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Autore: MoonLilith    11/06/2016    1 recensioni
« I grilli. Hanno ricominciato a cantare. »
Ascolto le sue parole, stesa sul letto accanto a lui, immobile, osservando il soffitto e le lucciole colorate e le fate incantate danzano nella mia mente, ed è come se le avessi davanti ai miei occhi. Ormai capita spesso di stare stesi così, a fissare il nulla e ad immaginare il tutto, in una silenziosa e reciproca compagnia, estremamente protettiva e confortante.
« Vorrei che lo facessero sempre. Vorrei che mi tenessero sempre compagnia, così come ora. Estate ed inverno. Col sole e le nuvole e la pioggia e il vento. Quando trattengo le lacrime e quando sento di non potercela fare un secondo di più con questa vita e quando sono talmente felice da sentire un fuoco dentro di me. Vorrei che ci fossero sempre. »
Un tocco leggero, esitante quasi: con le dita raggiungo il dorso della sua mano. E quando la nostra pelle entra in contatto sfiorandosi è come se delle scintille rosse, verdi, gialle e luminosissime si diramassero da quel punto percorrendo veloci le nostre braccia e i nostri corpi, ricordandoci che siamo davvero qui, che siamo vivi.
« Possiamo restare per sempre così, se tu lo vorrai. »
Genere: Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Lemon | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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I.

Genesis

 

