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Autore: Sapphire_    24/05/2016    1 recensioni
Nella New York del ventunesimo secolo, Ophelia Winston è una diciannovenne con una vita piuttosto comune, con gli alti e bassi come tutti. Almeno fino a quando tre tizi dall'aria sospetta non la rapiscono (o salvano, a detta loro) e la portano alla sede di una delle due principali fazioni dei cosiddetti Malus Sanguis. E Ophelia si rende conto che avrebbe dovuto riconsiderare la sua visione di quotidianità.
Dal testo:
«Guardala: già dalla faccia si capisce che è fastidiosa. E poi mi spiegate perché sono stato io quello a doverla recuperare? L'idiota mi ha pure morso!» continuò lamentoso quel Nicky, Domi, o come cavolo si chiamava, iniziando a sventolare la mano ferita su cui spiccavano rossastri dei segni di denti.
«Tu mi stavi quasi impedendo di respirare» intervenne furente Ophelia.
Genere: Generale, Sentimentale, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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E rieccomi qui!
Questa volta l'attesa è stata moooooolto lunga. Poco più di due mesi. Mi dispiace tanto.
A dire la verità il capitolo era quasi finito da molto tempo, mancava un'ultima parte, ma tra scuola, studio, scuola, studio e di nuovo scuola, i pochi momenti liberi li passo praticamente a non far nulla che implichi uno sforzo mentale di un certo livello. E per quanto scrivere sia per me rilassante e piacevole, devo comunque pensare a come sviluppare la trama.
Non posso promettere che il prossimo capitolo arriverà a un minor lasso di tempo, anche se mi sto già mettendo a scrivere, perché quest'anno la maturità chiama e non ho esattamente una grande quantità di tempo libero.
Che dire, spero che questo capitolo possa piacere, anche se non mi lascia molto convinta.
Mi fareste un grande piacere se lasciaste un commento, di qualsiasi tipo, in modo da aiutarmi a migliorare o, perché no, dirmi qualcosa che possa farmi piacere! Non scrivo per ricevere commenti, ma ammetto che mi farebbe piacere riceverne.
In ogni caso, buona lettura e alla prossima!

~Sapphire_





~Dirty Blood




Capitolo tre

Quando Ophelia aprì gli occhi, la prima cosa che sentì fu un'atroce fitta alla testa, un dolore tanto forte da farle pensare che gliela stessero aprendo in due.
Fece una smorfia mentre socchiudeva gli occhi, infastidita dalla luce del sole che invadeva la stanza che non riconosceva, e lentamente si sollevò dal letto in cui si trovava, sentendosi gli occhi gonfi e tutto il corpo indolenzito. Indossava ancora gli abiti del giorno prima, non si era tolta neanche il cappotto.
Rapido e implacabile, il ricordo della serata precedente le trafisse la mente prima che potesse pensare a qualsiasi altra cosa: il rapimento, i quattro sconosciuti, Mathias...
Sospirò e si guardò intorno.
Era in una camera da letto piuttosto ampia, in cui il letto a due piazze su cui stava troneggiava imponente con le sue coperte verde scuro. C'era una grande finestra dalle tende scostate da cui entrava forte la luce del mattino, una scrivania di legno con di fronte una sedia e un armadio chiaro. Del resto, la stanza risultava piuttosto spoglia.
Si ritrovò a guardarsi attentamente attorno, cercando di memorizzare ogni minimo dettaglio.
La sera prima non era stata molto attenta, presa com'era dall'ennesimo attacco di pianto che l'aveva colta appena era arrivata in quell'altro posto sconosciuto.
Claire, d'altro canto, ce l'aveva messa tutta per tranquillizzarla, ma Ophelia si sentiva inconsolabile in quel frangente.
Appena sveglia, ricordava vagamente cos'era successo dopo che i tre ragazzi se n'erano andati: Claire l'aveva trascinata via da quella stanza soffocante per condurla attraverso un'altra porta che si apriva su un luogo completamente diverso. Una volta oltrepassata si era trovata nel corridoio di quella che era chiaramente una casa d'epoca.
