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Autore: Vago    03/06/2016    2 recensioni
Libro Secondo.
Dall'ultimo capitolo:
"È passato qualche anno, e, di nuovo, non so come cominciare se non come un “Che schifo”.
Questa volta non mi sono divertito, per niente. Non mi sono seduto ad ammirare guerre tra draghi e demoni, incantesimi complessi e meraviglie di un mondo nuovo.
No…
Ho visto la morte, la sconfitta, sono stato sconfitto e privato di una parte di me. Ancora, l’unico modo che ho per descrivere questo viaggio è con le parole “Che schifo”.
Te lo avevo detto, l’ultima volta. La magia non sarebbe rimasta per aspettarti e manca poco alla sua completa sparizione.
Gli dei minori hanno finalmente smesso di giocare a fare gli irresponsabili, o forse sono stati costretti. Anche loro si sono scelti dei templi, o meglio, degli araldi, come li chiamano loro.
[...]
L’ultima volta che arrivai qui davanti a raccontarti le mie avventure, mi ricordai solo dopo di essere in forma di fumo e quindi non visibile, beh, per un po’ non avremo questo problema.
[...]
Sai, nostro padre non ci sa fare per niente.
Non ci guarda per degli anni, [...] poi decide che gli servi ancora, quindi ti salva, ma solo per metterti in situazioni peggiori."
Genere: Avventura, Azione, Fantasy | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Leggende del Fato'
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 Nirghe tamburellò velocemente le dita sull’elsa della spada al fianco destro.
Dietro di lui la Grande Vivente avvolgeva qualunque cosa, con tronchi larghi molto spesso più di due metri che si susseguivano identici.
La poca luce che filtrava dai rami lontani permetteva di vivere a un sottobosco spoglio, solo uno strato di erba soffice e pochi, sparuti, cespugli erano riusciti a sopravvivere tra quei colossi che si allungavano verso l’alto cielo.
Finalmente il dritto bastone lucido comparve da dietro un tronco, seguito dall’erborista che gettava svogliatamente un piede dopo l’altro.
- Se non ti dai una mossa ti lascio qui. Non ho tempo da perdere qui nella Vivente. –
- Dai, sto facendo tutto quello che posso. Non è colpa mia se non cammino tanto… - gli rispose il Serpente fermandosi per l’ennesima volta.
- Senti, ora non ricominciare a lamentarti. La tua meta non è molto distante da qui, ancora una giornata e dovremmo raggiungerla. –
- Se lo dici tu… -

Sono maledettamente indietro. L’altro gruppo ha praticamente fatto il doppio della strada.
In ogni caso lo spadaccino ha ragione, lo spiazzo dove sorgeva il Palazzo della Mezzanotte non è molto distante, direi addirittura a mezza giornata di cammino… per una persona normale. In questo caso potrebbero anche impiegarci il triplo del tempo.

La sera la passarono avvolti dalle imponenti piante e Seila non perse l’occasione per lamentarsi di quanto le facessero male le piante dei piedi e del fatto che non aveva le erbe per i suoi impacchi serali.
Nirghe si dovette allontanare dal fuoco che danzando gettava ombre tremolanti sulla corteccia per non esplodere in un moto di rabbia.
Quando l’oscurità si impadronì di ogni forma e colore il Gatto si fermò, piantando le sue lame nel terreno per sfogare la frustrazione che gli rodeva l’anima. SI sedette quindi sui talloni stringendo le else tra le dita.
Non la riusciva più a sopportare, Seila. Ogni parola che diceva era una parola di troppo nella sua testa e mai una volta che non fosse una lamentela.
Nirghe non riusciva a capire a quale allenamento avessero sottoposto l’erborista negli otto anni in cui era stata all’interno della setta per lasciarla uscire così fiacca. Perfino i Lupi erano più sopportabili di quell’elfa.
Lo spadaccino provò a regolare la sua respirazione per far sbollire il marasma di emozioni ribollenti che gli stringeva la gola. Solo quando fu certo che non avrebbe colpito il Serpente si rialzò, tornando verso il fuoco.
La mattina nata da quella notte mite i due assassini ripresero il passo sull’erba umida di rugiada senza scambiarsi una parola.