Grilli.
Il loro frinire incessante e cantilenante e ossessionante.
Sono le tre di notte ed il silenzio della mia camera buia è rotto solo da quel canto ripetitivo eppure estremamente confortante.
In queste notti d'inizio estate i grilli sono i miei migliori amici. Una stridente e fatata compagnia. Si uniscono alle dita che veloci, compulsive, pigiano i tasti della tastiera usurata del PC dove lavoro. A volte sembrano quasi scandire il ritmo dei miei gesti. Si uniscono e si accompagnano abbracciandosi in una ritmica melodia, tinta dalle alientanti sfumature della luce artificiale del mio monitor.
La stanza è buia, per lo più.
I colori provenienti dallo schermo illuminano i profili dei pochi elementi che costituiscono l'arredamento essenziale della stanza: il panneggio delle lenzuola sfatte, il cuscino buttato in mezzo al letto, le sneackers ai suoi piedi, il comodino con bottigliette d'acqua e lattine vuote, una piccola lampada anonima, spenta, i profili dei poster e delle foto e di qualsiasi foglietto di carta strappato, stampato, raccattato, disegnato fisso al muro sopra l'angolo del mio -scarso- riposo e sulla mia postazione di lavoro.
Le mie mani e il mio viso invece sono completamente invasi da questa luce psichedelica, che diventa verde acido, blu violetto, fucsia e bianco azzurrino, e fa diventare le mie dita degli stessi colori, facendole sembrare più delle creaturine fatate che si divertono a danzare su quei tasti con le lettere ormai scolorite ed illeggibili.
E mentre la mano sinistra è lì, che danza a ritmo della melodia gentilmente offerta anche oggi dai grilli violoncellisti e percussionisti, la destra traccia linee, macchie di colore, scie di vita e di luci e di fumi suggestivi, sulla superficie un po' consunta, graffiata qua e là, della tavoletta su cui lavoro passando la maggior parte del mio tempo.
A volte penso davvero che tutto quello che immagino possa prendere vita, da un momento all'altro, illuminata dalla magia che aleggia nell'aria.
Sono a Los Angeles, d'altronde.
Los Angeles è permeata di follia ed incanto, in ogni sua strada, ogni suo volto, ogni sua palma rigogliosa ed in ogni sfumatura elettrica del suo cielo, dei granelli di sabbia, dei vicoli miserevoli e angusti, delle colline che ancora ascoltano e incanalano gli echi mistici delle popolazioni che in passato abitavano queste terre.
E a me sembra di sentire tutto questo, ogni giorno, ogni notte sopratutto.
Questa è la città che io ho scelto, la città dove io ho deciso di fuggire, di rintanarmi, di sperare, di sognare.
Ed ogni mia traccia di colore, scandita ritmicamente da quei grilli durante le loro jam sessions notturne, è una piccola parte di me e dei miei sogni.
E posso vederle danzare e prendere vita.
Linea dopo linea.
Pennellata dopo pennellata.
Sorso dopo sorso.
A proposito di sorso. La mia mano di stacca all'improvviso dalla tastiera, distruggendo in un secondo la danza delle fate dai colori psichedelici, correndo veloce verso la lattina di Redbull più vicina.
L'incanto si spezza totalmente quando, sollevandola, mi rendo conto che è troppo leggera. Strabuzzo gli occhi, come a riprendermi improvvisamente da un profondo stato di trance. Dietro gli spessi occhiali a fondo di bottiglia le mie palpebre si aprono e si chiudono più volte, frenetiche, come a voler mettere a fuoco i profili di tutto quello che mi circonda, turbate dal passaggio dalle luci intense dello schermo all'oscurità del resto della stanza.
Giurerei che per un secondo anche i grilli abbiano smesso di frinire. Ma quella è sicuramente solo la mia -fin troppo fervida- immaginazione.
Ripiombata nella mia miserevole realtà porto subito la lattina alle labbra e quando riesco a ricavarne solo una goccia di liquido zuccherino la agito spazientita, per accertarmi davvero della cruda, terribile verità: ho finito le bevande energizzanti.
E per chi è a pochi giorni da un'importantissima consegna di lavoro non potrebbe esserci realizzazione peggiore.
La poso con poca delicatezza sulla scrivania, in un fortuito angolo vuoto e non invaso da penne, matite, fogli, tazzine di caffè vuote, controller per giocare e cuffie gigantesche.
Sento improvvisamente la necessità di stiracchiarmi e di sgranchire le gambe che, come al solito quando lavoro e assumo le mie posizioni ai limiti del normale, si sono addormentate e ora formicolano fastidiosamente, e sembrano due macigni pesantissimi che non riesco a controllare.
« Oh, andiamo. » borbotto spazientita mentre porto i piedi sul pavimento fresco ed inizio a schiaffeggiarmi i polpacci, come a volerli svegliare dal loro intorpidimento immobilizzante.
Mentre pian piano cerco di riprendere totale controllo delle mie facoltà motorie, con la stessa leggiadria di un pinguino mi dirigo velocemente verso il piccolo bagno del mio bilocale silenzioso, scossa dalla brusca necessità di dover fare pipì.
Mentre lavoro mi concentro e mi perdo talmente tanto che, a volte, è come se smettessi di sentire ogni bisogno fisico. Non sento le gambe che si addormentano, o il sedere che fa male, la fame e qualsiasi richiamo biologico. Solo quando la magia si spezza, per un motivo o per un altro, tutti i miei malus iniziano a farsi sentire prepotenti.
Sì, tipo quelli di un personaggio di un gioco di ruolo, affetto da Lentezza o Ciecità.
O tipo le barre dei bisogni di qualcuno di quei giochi di simulazione della realtà.
Lavorando per l'industria dei videogames ormai da tempo non riesco più a fare a meno di associare qualsiasi cosa ad un aspetto videoludico. Ed è anche il motivo per cui mi trovo in questa città che si presta benissimo per essere l'ambientazione di un videogioco, di quelli che iniziano dandoti sensazioni rassicuranti e confortevoli e poi all'improvviso ti prendono e ti lanciano come una catapulta in un'alienante realtà alternativa.
Ma ora non c'è nessun videogioco o realtà alternativa che tenga: ora il mio bisogno primario è solo quello di infilare un paio di shorts di jeans e le sneackers sotto la mia t-shirt col logo dell'azienda per cui lavoro -annodata all'ombelico perché di qualche taglia più grande, e oggi fa veramente troppo caldo-, il cappellino rosa shocking con la visiera, togliere i fondi di bottiglia per far riposare un po' gli occhi ed uscire di corsa nella notte di Los Angeles per conquistare due o tre lattine di energizzante.
Linfa vitale per affrontare la notte di lavoro, sono come le mie pozioni per il Mana.
Esco di casa e imbocco subito Washington Ave, diretta verso il lungomare e il Palisades Park, dove so per certo essere presente un distributore di bevande 27/7.
Appena arrivata su Ocean Ave non sembra neanche di essere a notte inoltrata, visto il traffico di automobili che costeggiano la spiaggia, anche se meno del solito.
L'umidità del mare è spesso pesante e soffocante, sopratutto durante le ore notturne, e rende la mia pelle appiccicosa e fastidiosa da sentire addirittura per me stessa. Fa venire voglia di spogliarsi non solo dei propri vestiti ma anche dello stato superficiale del proprio corpo e dei pensieri più martellanti e seccanti. Per fortuna questa notte c'è una leggera brezza che smorza un po' questa cappa pesante che sa di sale e di placida, presente sovranità che il Pacifico sembra volerci ricordare ogni giorno.