Claire l'aveva poi portata in quella camera da letto, facendola sedere e lasciandola con la promessa che sarebbe tornata subito con qualcosa di caldo per farla rilassare. Cosa inutile dato che la bionda, poggiata appena la testolina sul cuscino, si era addormentata tra le lacrime.
Proprio in quel momento notò una tazza di tè nel comodino di legno affianco al letto, sulla quale un'abat-jour di ferro battuto poggiava spenta. Allungò una mano per prendere la tazza, ma questa era gelida.
Ovvio, sarà qui da tutta la notte, pensò Ophelia, dandosi della scema.
Solo in quel momento si accorse di non sapere che ora fosse. Beh, almeno non aveva la preoccupazione di avvisare qualcuno su dove si trovasse. Escluso ormai Mathias, nessuno si sarebbe fatto domande su dove si fosse cacciata.
«Ti sei svegliata»
La voce di Claire la colse impreparata, facendola sobbalzare e girare di scatto verso la porta.
La mora sorrise, continuando a stare sulla soglia. Indossava una minigonna a pieghe nera, una camicia bianca con le maniche arrotolate sui gomiti e una cravatta lasciata molle azzurro cielo; sarebbe potuta sembrare una studentessa se non fosse stato per le scarpe in vernice nere dal tacco dodici, che le davano un tocco sexy non appartenente di certo a un'adolescente.
A Ophelia venne voglia di piangere al solo pensiero di come fosse invece conciata lei.
«Già» rispose solo la bionda, incapace di dire altro.
Il silenzio si fece pesante e imbarazzante, ma Ophelia non sapeva cosa dire. Aveva circa un centinaio di domande da fare, ma allo stesso tempo aveva paura di porle.
«Ieri non hai mangiato niente, avrai fame immagino. Vieni, andiamo a fare colazione» la incoraggiò sorridente Claire.
Ophelia si alzò titubante, dirigendosi verso la ragazza sempre con più sicurezza: d'altronde, Claire si era dimostrata la più affidabile in quella situazione. Tra tutti quelli che aveva “conosciuto”, lei era l'opzione migliore. Perciò si lasciò condurre docile tra i vari corridoi di quella immensa casa arredata poco ma con eleganza, in cui i colori principali erano il bianco, il nero e il verde.
Mentre camminava si guardava attorno con diffidenza, cercando di cogliere il maggior numero di dettagli possibile, ma tutte le porte erano chiuse e perciò non poté osservare niente di particolare.
«Ecco»
Claire la ridestò dalla sua attenta osservazione del luogo per introdurla in una cucina dall'aria più moderna del resto della casa, con un'isola circondata da alti sgabelli come unico tavolo disponibile.
«Cosa vuoi mangiare? Dolce, salato?» le chiese Claire.
Ophelia, gli occhi fissi sull'orologio appeso alla parete, le rispose distratta.
«Dolce»
Erano quasi le dieci e un quarto.
Non sapeva a che ora fosse arrivata lì la sera prima, né a che ora si fosse effettivamente addormentata, ipotizzava avesse dormito almeno per dodici ore. Nonostante ciò, si sentiva ugualmente stravolta.
«Puoi toglierti il cappotto se vuoi»
Claire la richiamò per la terza volta all'ordine e Ophelia si girò verso di lei, osservandola mentre trafficava per la cucina.
«Oh... Sì, certo» sussurrò.
Si levò il cappotto grigio con lentezza, poggiandolo su uno degli sgabelli e cercando di dare una sistemata agli abiti stropicciati: il maglioncino blu che indossava era tutto tirato da un lato, i jeans aderenti invece mantenevano la loro forma. Notò solo in quel momento di essere scalza, non ci aveva fatto caso.
«Puoi sederti»
Anche a quella frase, Ophelia agì come un'autonoma.
Ci furono interi minuti di silenzio, fino a quando Claire poggiò sul tavolo un calice di vetro colmo di spremuta, una fetta di torta con cioccolato e panna e una ciotola di macedonia fresca.
A rompere la quiete fu il boato che fece il suo stomaco di fronte al cibo: era da quanto?, venti ore che non toccava cibo? L'ultimo pasto era stato il pranzo del giorno prima, che per di più si era limitato a un panino e un'insalata veloce.
