Il cielo era grigio, carico di acqua.
Non che gli interessasse molto, lì, al
coperto, sotto una delle cupole perimetrali,
completamente in vetro temperato resistente ricoperto di più
strati di tecnopolimero,
della biblioteca.
La biblioteca: era l’unica cosa di cui
gli importava.
Era stata costruita secoli prima, su quella
penisola, lunga circa duecento
chilometri, posta a nord di un lago, che veniva chiamato, nella lingua
locale, Punainenmeri.
La biblioteca distava cinquanta chilometri dal
punto di attacco della
penisola con la terra ferma.
Più che un lago quello era da tutti
considerato un mare, dato che l’acqua
ne aveva la stesa composizione, che superava la superficie di
seicentomila
chilometri quadrati, che le sponde non erano tra loro visibili, con
parecchi
affluenti posti a est e ovest della penisola, ma con un unico accesso
dal
vicino oceano, uno stretto posto a sud, lungo alcuni chilometri,
chiuso, per tutto
il suo percorso, tra altissimi vulcani in attività, alcuni
dei quali avevano le
pareti a strapiombo e formavano lo stretto medesimo.
L’accesso al mare era interdetto da un
una rete elettromagnetica,
posizionata tra le due pareti vulcaniche poste
all’inizio
dello stretto, che non
consentiva a nessun veicolo marino, sia sopra che sotto la
superficie
dell’acqua, di
attraversare lo stretto e
di entrare nel mare.
Inoltre, all’interno del mare, vi erano
delle postazioni automatiche
sottomarine che, a mezzo di sonar e boe acustiche sommerse, tenevano
sotto
controllo il mare.
Dal cielo, invece, l’accesso era
controllato da varie stazioni militari con
radar ad apertura sintetica a scansione tridimensionale, installate
sulla terra
ferma, posizionate vicino a campi di aviazione militare, che
proteggevano la
biblioteca da qualsiasi veicolo non autorizzato al sorvolo che potesse
giungere
dal cielo o dallo spazio.
L’attuale imperatore, un tipo malfidente,
aveva anche fatto posare,
recentemente, dei sensori sotto terra, per l’ascolto di
qualsiasi vibrazione
del terreno dovuto a veicolo che avessero viaggiato sotto la
superficie del
pianeta.
Quei sensori servivano anche per tenere sotto
controllo i movimenti
tellurici della terra, volgarmente chiamati terremoti, provocati dai
vulcani
posti sullo stretto e che formavano una catena montagnosa che, partendo
dallo destra
dello stretto, dopo aver formato il medesimo, seguiva una direttrice
sud-est
nord-ovest.
Ma per anni, anzi secoli, nessuno aveva mai cercato
di avvicinarsi alla
biblioteca senza permesso.
Permessi che non venivano distribuiti facilmente
alla popolazione.
Per la popolazione vi erano biblioteche
più piccole, distribuite sui vari
pianeti che costituivano l’impero, i cui libri non erano in
formato carta, ma
in formato informatico: la censura sui libri era molto più
facile se erano in
formato informatico, dato sulla carta, o qualsiasi altro tipo di
materiale, non
era possibile tirare righe per cancellare frasi senza che qualcuno non
si
ribellasse o protestasse, rompendo la pace imperiale.
Alla quella biblioteca, quindi, dove i libri erano
in carta e altri
materiali, accedevano soltanto studiosi e ricercatori,
autorizzati da un
numero limitato e ben conosciuto di persone.
L’elenco comprendeva
l’imperatore, l’imperatrice, il capo gabinetto
dell’imperatore, alcuni funzionari e burocrati di
vari dipartimenti e alcuni
rettori delle più importanti università
del pianeta e di quella parte
dell’universo governata dall’imperatore.
La persona stava guardando il mare, o meglio il
faro posto su uno spuntone
di roccia posto a circa un chilometro dalla terra che, con
intermittenza,
lanciava la sua luce a illuminare il buio, davanti ad un porto vuoto,
sul mare sconfinato
nel suo limite, di quello strano colore grigio, in burrasca, sotto quel
cielo
plumbeo, mentre sulle finestre si rispecchiava la stanza che era dietro
di lui.
Una stanza arredata in maniera sfarzosa.
I mobili erano dei più rari e belli che
fossero stati costruiti in tempi
remoti, lavorati a mano da persone esperte.
Il tavolo, dietro a lui, era di forma rettangolare,
di colore nero con
riflessi blu: le sei gambe, che sostenevano il tavolo, due poste verso
le
finestre e quattro dall’altra parte, rappresentavano strani
animali, mai visti
da persona su quel pianeta, colorati di oro.
La sedia era dello stesso colore del tavolo, con
seduta e schienale
imbottiti e rifiniti in pelle nera: le gambe erano anch’esse
di color oro,
dotate di rotelle per consentire, a chi si fosse seduto su di essa, di
girarsi
di trecentosessanta gradi intorno al suo centro di gravità.