La brezza profuma di vita e cambia fragranza ad ogni nuovo soffio, prima trasportando profumi di dolci e pietanze appena sfornati, poi di incensi pungenti e persistenti, poi di note che sanno di bellezza e ricchezza sfrontata, sfrenata, costose ed irraggiungibili.
È questo che amo di questa città: la sua continua mutevolezza. È come se fosse ogni momento un posto diverso eppure sempre lo stesso.
Trotto velocemente verso il distributore nei paraggi del The Bungalow, superando California Ave.
Se nei paraggi del locale vi è raccolta una folla vivace di gente, illuminata dalle luci calde e avvolgenti provenienti dall'interno, nelle vicinanze del distributore si sprofonda nella calma e solitudine più totali, con le ombre nette proiettate drammaticamente dall'illuminazione fredda e asettica dei lampioni di strada.
Ma questa sera la solitudine non è decisamente la più totale, quella che di solito piace alla sottoscritta.
C'è un'ombra proprio davanti al mio distributore notturno, che armeggia con fare annoiato.
Tamburella le dita lentamente, sulla gamba, il braccio ciondolante, mentre tra le dita dell'altra rigira svogliatamente una monetina.
Sono ancora lontana mentre sistemo il berretto, pressando la stoffa il più possibile sulla chioma lunga, castano scuro, che fuoriesce raccolta in una coda disordinata, cadendomi sulle spalle e sulla schiena. Con la visiera cerco di nascondere il più possibile il volto, ma in modo che i miei occhi color nocciola guizzino sospettosi verso quella figura, liberi di studiarla.
Intanto nella mia mente si susseguono incessanti e veloci le stesse parole.
Vattene
Vai via.
Vattene vattene vattene.
Come un lupo a cui è stato invaso il territorio, stringo le labbra ed inspiro profondamente, studiando il nemico.
Sono una persona abitudinaria. Forse in modo quasi paranoico. Ripeto gli stessi movimenti in modo ossessivo-compulsivo. Quando qualche interferenza mi sconvolge i piani, di qualunque natura sia, per me è un nemico. Nemico della fragile stabilità che ho costruito lentamente in ogni mio gesto ed abitudine.
Mi avvicino ancora, i miei passi si fanno sempre più lenti, diffidenti.
A pochi metri mi fermo completamente, aspettando, apparentemente tranquilla. In realtà mi ritrovo con la mano in tasca a fare esattamente lo stesso movimento del ragazzo, con le mie monete, solo con una punta in più di nervosismo e velocità.
Lui sembra prendersela con comodo. Sospira, tamburella ancora, e la stoffa dei suoi pantaloni sportivi grigi si muove a ritmo, insieme ai piedi e, probabilmente, ad una melodia che sta intonando distrattamente, a bassa voce, ma che io non posso udire a causa della distanza e dei rumori ambientali che ci circondano.
Guardinga sposto lo sguardo dalle mani al viso, quasi completamente invisibile dalla mia posizione. I capelli sono scuri, non eccessivamente corti, scompigliati e ribelli, così come il filo di barba incolta. La t-shirt è semplice e nera. Anche i suoi occhiali da sole sembrano neri.
Occhiali da sole?
Alle tre di notte.
Allarme, allarme.
Notare quel dettaglio completamente fuori luogo ha fatto svegliare ancora di più i miei sensi di ragno, quindi m'irrigidisco un pelo di più.
Come se io poi avessi qualcosa da dire, nascondendomi dietro la visiera di un cappellino prodotto, in teoria, per schermare i raggi solari e non certo i fasci di luce dei lampioni notturni invasi da insettini volteggianti.
Il tempo passa, e sembra veramente tantissimo. Anche io inizio a martellare col tallone sull'asfalto, impaziente.
Ad un tratto vengo scossa dallo squillo del suo cellulare, che prontamente tira fuori dalla tasca e porta all'orecchio. Ora gli vedo solo il dorso della mano e il retro dello smartphone.
Lo sento borbottare qualcosa. Ha una voce bassa, un po' roca.
« Sì, sto per rientrare. Sì. Non tardo. » sono le uniche parole che riesco a cogliere prima che, con uno sbuffo abbastanza sonoro da risultare spazientito, riagganci e rimetta il cellulare in tasca.
Quando però lo vedo ritornare a fissare il distributore, come se più che voler comprare qualcosa stesse cercando distrazione nell'analisi dei loghi e delle etichette, con uno slancio di stizza mi avvicino, prepotente, e lo spingo leggermente via, riconquistando tronfia il totale possesso del mio distributore notturno d'emergenza.
« Permesso. » sbotto, concedendogli questa gentilezza, nonostante il mio cuore inizi a galoppare.
Ogni volta che prendo d'istinto una decisione simile mi ricordo sempre troppo tardi che sono sola, in una città che non conosco e che potrei appena aver fatto uno sgarbo ad una persona pericolosa. Ed insomma, non c'è tanto da fidarsi di chi alle 3 di notte va in giro per Los Angeles con degli occhiali da sole.
« Ehi! » esclama lui di rimando, voltandosi verso di me, mentre si scosta. « Ma ti sembra modo? »
Il mio orecchio straniero eppure ormai abbastanza allenato al classico accento californiano coglie una cadenza che non è decisamente autoctona. Non è difficile distinguere noi stranieri dalla classica e sbracata parlata di Los Angeles.
Solo quella curiosa peculiarità mi invoglia a sollevare abbastanza il viso -e devo piegarlo abbastanza, perché nonostante io non sia bassissima lui è decisamente più alto di me- da superare la protezione della visiera e guardarlo in volto. I suoi occhi sono ancora coperti dagli occhiali da sole.
Assottiglio appena le palpebre, perché ha un aspetto decisamente familiare.
Ma poco conta al momento, visto che la mia priorità massima è l'accaparrarmi un paio di lattine di Redbull e filare di nuovo a casa a lavorare.
« Eri qui davanti da mezz'ora. Magari la prossima volta togliti gli occhiali da sole, riuscirai a leggere le etichette e capire che cosa vuoi comprare. » sbotto frettolosamente, agitata, mentre inserisco tre o quattro monete da un dollaro e con totale confidenza pigio il codice della bevanda energetica.
« Ma... » inizia lui, fermandosi qualche secondo, probabilmente confuso. « Santo cielo, quanto sei acida. Guarda che basta chiedere. E poi direi che non sono affari tuoi come decido di andare in giro. Miss-berretto-con-la-visiera. » continua poi, palesemente contrariato, ma con una punta di divertimento, parrebbe.
Resto in silenzio, digitando lo stesso codice un altro paio di volte, lasciando cadere le lattine e chinandomi poi a raccattarle.
Sì, lo so, ha ragione.
È solo che a volte, forse per troppa paura, ho delle reazioni istintive ed eccessive. E infantili. Fortunatamente per ora mi è sempre andata bene. Anche lui sembra solo alterato ma mi sembra innocuo.
Mentre sto per replicare con una risposta estremamente tagliente e sagace tipo “gnegnegne” inizio a sentire degli strani urletti provenienti dal The Bungalow.
Probabilmente il rumore del distributore e il nostro brevissimo ma nervoso scambio deve aver attratto l'attenzione di qualche avventore del locale. O, per meglio specificare, avventrice.
« Oh, merda... » sibila lui, voltandosi in direzione delle voci.
Per un attimo il suo corpo freme, quasi avesse la necessità impellente di prendere e darsela a gambe.
Io spalanco appena gli occhi, confusa, indietreggiando di due passi, mentre un gruppetto di cinque o sei ragazze si avvicina velocemente, continuando a starnazzare in modo estremamente fastidioso.
Lui stringe le labbra un attimo, soffia dal naso con palese disagio, ma poi cambia all'improvviso: le sue labbra s'increspano in un sorriso ampio, rivelando sopratutto la fila di denti superiori perfetta e bianchissima.
Strabuzzo un attimo gli occhi.