Senza pensarci troppo si buttò sul cibo quasi affogandosi dalla voracità con cui mangiava.
Sentì la mora ridacchiare e arrossendo cercò di mangiare con più calma.
«Oh, non preoccuparti per me, mangia come ti pare» fece con un sorriso Claire.
Ophelia annuì soltanto, continuando a mangiare in silenzio. Nel frattempo l'altra ragazza beveva del caffè appoggiata al tavolo, rimanendo in piedi.
«Hai una sigaretta?» disse Ophelia improvvisamente, appena terminò di inghiottire anche l'ultimo boccone. Claire la guardò sorpresa, poi annuì.
«Prego» fece, porgendole il pacchetto tirato fuori da una pochette che Ophelia notò solo in quel momento.
Appena la accese e aspirò il fumo, tossì.
Da quanto non fumava? Tre, quattro anni? Ne aveva tredici quando aveva provato la prima sigaretta, più tanta voglia di diventare adulta e bisogno di ribellarsi alle rigide regole dell'orfanotrofio. Le aveva rubate, si ricordò, perché di certo non gliele avrebbero mai vendute. E poi, insieme ad alcuni compagni un po' più grandi di lei, aveva provato ad aspirare finendo per tossire come una dannata.
Se lo ricordava meno acre e più buono, ma sortì l'effetto sperato: ad ogni boccata di fumo che rilasciava sentiva l'agitazione dentro di lei scomparire.
Contemporaneamente, Claire se l'accese insieme a lei.
«Dove sono?» chiese all'improvviso Ophelia. La mora la guardò, non stupita dalla domanda improvvisa.
«A casa mia e dei miei fratelli, a Manhattan. Ci abitiamo solo noi tre e ora siamo da sole, Domi e Max non credo che torneranno per ancora un bel po'»
Manhattan? Come avevano fatto a passare da Brooklyn a Manhattan in un minuto, la sera prima?
«Come ci siamo arrivate ieri?»
Claire fece una smorfia.
«Non mi crederesti se te lo dicessi ora. Devo parlarti di altre cose prima» rispose.
Ophelia prese un'altra boccata di fumo che le schiarì la mente.
«Chi sei tu?» chiese poi, ignorando quanto la domanda potesse risultare in qualche modo ridicola.
«Mi chiamo Claire Desdemona Sangster, sono molto più vecchia di quello che posso sembrare e non sono quello che tu pensi»
In pratica, oltre al nome non sapeva nulla. Ophelia inarcò un sopracciglio.
«Non esagerare con le informazioni» fece sarcastica. L'altra le fece un sorriso di scuse.
«Dirti chi sono non farebbe altro che convincerti di essere finita in una casa di pazzi»
Beh, diciamo che già in parte lo credeva.
«Allora perché non mi spieghi direttamente che cavolo succede e la facciamo finita?» continuò diretta Ophelia, sorprendendosi in qualche modo della propria fermezza nel porre quelle domande.
Claire sospirò, spegnendo la cicca in un posacenere preso dal banco della cucina e massaggiandosi le tempie.
«Ecco... Non so bene da dove partire a dire il vero. Non mi è mai capitata una situazione del genere e non so neanche cosa Sargas voglia che ti dica» iniziò a tergiversare.
«Parti dall'inizio. E poi ricordo che questo Sargas ti avesse detto di dirmi il necessario» la mise all'angolo, ricordando con improvvisa chiarezza le parole che il tizio moro aveva detto a Claire prima di fuggire via.
Claire fece l'ennesima smorfia.
«Tu credi al sovrannaturale?»
Fino a ieri mattina no, si rispose la bionda.
«Cosa intendi?»
«Ecco...» borbottò Claire «A creature più che umane, che hanno poteri che oltrepassano la vostra “normalità”» specificò, rimanendo comunque vaga.
«In un altro momento ti avrei riso in faccia. Ma dopo ieri sera, mi viene da risponderti di sì e di ridere di me stessa» rispose amara.
«So che può sembrarti assurdo, ma ipotizziamo che queste creature, diciamo, non umane, esistano davvero. Come la prenderesti?»
