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Autore: Gatto Magro    31/05/2016    2 recensioni
Andrò nel luogo in cui piove sempre, dove lo spazio fra me te e te si riempie dell'unica luce possibile.
Genere: Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Crack Pairing
Note: Nonsense | Avvertimenti: nessuno
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Pensavo fossi una ragazza e quindi non ho avuto quella che si dice presenza di spirito, quando l’hai tirato fuori e sei rimasto a guardarmi con gli occhi tondi di spavento e quel sorriso storto a illuminarti i denti, insomma io non ho reagito per nulla, pensavo fossi una ragazza e subito dopo o mentre il mio pensiero è stato che eri bello davvero, cazzo, e non ho detto niente, tu che guardavi me e io che guardavo te e tanto silenzio a premere da fuori, che mi aspettavo che i vetri delle finestre si frantumassero.
Ma tu che avresti pensato?
Con quei pantaloni stretti, il volto cereo e gli occhi pesti, una maglietta grigia stropicciata addosso al petto scarno, mi sono detto che se ti avessi parlato nel buio di quel supermercato – o forse era il pub o la pensilina dell’autobus – non avrei fatto niente di male, niente di peggio, non ti avrei spaventata con il mio volto cereo  e gli occhi pesti e una maglietta stropicciata. A entrambi, i vestiti e le espressioni stavano addosso come attaccati con le puntine da disegno, e potevo distinguere il suono delle graffettatrici come quello di un metronomo instancabile in mezzo a quello dei tuoni, delle risate e del collasso delle particelle.
E ti ci sei messo anche tu, con quella bocca rosso sangue. I denti che brillavano, catturando la luce al neon del congelatore industriale o dell’insegna del Johnny Foxes o dei cartelli stradali e dove cazzo è che ci siamo conosciuti? Un secondo dopo eri in un angolo della mia cucina, davanti alla finestra, i pantaloni mezzo abbassati – perché avevi aspettato che io facessi qualcosa, mentre te li toglievi, che cominciassi a respirare in modo diverso e invece non ho detto nulla e mi si sono slacciati i muscoli perché nella luce dei lampioni che ti disegnava nella mia cucina – è stato come spegnere e accendere un interruttore – eri bello davvero – e poi a discapito di tutto mi è perfino venuto duro e stavo per piangere perché da quando Emilia se n’era andata io
Hai sorriso un po’ da stronzo e al prossimo tuono eri seduto sulle mie ginocchia. Mi hai preso il volto fra le mani e guardandomi dritto negli occhi hai detto qualcosa che è andato perduto nel ruggito del cielo in fiamme. Ma non importa. Dov’è che ci siamo conosciuti?
E dobbiamo aver parlato di musica e tu non facevi che dire che la musica non ti faceva sentire nessuno. Che è come mangiare carne cruda senza i denti. Che non c’era nessuna speranza con il folk e con tutto il resto perché non avevamo gli organi adatti a percepire il folk e tutto il resto. Quindi ascoltavamo musica solo per poter immaginare incantesimi.
Mi hai cullato nel silenzio assordante di una cucina buia, dicendomi shh anche se non avevo detto una parola da che era venuto fuori che non eri esattamente la ragazza minuta e famelica che pensavo io. Forse volevi mettere a tacere i pensieri che nuotavano nel mio cervello. È che avevo quella profonda nostalgia nebbiosa per quando ero bambino o soltanto più leggero e animato. Sai, quando inventi le storie e diventano reali proprio perché le hai inventate; quando hai dei genitori; quando i fiori nel giardino di tua nonna sono fanciulle vittime di una maledizione; quando sei benedetto dal miracolo dell’empatia, della parola, della connessione con qualcosa che non sia l’abisso oscuro che si apre dietro le tue labbra e le costole non sono che le pareti di un pozzo senza dimensione che abbiamo chiamato anima senza cognizione di causa.
E la parola norvegese per amore?
E i lunghi capelli di mia sorella?
E le fotografie che non lasciano un senso di nausea?
Ti sei sporto oltre le mie labbra per chiedere tutte queste cose al nulla che custodivo in corpo.
Quindi stanotte non si scopa, hai sospirato in tono scherzoso, appoggiando una guancia fredda alla mia, che era uguale. Le tue dita fra i miei capelli le immaginavo luminescenti e verdastre, e ho chiuso gli occhi per vederle meglio, tanto mi piaceva l’idea. Ma ovvio che non ci credo. Non sono più io. Ma si può dire che tu eri quasi una creatura magica. Un po’ ubriaca, abbandonata e instabile, forse. Nessun motivo valido per non tenerti tra le braccia e respirare il tuo profumo dolce e pensare all’eredità perduta che ti aveva allontanato dal tuo regno di boschi e stelle intrecciate ai polsi, alle tue corse in punta di piedi sulle code ardenti delle comete, ai minerali sconosciuti che costituivano le tue unghie e i tuoi capelli, al fiume inquinato che chiamavi Madre e al vento capriccioso che ti aveva dato la vita, alle fiamme con cui dovevi aver stretto maliziose alleanze per avere quegli occhi vibranti. E le ninfe ti avevano insegnato a dare un nome ad ogni cosa e a dare un corpo ad Ore, Aurora, Invidia.
Hai una lanterna, mi hai domandato.
Ho delle lampadine nuove accatastate sotto il letto, ho detto ai tuoi capelli, accorgendomi di sussurrare e di una sfumatura di scuse nella mia voce. Ho le unghie spezzate e delle candele nel cassetto sotto la finestra. Ma le tengo per le occasioni speciali, ho aggiunto come se volessi scherzare senza motivo, solo perché magari volevo farti vedere di non essere proprio disperato e scoppiare a piangere lì come eravamo abbracciati.
Per esempio, hai chiesto ancora, con la malignità dei ragazzini svegli, del fuoco e dell’inverno.
Quando le sensazioni coincidono con il contesto. Per esempio, quando sono a casa e mi sento a casa, e quel bruciore nello stomaco sparisce e se ne va l’impressione di invecchiare un secondo dopo l’altro e di non combinare proprio un cazzo e di essere un fantasma ingombrante, buono solo per restare incastrato in ragnatele e ricordi che non ha mai vissuto. O quando di punto in bianco mi incazzo per tutto di quella rabbia tenera e bianca e mi metto a pisciare sulle riviste e la stupidità cosmica di cui siamo infradiciati mi fa sorridere, soltanto sorridere, e non provo dolori aspri per i mezzi dei e la televisione e tutte le parole macinate e gli occhi e l’intenso amore che ho provato per la finzione assoluta che passerà come passa la polvere sui nostri volti chinati e le nuvole sfilacciate che sfumano i tramonti di intere generazioni stremate, l’agitazione molecolare di tutti questi secoli accatastati ha dissipato l’energia destinata a tenerci dritti in piedi e farci andare a scuola e amare qualcuno e le notti in cui mi siedo in giardino e tutto è veramente buio e mi assale una paura senza nome, ecco, tutto questo a volte se ne va, si dilegua come fumo sotto una porta, una mosca a un battito di mani, e io accendo le candele e mi ricordo come si fa a cantare
Have I found you, flightless bird?
 