Gli altri mobili, di diversi gradazioni dei colori
marrone e nero, di
diversa forma ed altezza, sembravano distribuiti, all’interno
della stanza
posta in cima alla cupola, in modo casuale, senza seguire una ben
precisa
dislocazione.
In realtà, una precisa dislocazione ce
l’avevano: chi fosse salito dalle
scale, poste dall’altra parte della stanza, entrandovi, con i
mobili in quella
posizione, non avrebbe visto chi era seduto alla scrivania.
Mentre ammirava il panorama, dietro a lui si
sentirono alcuni passi sulle
scale, indecisi.
Si sedette immediatamente sulla sedia e si
avvicinò alla scrivania, ponendo
la mano sinistra sotto di essa.
L’uomo, zoppicante, che saliva gli ultimi
scalini, scrutò la cupola in
cerca di chi era presente.
«Bibliotecario?». Chiese
l’uomo, con fare sommesso.
«Perché mi
disturbi?». Gli rispose il bibliotecario, sfiorando con le
dita
la micidiale arma posta sotto il tavolo.
«Chiedo scusa, ma serve la vostra
presenza alla camera dei libri proibiti.
C’è stato un accesso non autorizzato. Non sappiamo
cosa fare». Disse l’uomo, con
voce rispettosa e tremante, alquanto preoccupato abbassando la testa.
«Nessuno può accedervi senza
il mio permesso!». Disse il bibliotecario con
un tono di voce profondo, che dimostrava tutta la sua furia per quanto
gli era
stato detto.
L’uomo, appena arrivato, si volse e scese
frettolosamente le scale, senza
aspettare la risposta del bibliotecario, quasi rischiando di cadere.
Il bibliotecario, sfilando l’arma da
sotto il tavolo, si
alzò e si diresse verso le scale.
Come l’uomo, che lo aveva avvisato
dell’improvviso problema, indossava una
tonaca lunga fino ai piedi, di color grigio perla, lavorato con dei
disegni di
color nero, che rappresentavano un labirinto.
Un enorme cappuccio copriva la sua testa e ne
nascondeva i lineamenti del
viso.
Infilandosi le mani delle larghe maniche della
tonaca, nascondendo l’arma
in una tasca nascosta dentro alle maniche, incominciò, con
passo fermo, a
scendere i gradini della scala, che lo portarono due piani
più in basso, sempre
all’interno della cupola.
Nella zona centrale dell’enorme stanzone,
completamente vuoto, vi era una
cabina circolare, completamente di vetro, con una luce bluastra che lo
illuminava.
L’uomo vi entrò, di
malavoglia, ma l’unico modo di uscire dalla cupola era
quella maledetta cabina: non gli era mai piaciuto il teletrasporto, ma
non
poteva farne a meno.
Vi salì e, a chiara voce,
dichiarò il luogo ove voleva andare.
«Stanza 1111 codice di accesso
tequila!». Disse il bibliotecario.
Il suo corpo di smaterializzò, apparendo
in una cabina simile parecchi
metri sotto terra, vicino ad una porta blindata.
Vi erano presenti, al suo arrivo, sette persone,
tutti vestiti di una
tonaca uguale alla sua: solo tre di essi avevano il cappuccio alzato.
Gli altri si avvicinarono al bibliotecario: tra
loro c’era la persona che lo
aveva avvisato dell’intrusione.
Le persone con il cappuccio calato sulla testa
rimasero fermi, guardando da
lontano quel chiacchiericcio, intorno al nuovo venuto, delle persone
che cercavano
di giustificarsi, dichiarando che non sapevano assolutamente nulla su
cosa
fosse successo.
Il bibliotecario estrasse la mano destra dalla
manica e fece un gesto per
quietare le persone che lo circondavano.
Guardò gli altri incappucciati, fermi,
immobili, dietro a quel muro di
uomini i quali, capendo la situazione, si spostarono, lasciandoli
passare.
Il bibliotecario e gli altri fecero capannello,
incominciando a parlare con
fare sommesso, senza farsi sentire dai presenti.
Dietro a loro vi era una porta blindata, chiusa,
che era di forma ovale,
senza cardini e senza serratura, alta più di cinque metri.
La stanza, che forse avrebbe dovuto contenere la
porta, era più alta della
porta e lunga almeno venti metri, imbiancata di color bianco, con un
pavimento
di color grigio chiaro, formato da enormi lastre quadrate di materiale
composito.
Di fianco alla porta blindata, sulla sinistra, era
posizionato una piastra
metallica di forma rettangolare.
Il bibliotecario, dopo aver discusso con gli altri,
si avvicinò alla
piastra togliendo, con la mano sinistra, uno strano aggeggio di color
bianco da
una tasca nascosta esterna della tunica, dallo stesso lato della manica.
Gli uomini senza cappuccio si allontanarono,
correndo, mentre gli altri si
spostarono sul lato destro, lungo il muro perimetrale del locale.