«Come la dovrei prendere?» chiese a sua volta Ophelia.
Claire sbuffò, passandosi una mano tra i capelli con un gesto nervoso.
«Non lo so» mugolò con aria sconsolata.
Ophelia continuò a fissarla in silenzio, con una strana curiosità che l'attanagliava.
«Via il dente via il dolore» esclamò all'improvviso Claire, rianimandosi all'improvviso e puntando lo sguardo verso l'altra ragazza che la guardava in attesa. Un attimo dopo, gli occhi rilucevano bianchi.
«Vedi i miei occhi? Ecco, questo è ciò che mi rende “non solo umana”. Come me, anche i miei fratelli, Sargas e molti altri possiedono questo tipo di occhi, ed è ciò che ci rende diversi. Diciamo che abbiamo dei poteri “magici”. Questi poteri e la nostra esistenza è sconosciuta a tutte le persone normali, e così deve rimanere in quanto sarebbe un gran bel trambusto se si scoprisse la verità» disse talmente rapida che quasi si mangiava le parole.
«Tu, a quanto pare, sei come noi. Sarò sincera: né io, né Domi e Max e nemmeno Sargas abbiamo idea su chi tu sia. Da quel che so ci è stato ordinato di recuperarti dal padre di Sargas, Lisander, ma nessuno sa perché lui ti voglia. Non sappiamo neanche perché il tuo ragazzo in verità fosse un Deviato mutaforma, perché un altro Deviato ti stesse per rapire ieri pomeriggio e se non fosse che stavamo venendo a recuperarti tu ora saresti chissà dove per volontà di non so chi» concluse frettolosa, con un fiume di parole che invasero la testa di Ophelia lasciandola impassibile.
La sua espressione non tradiva nulla a differenza della sera prima, in cui aveva crisi isteriche ogni due minuti.
Proprio per questo Claire la osservò dubbiosa.
«Ehi... Tutto bene?» borbottò, avvicinandosi e puntando gli occhi bianchi verso la ragazza.
«Credi che io sia pazza?» aggiunse poi, notando di non sortire alcun effetto nella bionda. Quest'ultima la osservò come se si fosse appena svegliata da una trance.
«No. Credo di essere diventata io pazza»
Già, perché, nonostante l'assurdità di quella situazione totalmente ridicola, Ophelia le credeva.
In maniera illogica e senza senso, era comunque convinta che Claire le stesse dicendo la verità. E non solo in seguito agli occhi bianchi o al suo ragazzo in versione mostro spaventoso – o forse era più corretto
Deviato mutaforma? - semplicemente la sua parte più insensata e non coerente con la realtà le diceva che sì, Claire aveva ragione.
Stava per porre un'altra domanda finché un conato di vomito non la costrinse a richiudere la bocca e portarsi la mano a coprirla.
Claire le si avvicinò allarmata.
«Che succede? Stai male?»
Ophelia impallidì, sentendo altre fitte alla testa e il corpo scosso da brividi come se avesse la febbre a quaranta; iniziò a sudare freddo.
«Credo di dover vomitare» riuscì a malapena a sussurrare.
Claire non le fece dire altro, la prese per mano e la trascinò per il corridoio, facendola entrare di volata in una stanza che si rivelò essere il bagno. Appena in tempo, oltretutto, in quanto Ophelia vomitò subito l'intera colazione sul lavandino.
L'intero corpo era scosso da brividi, si sentiva febbricitante e le facevano male gli occhi; a porle un poco di sollievo furono le mani tiepide e umide di Claire che le si posarono nel collo. Proprio come la sera prima, anche in quel momento le mani della mora le infusero benessere.
Passarono alcuni minuti in cui i brividi cessarono, le fitte alla testa e al corpo pure e Ophelia si diede una sciacquata alla faccia e al collo.
Sollevò poi lo sguardo sopra il grande specchio appeso sopra il lavandino e rabbrividì nel vedere il proprio riflesso: il viso malaticcio, gli occhi verdi cerchiati dal trucco nero ormai sbavato e i capelli totalmente spettinati. Si vide anche più magra del solito.