Solo dopo mezzogiorno un largo spiazzo si aprì di fronte a loro. L’erba, là dove c’era, era bassa e sembra che nessuna pianta avesse intenzione di affondare le proprie radici in quel terreno.
Quasi al centro dello slargo, sotto il sole oramai pomeridiano, una botola riposava in mezzo al nulla. Di fianco a questa, bruciato dal calore e dalle intemperie, un cartello cercava di spiegare come vivessero i ribelli al tempo della guerra, rinchiusi nei cunicoli che percorrevano le profondità dell’intera foresta.
- Ecco. Ti ho portata dove dovevi andare. Ora, purtroppo, dobbiamo salutarci, io ho ancora la mia meta da cercare. – disse secco Nirghe voltando di scatto le spalle all’elfa bionda.
- Ma cosa dovrei fare io qui?! – gli urlò dietro l’erborista allargando le braccia come per abbracciare la radura.
Nirghe non poté trattenersi, non completamente, per lo meno. Si voltò di scatto e, probabilmente, pensò, i suoi occhi in quel momento bruciavano di rabbia. – Senti, io non so tutto. Però so fare due più due nella mia testa. Qui c’è la tua meta, siamo spersi nel nulla, ci sono solo alberi qui intorno. L’unica cosa degna di una qualsivoglia nota è quella stramaledetta botola nel mezzo del niente! Non è difficile da capire, o mi sbaglio? –

Ragazzi, l’aria si è fatta elettrica.
E poi quel qualsivoglia in mezzo alla frase mi ha fatto accapponare la pelle. È stato un po’ come sentire una madre chiamare per nome e cognome suo figlio, sai già che non finirà bene la faccenda.
Per il resto io non so aiutare, al momento. Le creazioni degli dei hanno due caratteristiche: non emettono energia magica particolare se non attivate e non hanno un fato. Quindi perché ve lo dico? Perché non sono in grado di trovarle. Sarebbe come cercare un libro in una biblioteca quando quell’unico libro non è nell’indice. L’unico modo che avrei per riconoscerlo è controllarli uno per uno finché non trovo quello incriminato.
Sto perdendo il filo del discorso… è sto cominciando a rivalutare il ruolo di bibliotecario.
Comunque quello che volevo dire è che se non ce l’ho davanti agli occhi non so trovare la prova posta dagli dei.

- Ma io non voglio andarci da sola! Chissà cosa c’è la sotto! E poi guarda, è pure chiusa con il lucchetto! – continuò Seila con le lacrime agli occhi tirando un calco a un vecchio lucchetto arrugginito che teneva chiuso il coperchio per terra.
Nirghe reagì d’istinto. La mano corse all’elsa della spada e in un attimo la lama scintillante fu estratta, calante verso il terreno.
La ruggine del lucchetto cedette, spezzando l’acciaio rovinato dalle intemperie.
- Ecco. Ora non è più chiuso. – le disse rinfoderando la spada.
Il Gatto non la lasciò nemmeno fiatare, voltandosi nuovamente e partendo a passo rapido verso la foresta che li avvolgeva.
Ben presto le urla alle sue spalle si fecero troppo flebili per essere distinte dai rumori degli animali che popolavano quelle fronde.

Nirghe guardò un’ultima volta la sua parte di mappa. Riconosceva la zona, era la porzione orientale della Grande Vivente e la sommità nord della catena dei Monti Muraglia.
La sua macchia cadeva esattamente nella zona più fitta della foresta, nel Bosco Nero dove le comunità degli elfi dalla pelle scura si erano insediati subito dopo il Cambiamento.
Ripassò mentalmente le nozioni che aveva appreso, sperando che quel che cercava fosse ancora in funzione.
Poi guardò l’albero alla sua destra. Non perché quella pianta fosse particolare rispetto alle altre, ma per il montacarichi che scendeva dai suoi rami sorretto da un’impalcatura in legno.

Alla fine di quella salita infinita, ad attenderlo, il sole illuminava con i suoi caldi raggi tre vie di rami intrecciati che si incontravano là dove il montacarichi si fermava.
- La Strada Sospesa… - mormorò lo spadaccino guardandosi intorno.
Aveva letto parecchio di quella strada naturale che, passando di albero in albero, collegava ogni punto della Grande Vivente come una rete stradale. Da quel momento poteva andare dove voleva senza pericolo, si diceva, nei libri, che nemmeno gli Athur, prima di estinguersi, fossero in grado di salire fin lassù.
Un cartello gli indicò la via giusta, indirizzandolo verso la sua destinazione.