È come se si illuminasse di una luce ultraterrena. Solleva gli occhiali da sole sopra la testa, mentre le ragazze ci raggiungono e, senza rivolgermi neanche un'occhiata, lo circondano ed iniziano a farfugliare cose senza senso, ed io non mi sforzo certo di capire.
Mentre qualcuna di loro tira fuori penne e foglietti, lui sorride, risponde, le accarezza con lo sguardo.
Gli occhi.
Vedo i suoi occhi ora. Resto immobile ad osservare due pietre color onice, grandi e lucenti, incastonate nelle palpebre che, tese nel sorriso, sono diventate due mezzelune furbe ed intriganti.
Il mio sguardo per un attimo si posa su queste ragazze, tutte tirate a lucido, coi capelli ed il trucco perfetti, nei loro vestitini brillanti e cangianti e pieni di allegria.
Intanto i miei piedi, ben protetti dalle mie sneackers logore e un po' scolorite, indietreggiano ancora di un passo.
Quel movimento attira l'attenzione del ragazzo, che per pochi istanti solleva lo sguardo verso di me.
E per la prima volta i miei occhi nocciola incontrano i suoi, cupi eppure estremamente espressivi.
Inspiro sussultando appena, in un movimento impercettibile, e per quei secondi il mio fiato si congela. In questa notte estiva ed afosa di Los Angeles, per quei secondi, avverto un brivido di freddo.
Sostengo lo sguardo, ma per poco. È troppo intenso. È troppo pungente.
Sta cercando di comunicarmi qualcosa.
Aiutami?
Salvami?
Ma chi, io?
Ma io non posso.
Io ho paura di tutto.