Affianco al suo riflesso, quello splendente di Claire la fissava preoccupata.
«Stai meglio?»
Ophelia fece una smorfia.
«Non ne sono sicura» sussurrò, con in bocca un disgustoso sapore che le fece desiderare ardentemente uno spazzolino.
«Avanti, siediti»
Fu trascinata sulla tavoletta del water e costretta a sedersi, mentre Claire si inginocchiava di fronte a lei in uno strano deja-vù della sera prima. Gli occhi bianchi la trafiggevano e la squadravano alla ricerca di qualcosa.
«Non capisco cosa tu abbia» fece dopo alcuni istanti.
«Neanche io» rispose ironica.
«Solitamente riesco a cogliere il malessere fisico o psicologico nelle altre persone, ma non sto davvero riuscendo a capire cosa tu abbia» insistette.
Ophelia sentì un'altra fitta alla testa.
«Non sarà nulla di che, probabilmente mi sono beccata un virus, è da ieri che sto male»
Claire continuò ad osservarla, ma non disse niente. Dietro quelle iridi candide, Ophelia poté però scorgere un vago sospetto che la fece preoccupare, ma non ci poté pensare troppo in quanto un altro conato la costrinse a correre verso il lavandino.
Peggio di così non può proprio andare.

Appena mise piede al quartier generale della Fazione Bianca, Sargas desiderò fortemente la presenza del padre. Per poterlo sostituire, non per altro, era chiaro.
Fece un grande sospiro per poi inoltrarsi nella grande sala dalla forma ellittica, all'interno della quale un uomo e una donna si stavano per azzannare l'un l'altro.
«Vorrei potervi dire buongiorno ma vedervi non lo rende tale» disse il moro, attirandosi subito gli sguardi altrui, che tacquero.
«Toh, il ragazzino» bofonchiò infastidito l'uomo; gli occhi bianchi facevano contrasto con la carnagione ambrata e i dreads colorati che aveva in testa. Come tutti coloro appartenenti alla loro “razza”, era bello in maniera quasi inquietante.
«Se non mi volete qui allora andate a recuperare Lisander» rispose a tono Sargas, per nulla scalfito.
«Grazie ma preferisco vedere te piuttosto che quel bastardo» intervenne la donna, avvicinandosi a un tavolino in cui bicchieri e alcolici quasi traboccavano. Si versò del whisky e lo tracannò rapida.
«Almeno tu non pensi solo a scopare, in effetti» aggiunse l'uomo, andandosi a sedersi attorno al tavolo che troneggiava al centro della stanza e, con un vago gesto della mano, facendo sì che un bicchiere e una bottiglia planassero nella sua direzione. Subito dopo si accese un sigaro e iniziò ad appestare la stanza.
Sargas lo raggiunse e si sedette su una delle altre due sedie disponibili, accendendosi una sigaretta.
«Ho ricevuto il tuo biglietto, Penelope, ma non ci ho capito un cazzo. Che sta succedendo?»
La donna rise, passandogli dietro per sedersi e scompigliandogli i capelli con la mano coperta di anelli d'oro.
«Non c'è molto da capire, tesoro mio. Dei Deviati pare si stiano dando da fare per rapire e uccidere alcuni dei nostri» spiegò, giocherellando con il bicchiere che si era riempita di nuovo.
Sargas la fissò, facendo scivolare lo sguardo diventato bianco sulla figura sinuosa della donna, vestita con un sensuale abito color malva e i capelli rossicci acconciati in un chignon vaporoso decorato da piccoli cristalli. Sotto l'occhio sinistro un piccolo neo spiccava nell'incarnato pallido.
«Non guardarmi così, principino, potrei emozionarmi troppo» fece con tono soave la donna.
«Cazzo, sei disgustosa!» berciò l'uomo.
«Ti brucia ancora il rifiuto eh, Amadeus?» lo punzecchiò beffarda la donna.
L'altro stava per rispondere, ma Sargas terminò il litigio prima che esso potesse iniziare.
«Lasciate le vostre beghe da innamorati a un'altra volta, grazie. Possiamo parlare seriamente ora?»
