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Autore: Monique Namie    26/05/2016    14 recensioni
Un telefono squilla insistentemente nella casa diroccata di un paese fantasma. Nessuno può sentirlo: la linea elettrica non è funzionante e quel luogo è disabitato da decenni, eppure il telefono continua a suonare in attesa che arrivi qualcuno a rispondere. Sembra sia stato lasciato lì a posta per lei che è una specie di sensitiva e può comunicare con le cose del passato.
{Racconto scritto per il contest "Il telefono" indetto sul forum di EFP}
Genere: Malinconico, Mistero, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna, Het, Crack Pairing
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'Watch Beyond'
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Racconto scritto per il contest “Il telefono” indetto sul forum di EFP.

Note autore:
I nomi di luoghi e di persone presenti nel testo sono esclusivamente frutto della fantasia.

Racconto revisionato in data 19 febbraio 2017.




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“Per me l'amore è un puro concetto dotato di un corpo inadeguato, che passando attraverso cavi sotterranei, linee telefoniche ecc, riesce faticosamente a trovare il contatto. Una cosa terribilmente imperfetta. A volte ci sono errori di trasmissione. A volte non si conosce il numero. A volte ti chiamano, ma hanno sbagliato numero.”

Dance Dance Dance

Haruki Murakami



Un telefono squilla insistentemente e non c’è nessuno nei dintorni che possa sollevare la cornetta. Il suo trillo acuto si spande negli ambienti di una casa diroccata: attraversa la sala da pranzo, con le sedie di legno intagliato rovesciate sul pavimento, giunge nella camera da letto dalle pareti ammuffite e, accarezzando la ruggine delle imposte, si riversa all’esterno.


Luglio.

Ho scoperto l’esistenza di un paese fantasma che posso vedere solo io. Si trova a circa tre chilometri da casa mia e lo si può raggiungere attraversando la prateria dei Lamberti.

Le case sono tutte in legno: cadenti catapecchie dalle travi scrostate, tenute assieme da una manciata di chiodi corrosi dalla ruggine. Sopra l’entrata di ogni abitazione c’è un numero civico inciso sullo stipite della porta. In passato, probabilmente, erano colorati in modo sgargiante, ma – dopo tutte le stagioni trascorse – oggi è rimasto gran poco della pigmentazione originaria. Al tempo piace fare razzia delle cose. A lui piace appropriarsi indebitamente dei dettagli del mondo, ma non lo ammetterebbe mai. No, lui si definisce un collezionista, mica un ladro.


Quando ho bisogno di un po’ di tempo per me stessa, mi reco spesso in quel luogo. È comparso magicamente proprio in un periodo della mia vita in cui avrei voluto fuggire da tutto e da tutti.

Nessuno può trovarmi lì, perché è un luogo imprigionato in una bolla temporale. I comuni mortali non percepiscono ciò che si muove eternamente nella dimensione del tempo. E io, lì dentro, posso smettere di esistere per un po’; smettere di essere la giovane segretaria dell’avvocato, smettere di indossare vestiti formali e tenere i capelli raccolti. Posso essere me stessa e ribellarmi alle convenzioni della società. Avevo sempre pensato che fare la segretaria fosse un lavoro noioso, contro la mia indole avventuriera. Tuttavia, all'età di venticinque anni, in un periodo in cui trovare lavoro era piuttosto complicato, avevo accettato anche quella mansione.


Lungo le vie di quel paese è un po’ tutto nel caos, ma l’atmosfera è piacevole. A tratti si respira l’odore di cose vecchie e consumate dal tempo, a tratti profumo di fiori selvatici e camomilla. Mi ricorda un po' le mie escursioni ai mercatini dell'usato, quando vado alla ricerca di qualcosa di prezioso e abbandonato.

C’è una panchina infossata tra la vegetazione: su di essa ogni tanto rivedo le ombre di chi si sedeva ad aspettare e chiacchierare. Un paio di scarponi abbandonati sul secondo gradino di una scalinata sono rivestiti di muschio, ma se mi concentro li posso vedere indossati da un uomo brizzolato che si reca giornalmente dal panettiere in fondo alla via.

Non sono pazza, semplicemente all’età di tre anni, tre mesi e tre giorni di vita ho deciso di inserire l’uncinetto di mia madre nella presa della corrente del salotto. Ci potevo rimanere secca, invece mi è andata bene, e da allora il presente si è mescolato al passato. Continuo a vedere cose che ora sono già polvere, oggetti e voci che non appartengono più al presente da qualche giorno o da qualche secolo.

Di solito sono manifestazioni temporanee di breve durata: l’evento più lungo si è protratto per una decina di minuti. Dunque non mi so spiegare perché questo complesso di case sia così insistente: continua a stagliarsi in mezzo alla campagna, con la nebbia, con la pioggia, durante il giorno e con la luna. Potete immaginate la mia sorpresa quando sono tornata a passeggiare nel luogo e ho ritrovato la città fantasma, così come l’avevo lasciata l’ultima volta. I Lamberti sarebbero ammattiti se avessero saputo che i loro possedimenti confinavano con una cittadina oscura a misteriosa. Conoscendo il loro attaccamento morboso alla terra, non avrebbero dormito alla notte.