Il sole continuava a battere indolente sulla Strada Sospesa. Quattro giorni senza che una sola nuvola lo coprisse o attenuasse i suoi raggi.
Nirghe passò il bordo del cappuccio sulla fronte per asciugare le gocce di sudore che gli cadevano sugli occhi.
Quello era il motivo per cui era fallita l’idea di trasformare quell’opera naturale in un centro di scambi. Il caldo, il caldo torrido che si smorzava solo quando d’inverno la neve copriva ogni cosa.
Il Gatto si fece coraggio e proseguì nel su cammino. Non doveva mancare molto alla Piazza Nera. Aveva sentito dire che ogni strada, alla fine, si congiungesse lì con le altre e che da lì si potesse raggiungere qualunque parte della Grande Vivente.

Indovinate perché l’hanno chiamata Piazza Nera.
Volete una mano?
Vabbè, ve la do comunque. Indovinate sopra quale parte di questa foresta è nata…

Sono stanco. Non tanto del caldo, quello nemmeno lo sento, ma di questa inattività. La mia esperienza, se mi ha insegnato qualcosa, è che se c’è troppa calma in giro qualcosa di maledettamente problematico si sta avvicinando.

La piazza era molto più grande di quanto avesse letto nei suoi libri di geografia. I rami che la costituivano partivano tutti dal centro, sviluppandosi come una spirale per quelli che potevano essere sessanta metri di raggio.
Là dove la piazza nasceva si era formato una specie di bozzo.
La superficie legnosa era percorsa da linee sinuose bruciate dal sole. I segni erano simili a quelli che Mea tracciava sui suoi fogli, ma parevano essere nati direttamente nel legno, piuttosto che essere stati lasciati da qualcuno.
La mente di Nirghe si affollò di immagini, ricordi in cui la mezzelfa disegnava su quei fogli giallognoli i simboli sinuosi che le davano potere,  il volto concentrato e il ciuffo blu che le ricadeva sulla fronte.
Lo spadaccino scosse la testa per ritornare alla realtà.
Quello era il luogo indicato, ne era sicuro. Che avesse sbagliato a salire sulla Strada Sospesa? Magari la sua meta era sotto di lui, all’interno del Bosco Nero.
Il Gatto fece qualche passo avanti, con l’intento di gettare uno sguardo al terreno sotto di lui.
Non fece in tempo a raggiungere il bordo della piazza che i rami sotto le sue suole cedettero all’improvviso.
Il cielo fu rinchiuso in un anello di legno e Nirghe si ritrovò pochi metri più in basso, all’interno d quella che pareva essere un nido di un grosso uccello, oppure una cappella circolare. Di fianco a lui una struttura in pietra stonava con l’ambiente circostante, ma l’assassino non ebbe tempo per riconoscere la forma, perché i rami cedettero nuovamente, facendo ricominciare la sua caduta verso il suolo.
Lontano, forse troppo lontano, presero forma un gruppo di tende. Al centro dello spiazzo una colonna di fumo grigia saliva da un falò sul quale un grosso pentolone era stato posto.
Poco lontano pochi cavalli erano legati a un giovane tronco.
Qualcosa di metallico rifletté la luce del fuoco da terra, ma lo spadaccino non capì cosa potesse essere. Tutto quello che poteva avvertire in quel momento era il vento che gli fischiava attorno in quella caduta vertiginosa.

Bene, anche lui è andato.
So di essermi dimenticato qualcosa, ne sono sicuro. Facciamo un piccolo riepilogo.
Il gruppo della maga dovrebbe essere quasi arrivato ai Monti Muraglia, se non hanno trovato intoppi. Loro non mi spaventano troppo, finché le ultime due rimarranno insieme non saranno in pericolo.
L’elfo albino è nella porta. Non è in pericolo, per il momento.
Lo spadaccino sta per raggiungere la sua prova sotto di me e, anche se avesse dei problemi, non potrei intervenire.
Il cataclisma è in una zona relativamente tranquilla della Vivente. Deve solo decidersi a raggiungere la sua prova.
Certo. Non mi resta che fare rapporto. Ecco cosa devo ancora fare. Posso fare un salto ora da loro, tanto mi serve un secondo,  poi posso tornare a quei mocciosi. 

   
 
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