I due si lanciarono un ultimo sguardo di fuoco, poi concentrarono l'attenzione e i loro occhi bianchi sul giovane.
«Stanno avvenendo rapimenti anche dai Neri?» chiese.
«Che ne so, io non ci parlo più con quei bastardi, men che meno coi francesi» borbottò Amadeus.
Penelope fece un vago gesto con la mano.
«È da un bel po' che non sento nessuno di loro, non ne ho la minima idea» rispose la donna.
«E tu? Non hai sentito proprio nulla?»
«Credi che mio padre abbia la voglia di informarmi di quisquilie del genere?» iniziò sarcastico «Se anche avesse sentito qualcosa tra le nostre file o le loro, non si sarebbe preso la briga di venirmelo a dire»
Amadeus borbottò un “bastardo” a mezze labbra ma ben udibile. Sargas, del canto suo, non fu minimamente offeso: lui stesso considerava il padre un bastardo, perché si sarebbe dovuto arrabbiare?
«Avete intenzione di fare qualcosa?» domandò in direzione dei due.
«A dire la verità non sappiamo bene come agire. I Deviati non sono mai stati così aggressivi, inoltre non capita spesso di trovarne tanto potenti da ucciderci, invece adesso sembrano spuntare dal nulla. Non voglio mandare alcuni dei miei senza avere prima delle informazioni sicure, sarebbe come condannarli a morte» rispose Penelope.
«Sì, ma come avete intenzione di trovare informazioni?»
«Abbiamo. Cosa credi, di essere escluso? Potremmo mandare i due gemelli, tanto non sarebbe un grande spreco» sogghignò Amadeus.
Non fece in tempo a dire altro perché subito dopo si immobilizzò, improvvisamente impossibilitato dal respirare; diventò tutto rosso mentre scattava in piedi e si portava le mani alla gola.
«Tesoro, raffredda i bollenti spiriti» soffiò Penelope, imperturbata.
Ma prima che Sargas stesso allentasse la presa, Amadeus riuscì a riprendere a respirare.
L'uomo scoppiò a ridere.
«Quanto te la prendi per i tuoi amichetti, ragazzino»
Sargas non disse nulla, infastidito dal fatto che l'altro fosse riuscito a liberarsi da solo. Ma effettivamente Amadeus aveva molti più anni di lui, e molta più esperienza; non si aspettava davvero di riuscire a ferirlo.
Del resto l'uomo non se l'era seriamente presa: certo, il ragazzo aveva tentato di ucciderlo, ma entrambi sapevano che non l'avrebbe fatto sul serio. O, sarebbe più corretto, che ce l'avrebbe davvero fatta.
«Credo che la prima cosa da fare sia chiedere ai Neri se anche da loro è morto qualcuno. Se non è così, potremmo già restringere il campo su chi vorrebbe ferirci» continuò Penelope, deviando l'attenzione di nuovo sul nucleo del loro incontro.
«Hai ragione» disse Sargas. I due guardarono poi Amadeus, in attesa di un suo responso. L'uomo annuì di malavoglia.
«Non sarò di certo io però a contattare quei maledetti francesi, altrimenti è la volta buona che faccio una strage» disse, di nuovo incazzoso. Sargas scrollò le spalle.
«Mi occupo io di chiedere a loro» disse.
«Io chiederò a Milos, tu occupati di Agatha» fece Penelope in direzione dell'altro.
Amadeus fece una smorfia.
«Preferisci i francesi?» chiese Sargas ironico.
«Mi tengo lei, grazie» rispose acido.
Penelope sospirò.
«Bene, appena sappiamo tutti qualcosa ci incontreremo di nuovo. Non serve che vi dica di mettervi subito all'opera, vero?» disse con tono indifferente, lanciando solo uno sguardo gelido ai due uomini.
Gli altri le restituirono lo sguardo distaccato.
«Ci si vede» disse solo Amadeus, senza rispondere. Un attimo dopo, era sparito.
La donna riprese a sorridere.
«Fai da bravo, tesoro» gli disse, per poi lanciargli un bacio volante e sparire anche lei in un secondo.
Sargas sospirò e pensò al padre.
Quando torna lo uccido.

  
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