Le residenze di questo particolare paese non sono tante. Il numero civico più alto che io abbia incontrato finora è il 100. Nella casa numero 99, l’unica con un portico e una sedia a dondolo costantemente mossa dal vento, c’è un telefono nero che ogni tanto suona. È uno di quei vecchi apparecchi con la cornetta e la ruota numerica; il cavo che lo collega alla linea elettrica è tagliato, mangiato dai topi, eppure lui continua a squillare, come se chi sta dall’altra parte riuscisse a creare un collegamento solo tramite la forza di volontà.


A telefonare è sempre il solito ragazzo dalla voce serena e un po’ malinconica. Mi piace il tono e la frequenza di vibrazioni che produce nell’aria. È così piacevole parlare con lui che mi sembra di conoscerlo da sempre. Quando sollevo la cornetta, lui inizia sempre con la solita frase: «Pronto. Com’è il cielo lì? Qui sembra stia per venire la fine del mondo.»

La prima volta ho guardato fuori dalla finestra. Un riflesso condizionato: sapevo che era una giornata soleggiata. Ero appena entrata in quella casa attirata dallo squillo del telefono e dovevo ancora abituarmi al buio degli interni polverosi. Gli dissi semplicemente che c'era il sole, e allo stesso tempo mi chiesi perché fosse così importante per lui sapere com'era il tempo qui.

Oggi mi permetto di rispondergli con frasi più poetiche e lontane dalle convenzioni.

«Il cielo sembra lo specchio appannato di un lago, e il sole il lampione d’un’antica città sommersa.»


Agosto.

Sì, ora posso dirlo, ne sono certa. Ahimè, mi sono innamorata di una voce. Non credevo fosse possibile amare qualcosa di astratto. Pensandoci è un po’ come amare un sogno irrealizzabile, una figura intangibile. È una pazzia, no?

La voce di quel giovane esiste solo perché esiste l’atmosfera terrestre e dunque il suono può propagarsi nell’aria. È il mero risultato delle leggi della fisica che, da quello che ne so, potrebbero anche essere del tutto errate.

Certe volte mi siedo per terra ad aspettare che l’apparecchio si metta a suonare. Sul pavimento, a gambe incrociate, l’attesa è una dolcissima tortura. L’incertezza è come un masso di diverse tonnellate sostenuto da un sottile filo sopra la mia testa. Potrebbe cedere da un momento all’altro, ma l’adrenalina mi impedisce di andarmene. Potrei morire da un momento all’altro se lui non telefonasse, ma potrei anche sopravvivere. Dipende solamente dalla resistenza di quella fine cordicella che è la speranza.


Ogni volta che il telefono emette un suono squillante tutto intorno, un po’ della polvere che gli si è posata sopra durante la mia assenza scivola giù, ed è una slavina vista con gli occhi di un gigante.

Quando alla fine della chiacchierata riattacco la cornetta, è come se la mente del ragazzo si azzerasse. Ricominciamo sempre da zero e ogni volta ritroviamo una sintonia familiare, come due persone che si conoscono da molto tempo.

Ci penso spesso: potrei dirgli qualsiasi cosa e alla fine sarebbe come se non gliel’avessi mai detta. La più bella dichiarazione d’amore di tutti i tempi finirebbe persa nel vento che ulula tra le fenditure sulle pareti, fra le crepe del soffitto al piano superiore.

Anche se sono cresciuta con questo dono, dopo tanti anni non ho ancora capito come una cosa del genere sia possibile; non mi è chiaro nemmeno il motivo per cui certe cose del passato sostino più a lungo nelle mie percezioni, mentre altre svaniscano in breve. Temo che questo dubbio rimarrà irrisolto, a meno che, in futuro, io non decida di consegnarmi nelle mani della scienza.


Un giorno, dopo aver risposto alla sua consueta domanda, gli ho chiesto che anno fosse. Per qualche secondo dall’altra parte della cornetta si è protratto il silenzio, tanto che pensavo fosse caduta la linea.

«È il 10 agosto 1942... Ed è anche il mio compleanno», rispose infine.

«Davvero? Tanti auguri! Mi spiace non essere lì per farteli di persona.»

Lo sentii ridere. «Cos’è, uno scherzo?»

Per un attimo l’ho visto nella mia mente: capelli castani, occhi scuri e profondi, arricciati ai lati a causa della risata, un filo di barba a incorniciare un viso pulito e giovane. Non sapevo se fosse veramente così, ovviamente, ma qualcosa mi suggeriva che il suo aspetto fosse abbastanza simile.

Prima che potessi dire qualunque cosa, il ragazzo parlò di nuovo: «Compio ventitré anni.»