Stringendo in braccio le tre lattine come fossero tre figlioletti, con la mano destra di nuovo vado ad abbassare la visiera del cappellino. A spezzare quello scambio di sguardi. A proteggermi dal mondo, dalle persone, da qualsiasi tipo di contatto.
Forse me lo sono solo immaginato. In fondo io immagino fin troppe cose.
Gli volto le spalle e inizio a correre via, ad allontanarmi da quella situazione troppo alientante, troppo fuori dalle mie abitudini e dai miei standard.
Scappo via, imboccando California Ave, e mi sembra quasi di essere inseguita da uno sguardo fin troppo curioso, che riesco a scrollarmi di dosso solo quando, di nuovo, gli unici rumori che mi circondano sono prima le chiavi nella toppa di casa e poi il silenzio della mia stanza, il ronzio accogliente del computer, e la ritmica danza dei miei grilli violoncellisti.
A Los Angeles può succedere di tutto.
Los Angeles è la città dei sogni e della magia.
E nonostante sia stato tutto estremamente breve e veloce ed incomprensibile, mentre poggio lentamente le lattine sulla mia scrivania mi rendo conto che quel viso fa già parte di un sogno che è volato via insieme ai bagliori della notte.

***

Se leggi queste parole, grazie mille! 
In questa fanfiction c'è tantissimo di me. Scrivo per la necessità di distrarmi, svagarmi un po' dagli impegni e le consegne imminenti, quindi è come se volessi portare me stessa in un'altra realtà, rifugiandomi nella mia fantasia per un paio d'ore.
Non sono una scrittrice e probabilmente il testo è pieno di errori ed incomprensioni: è scritto di getto nei momenti in cui sento il bisogno di dover portare su 'carta' le immagini che ho in mente.
Ogni capitolo avrà il nome di una canzone specifica che ho ascoltato mentre scrivevo; in questo caso è Genesis, dei Grimes. Ascoltala se hai voglia, mi farebbe molto piacere, credo aiuti ad immedesimarsi nelle mie visioni un po' disordinate.
Lasciami pure un pensiero, una correzione, un suggerimento: ribadisco di essere una scrittrice saltuaria e seppur appassionata compio sicuramente una marea di errori.
Non vedo l'ora di continuare. 

Grazie per aver letto fin qui.

Ellie~

   
 
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