappo alla regola e darti una botta. Almeno sei maggiorenne? >>. Lo ammetto, dietro la burla, c’è un reale interesse per l’età anagrafica. Punzecchiarla è esilarante ed appagante.  
 
 
Inspira brusca, un sorriso forzato le allarga gli angoli della bocca.
<< Decidi tu o ti do un calcio in culo o lì dove non batte il sole! Cosa preferisci? >>. Non ha risposto alla domanda, qua va a finire che in galera ci finisco io per pedofilia.
 
 
<< Eh ma come sei aggressiva. Ti piace farlo violento? Non ti facevo tipa da sadomaso. Non dirmi che hai anche una raccolta di tutine in latex da sfoggiare per l’occasione. Confessa, collezioni fruste da usare sui poveracci che t’incontrano? Però ti avverto: a me piacedominare. >>. Calco di proposito la parola “dominare”, con un tono baritonale che allude ad un mondo nascosto, al mio modo di fare sesso, al fatto che nella vita di tutti i giorni, così come a letto, il potere spetta a me. Senza eccezioni. Non mi piace essere sottomesso, tutto qui.
 
 
<< Non ci pensare nemmeno! >>, la voce tradisce un pizzico di terrore nel trovarsi nel cuore della notte, nel giardino di uno sconosciuto, che fa palesi avances sessuali. Si è spinta oltre, senza soppesare gli esiti. << Sono terzo dan. Ho fatto pure kick boxing. Picchio forte io! >>
 
 
Me ne sono accorto, la guancia pulsa ancora. Jesse l’avrebbe messa alla prova, esperto di kick boxing sin da bambino, e mi sarei divertito a guardare la scenetta comica.  
<< E quindi? >>.
 
 
<< E quindi, mettimi anche un solo dito addosso e ti cambio i connotati! >>. Dietro l’atteggiamento da dura, un palese panico. << Ti spezzo le ossa e le uso per fare il gioco dei legnetti. >>.  
 
 
Tiro la bocca da un lato, che diavolo è il gioco dei legnetti?
<< Troppo violenta, tesoro. Hai bisogno di essere addomesticata, non è così che si conquista un uomo. >>.
 
 
<< E chi sarebbe l’uomo, tu? >>.
 
 
La bambina picchia duro e non solo con i fatti, provvista di una lingua biforcuta che sa il fatto suo. Uno ad uno. Parità.
Scoppio a ridere a crepapelle e la tipa sembra sorpresa, offesa, presa in giro. Il cipiglio scuro. Severa come una maestra di scuola verso il suo alunno più indisciplinato.
Gli avrei dimostrato chi era l’uomo, l’ho presa sul personale, punto sul vivo, sulla mia virilità di uomo.
 
 
<< Comprati un bel vestito, allora. >>, dico, stupendomi da tanto ardire. L’ho solo pensato e la bocca ha fatto il resto. Che cazzo sto facendo? Non so manco se è maggiorenne o no! Finirò in galera, me lo sento.
 
 
<< Per fare che? >>. Pare stupita.
 
 
Non posso più tirarmi indietro, mi sono scavato la fossa da solo. E meno male che non era il mio tipo!
<< Ti dimostro che sono un uomo, no? Stavi già pensando a male, eh? Che malfidata che sei. Ti porto a cena, scegli tu quando e dove. So essere un gentiluomo. >>.
 
 
Mi indica, sul punto di scoppiarmi a ridere in faccia.
<< Chi tu? Un gentiluomo? Hai bevuto? >>. Scuote la testa, stavolta sorride davvero, non si sforza, è un sorriso pieno, sentito. È simpatica e, solo ora che sorride, mi accorgo di essermi sbagliato in pieno, non è carina: è bellissima. La sua rabbia ha compromesso il mio giudizio.  
 
 
<< Di norma sì. Stanotte ho finito la scorta. >>.
 
 
<< Io a cena con te? Mai! >>. Gli occhi le brillano alla luce del lampione, il profilo rischiarato, il naso all’insù, il mento piccolo, le fattezze magre e femminili.
 
 
L’ammonisco con l’indice.
<< Mai dire mai, la mamma non te l’ha insegnato? >>.
 
 
Un secondo di smarrimento, diverso da quel che ha avuto poc’anzi, come se avessi detto la cosa più sbagliata a questo mondo. Passa in fretta, ed è di nuovo battagliera.
<< Ma senti questo. >>. Sembra sconvolta da tale richiesta. Una si intrufola nel giardino di uno scocciatore, per litigarci e invece ne riceve un invito a cena… guarda te i casi della vita.  
 