Il bibliotecario appoggiò
l’apparecchio alla piastra e un rumore metallico,
forte, rimbombò nella stanza.
I chiavistelli, nascosti, che tenevano la porta
chiusa, incominciarono a
cedere, facendo sì che l’enorme porta si muovesse
verso il locale, smuovendo
polvere e calcinacci, come se la porta non fosse stata aperta da tempo.
Ma la porta, stranamente, non cadde nel locale.
Man mano che i cardini liberavano la porta, questa
si mosse, prima verso il
locale, poi verso il basso.
Alla fine incominciò a scivolare in un
buco sul pavimento, sparendovi.
Gli uomini senza cappuccio, che si erano
allontanati e posizionati davanti
alla porta blindata, furono investiti da un vento freddo e
maleodorante, proveniente
dal nero che si vedeva dietro all’enorme passaggio lasciato
libero dalla porta.
I quattro incappucciati sorrisero, vedendo le facce
schifate degli uomini
fermi davanti alla porta.
Il bibliotecario, dopo che il vento
cessò, si spostò davanti alla porta,
guardandovi dentro.
L’uomo avanzò nel passaggio
lasciato libero dalla porta: appena vi si
infilò, una piccola luce, sulla destra, si accese.
Poi, una dopo l’altra, altri luci
incominciarono ad accendersi, in basso,
illuminando, discretamente, quello che sembrava un lungo salone.
Poi incominciarono ad accendersi altri luci, a
varie altezze, illuminando
un corridoio enorme, alto decine di metri.
Poi altri luci si accesero, illuminando corridoi
che partivano
perpendicolarmente dal corridoio principale.
Una seconda fila di luci, sopra a quelle che si
erano già accese,
incominciarono ad illuminare la scena, rompendo il buio in cui i
locali, da
tempo, erano stati
lasciati.
Più le luci si accendevano,
più la biblioteca dei libri proibiti mostrava
il suo vero volto.
Era alta più di cinquanta metri, lunga a
perdita d’occhio, con enormi
scaffali, in pietra e il legno, che
contenevano libri, fatti solo di carta o materiali simili, di diverse
grandezze
e spessori.
Non si vedeva videolibro o schede di memoria su
nessun scaffale.
Il bibliotecario e gli altri incappucciati si
misero l’uno di fianco
all’altro, rimirando quello spettacolo.
Gli uomini, rimasti indietro, emisero dei rumori
sommessi, di meraviglia,
nei confronti di quanto vedevano.
Il bibliotecario, girandosi verso i suoi
interlocutori posti alla sua
destra, disse sommessamente: “Peccato che il resto sia stato
separato dalla frana”.
«Per fortuna!». Disse
l’ultimo interlocutore.
«Già. Per fortuna!».
Replicò quello di fianco al bibliotecario.
Il terzo si incamminò
all’interno della vecchia biblioteca.
Gli uomini non incappucciati si mossero per
seguirli, ma un muro invisibile
si frappose tra loro e la porta.
Il bibliotecario si girò e fece loro
cenno di non muoversi.
Gli uomini rimasero lì a rimirare quello
spettacolo, mentre il
bibliotecario e gli altri si incamminarono all’interno delle
biblioteca.
Mentre avanzavano le luci, lasciate dietro a loro,
si spegnevano, lasciando
accese solo quelle davanti a loro, per illuminare il loro cammino.
Gli uomini rimasti fuori videro, improvvisamente,
la porta risalire e rimettersi
al suo posto.
Spaventati scapparono, infilandosi uno alla volta
nel teletrasporto e
ritornando alle loro faccende.
Se qualcuno era entrato nella zona dei libri
proibiti non era un problema loro.
Avevano così tante cose da fare, in
quell’enorme biblioteca che, anche se
qualcuno si fosse introdotto in quel posto, non gli interessava.
Il bibliotecario e gli altri non si videro per
tutto il giorno e nessuno se
ne preoccupò.
Alla sera, nella mensa della biblioteca, dove si
raccoglievano tutti i
dipendenti, il bibliotecario e i suoi avventurosi amici apparvero, con
il cappuccio
abbassato e senza proferir parola.
Il rumore di fondo, che si era improvvisamente
fermato al loro arrivo,
riprese, senza dar molto peso al fatto che né il
bibliotecario né gli altri
prendessero parola per chiarire cosa fosse successo.
Non era abitudine del bibliotecario giustificare
certe cose ai suoi
sottoposti: ignorare ciò che succedeva nei luoghi
più nascosti delle biblioteca
era necessario, se si voleva continuare a lavorare e vivere in quel
posto.
All’esterno della biblioteca pioveva
ormai da parecchie ore, accompagnata
da tremendi lampi di luce e rombi di tuono, mentre il buio la faceva da
padrone
e, dopo cena, tutto il personale si diresse verso le proprie stanze per
dormire
quella notte, come la precedente e quella successiva, sperando che si
fosse
visto, il giorno seguente, la luce del sole.