Formulai mentalmente un veloce calcolo: amavo qualcuno che, se era ancora vivo, ora aveva novantasette anni?!

«Io ho due anni in più di te», dissi infine, consapevole della contraddittorietà di quanto stavo affermando.

No, io amavo un ragazzo di ventitré anni intrappolato in una parentesi temporale, un ragazzo che continuava a far squillare il telefono nonostante il cavo sfilacciato che non ospitava più nemmeno un watt di elettricità.


La seconda settimana di agosto, ho realizzato che un collegamento vocale verso una linea temporale passata mi importava molto di più di una relazione reale nel presente. Ho detto al mio datore di lavoro che ero malata, così, invece di fare la segretaria, ho aperto il portatile e mi sono messa a fare una ricerca negli archivi storici del catasto. Con una buona dose di fortuna, verso sera ho trovato ciò che cercavo. Tramite una serie di ricerche su città storiche italiane abbandonate, sono risalita al nome di Aurivo. Riconobbi il posto da una foto datata 1940. Si trattava un comune fondato dal paladino Nobile Aurivo nel 1867, prima designato Borgo Lorus. Questa informazione era accompagnata da alcuni articoli: in uno si leggeva che il comune era stato teatro di un violento rastrellamento in epoca nazista: precisamente il 20 agosto 1942. C'era persino una lista di persone che avevano perso la vita durante il tragico evento. La stampai e studiai i nomi, ma ovviamente nessuno mi era familiare.

Ci credete che per tutto questo tempo, io e il ragazzo del telefono, non ci eravamo mai presentati come si deve? Nella mia testa, in realtà, lui si chiamava Giulio. Non so perché proprio quel nome: forse me lo suggerivano il tono della voce e i modi gentili. D’altronde mi era sempre piaciuto dare un nome alle persone sconosciute che incontravo per strada, quelle che sapevo che non avrei rivisto più, e così avevo fatto anche con Giulio.

Nei giorni seguenti mi recai sul posto quotidianamente, ma il telefono non squillò mai. Stavo iniziando a pensare al peggio, quando finalmente, dopo una lunghissima settimana di silenzio, il trillo del telefono mi ridestò al torpore.


Driiin.

Il suono del telefono in quel momento sembrò diverso, carico dell'ansia e del tormento che avevo dentro. Ci misi una manciata di secondi a raggiungere e sollevare la cornetta per rispondere. Avevo preso l'abitudine di gironzolare nei paraggi del numero civico 99 e, in quel momento, ero proprio nel selciato all'esterno dell’abitazione.

«Grazie a Dio hai telefonato!», esordii senza dargli il tempo di porre la solita domanda. «Ascolta, ti sembrerà strano, ma ho bisogno di sapere il tuo nome.»

«Devo aver sbagliato numero...», disse lui dopo un attimo di titubanza. E certo, una pazza estranea che ti si rivolge in quel modo avrebbe spaventato chiunque. Mi maledissi e cercai subito una soluzione per non farlo fuggire.

Mi schiarii la voce. «Chiedo scusa, il numero è giusto, solo che in questo momento sono occupata. Se mi lasci il nome e il numero, ti richiamo.»

Esitò qualche attimo e poi mi rispose: «Capisco. Sono Didimo Traisci e questo è il mio numero...»

Mentre lui mi forniva le cifre, io controllavo i nomi sull'elenco che avevo portato con me. Didimo Traisci era il quarto. Sentii il panico crescere.

«Ehm, mi sono appena liberata da quell’impegno», lo interruppi. «Ascoltami, quello che sto per dirti ti sembrerà insensato, ma devi lasciare il paese prima del 20 agosto 1942! Mi hai capito?»

«Perché dovrei farlo?»

«I nazist–»

«Shhh! Sei pazza! Se è uno scherzo non è divertente», mi bloccò.

Rimasi per un attimo interdetta. Perché non voleva che nominassi i nazisti? Temeva forse che potessero rintracciare la chiamata? Non mi risultava che al tempo ci fosse la tecnologia necessaria per compiere intercettazioni telefoniche, ma potevo anche sbagliarmi: non sono una storica.

Tralasciai quelle riflessioni e ripresi a parlare con fervore: «Non è uno scherzo! E anche se lo fosse, che cosa ti costa darmi ascolto? Sei in pericolo! Ti devi fidare di me...»

Seguì il silenzio. Credo di non aver mai udito una quiete più desolata e profonda di quella. Né un sospiro, né un fruscio o un borbottio. Nulla. E poi Giulio riattaccò.

Tut tut tut


Settembre.

Le foglie degli alberi stanno ingiallendo. La prateria dei Lamberti sembra più ampia, ora che la città fantasma è scomparsa. Non c’è più nessun telefono che squilla, ma solo campi lasciati incolti, alberi e un fiume serpeggiante. E quella voce attraverso il tempo sembra un ricordo lontano, la voce di un fantasma che continua a vivere da qualche parte nel passato.




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