 
<< Mettiamola così allora… facciamo che verrai a cena con me, altrimenti ti denuncio per violazione di domicilio e fidati, che non sei la prima. La polizia locale è ben felice quando li chiamo. Almeno, per una volta, questa è una violazione domicilio piacevole. È più semplice così? >>.
 
 
Flette le sopracciglia, raggiungono l’attaccatura dei capelli soffici, boccheggia incredula ed incrocia le braccia. Non avrebbe ceduto facilmente.
<< Ricattatore! >>, sbotta sconcertata, come se fosse la prima volta che le accade un episodio simile. << E tu credi che io venga a cena con uno che non conosco e che fa il maniaco? Vaneggi? >>. Ci ha preso gusto ad offendermi.
 
 
Allungo la mano nella sua direzione. Mantiene le distanze: non si fida. 
<< Basta presentarsi e passa il problema. Ville. >>.
 
 
<< L’ho letto il nome al portone, non sono analfabeta. Ciò non toglie che resti comunque uno sconosciuto. >>. Fa un espressione buffa, come di un cartone animato che resta sulle sue, ma ha voglia di farsi passare la rabbia per approfittare dell’occasione. Ah l’orgoglio, è un cattivo consigliere, ne so qualcosa.
 
 
<< Ce l’hai un nome o ti devo perquisire alla ricerca di un documento? >>. Indossa un pigiama blu, un pigiama maschile, le calza grande, i pantaloni continuano a scivolarle per i fianchi. È più magra di quanto appare.  
Mi interessa davvero? Perché mi sono incaponito? Sono abituato alle donne, non le capisco, però le ho comprese un po’, sono strane, non vanno d’accordo neppure con se stesse, vogliono essere intese, ma non ti diranno mai cosa c’è che non va. La ragazzina è come le altre migliaia di donne che ho incontrato, basta conoscerla all’inizio, poi sarà stato tutto per scontato.
La solita solfa, insomma.
 
 
L’occhiata omicida che accompagna la fine della mia frase, mi fa intendere che non gradisce che la tocchi.
 
 
<< Ah vero, sei terzo dan. Mi spezzi le ossa se ti sfioro. >>, ricordo derisorio, la sto prendendo in giro e così facendo aumento l’astio.
 
 
<< Esattamente. >>, sputa con avversione. << Ma fai meno lo sbruffone che non ci metto niente a schiaffeggiarti di nuovo. E non ci vengo a cena con te, preferisco baciare un rospo, che venire a cena con te! >>. Detto questo, prima che posso prevedere le sue mosse, sgattaiola via, a passo di carica, le manca la “Cavalcata delle Valchirie” in sottofondo per rendere la scena perfetta. Scende lesta i gradini, scavalca il cancelletto come un gatto randagio e poi sparisce nel furore della notte.
 
 
Rido, rido forte, rido come non ridevo da un bel po’, è una risata sentita, divertita, che va avanti per un minuto, forse due, alla fine sono certo di una cosa. La ragazzina è pazza, mi ha ingiuriato, preso a schiaffi, denigrato e provocato, con una prestanza invincibile.
Se in meno di venti minuti è riuscita a destare quel fuoco spento dentro di me, l’ha alimentato e soffiato sopra, mi chiedo cosa riuscirebbe a fare se fosse stata una presenza costante nella mia vita.
Non ho la risposta, altre domande mi affollano la mente, desidero tornare a suonare, credo di aver trovato la strada giusta e voglio percorrerla tutta.









Note: 
E dopo due anni, alcune shot in questa sezione, rieccomi qui tornata. 

Beh, mi era dispiaciuto parecchio aver dovuto cancellare Inferno & Luce, ma dopo averlo pubblicato in ebook, ho preferito così, però non volevo non lasciare un segno importante di me nella sezione degli HIM.
Quindi riecco a voi la processione di tantiiiiiiiii capitoli, stavolta dal punto di vista di Ville.
Ci ho provato, Ville non è una persona facile da scrivere, mi sono azzardata ad interpretare le sue vesti per numerose ragioni, la decisione finale è giunta dopo una sana chiacchierata con la mia migliore amica, che mi ha spinto a provarci. Probabilmente il vero Ville non è così depresso, mi sa che questo Ville assomiglia più a me, che a quello reale xD

Sto tentando l'esperimento di scrivere al presente, spero di non fare gravi strafalcioni!

Siamo solo all'inizio, quindi non so che dire, penso che il capitolo sia chiaro, spero che possa piacere e che qualcuno lo commenterà. 

Come al solito, ci saranno di certo degli errori di ortografia, benché abbia letto sedici volte. Perciò, pardon!

Aggiornerò con una lentezza esasperante, fino a quando non invecchierete nell'attesa, però aggiornerò fino alla fine di questa lungaaaaaaaaaaaaaaaa traversata. 


Un abbraccio. 
DarkYuna. 
  
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