 
Tu forse avrai sorriso e la pioggia ha iniziato a scendere.
Mi piaceva quando, in quelle giornate sporche, si accumulavano le nubi e di punto in bianco scoppiava il temporale. Mi piaceva quell’impressione istintuale di correre al riparo in un rifugio caldo e guardare un piccolo assaggio di fine del mondo da una finestra generosa di spifferi. Erano tutte immagini nella mia testa, romantiche interpretazioni di vita che avevano finito per far parte di ciò che ero, se qualcosa ero ancora. E l’idea di poter essere era tiepida e attraente, perciò recitare la vita mi faceva sentire al sicuro, anche se ormai credo non ci sia più verso di liberarsi di quell’abitudine dissociativa per la quale mi vedevo sempre dall’esterno.
Con quel ragazzo accoccolato sulle ginocchia, invece, ero così dentro il mio corpo che forse ripensandoci i miei farfugliamenti tra i suoi capelli erano segnale di una lieve sensazione di panico, perché dopo mesi il mio corpo stava funzionando, e tutto ciò che faceva pur rimanendo perfettamente immobile era parte di me e questo era assurdo e veramente folle perché io non esistevo da mesi e mesi ed era servita una ragazza con il cazzo a farmi tornare in vita
e allora guardavo le gocce di pioggia martellare le finestre attraverso i miei occhi spalancati, udivo le eco dei tuoni perdersi nel vento che fischiava nella canna fumaria e sotto le porte, respiravo l’acqua e l’elettricità e l’aroma di caffè e inchiostro della cucina e qualcosa di più complesso e mistico che era il tuo profumo o magari il tabacco da quattro soldi che fumavi – e poteva essere, mi sono raccontato in un attimo luminoso, ciò che rimaneva del tuo antico amore, le erbe che ti avevano cresciuto, i sospiri incartati del tuo mentore dalle zampe di capra; quale incredibile sostanza avvelenava i polmoni di una creatura come te? – la pelle d’oca che mi ricopriva le braccia, e anche il sapore di vodka che mi stagnava sul palato e il culo sulla sedia e il calore tiepido fra le cosce e persino non vorrei esagerare persino il battito di un cuore
 
Allora tu hai chiamato il mio nome e le candele si sono accese.
La cucina spoglia divenne la cosa più bella del mondo, in quel momento. Affannato, mi sono chiesto a cosa somigliasse ora; realizzando di non ritrovarla in nessun ricordo, mio o prestato, mi sono sentito invadere dalla pace e dalla delizia. Non eravamo in una stanza segreta del palazzo di un principe egiziano, sotto la volta d’oro cupo di una cattedrale bizantina, in una catacomba etrusca fitta di spiriti, affacciati dalla sommità insanguinata di una piramide azteca. E non respiravamo il miasma di Times Square, l’arsura del Circo Massimo o il sentore di petrolio che aleggia su Krasnaja ploščad'. Non eravamo uno schizzo imprevisto del destino o il capitolo frettoloso di qualcuno. Le Moire non stavano intrecciando i colori del nostro silenzio.
Non potevi lasciarli in pace, quei serpenti.
Hai sorriso dolcemente, in risposta a quel finto rimprovero. Era il prezzo da pagare per poter leggere le stelle. Se vuoi, ti insegno come si fa. Magari domani.
 
 
 
 
 
 
   
 
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