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Autore: Dobhran    13/06/2016    1 recensioni
Si avvicinò per sussurrarmi nuovamente nell'orecchio, a bassa voce come per rendere quella conversazione il nostro sporco segreto. «Lui ti ha fatto delle promesse che non può mantenere, assicurandoti che ti proteggerà. Io invece sono un uomo di parola e ti faccio la mia promessa: ti ucciderò. Non so come, non so quando, ma so per certo che morirai. Non ti lascerò tregua, ti tormenterò, ti farò soffrire e soprattutto farò soffrire lui che guarderà la sua protetta spegnersi per colpa sua».
- La distrazione di una sera e Amber si trova a dover affrontare un pericolo più grande di lei, un predatore spietato e all'apparenza imbattibile. Impaurita, isolata e incapace di distinguere gli amici dai nemici, la realtà dall'incubo, Amber sarà spinta al limite delle proprie forze. Ad aiutarla, un ragazzo misterioso e dall'aria innocente che afferma di essere qualcosa in cui Amber non ha mai creduto. In fondo, angeli e demoni sono solo frutto di sciocche superstizioni popolari...giusto? -
Genere: Romantico, Sovrannaturale, Thriller | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza
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Buongiorno a tutti. Molto tempo è passato dall'ultima volta in cui ho scritto e pubblicato e mi auguro di essere migliorata almeno un po' da allora. Torno a postare qualcosa di mio nella speranza di poter combattere il famoso e fastidioso "blocco" che mi afflige da un po' e che mi porta a cadere quotidianamente vittima della procrastinazione. Ogni vostro eventuale commento, positivo o negativo, potrebbe essere fondamentale per farmi capire dove posso migliorare, poiché so che di strada da fare ne ho ancora moltissima. Dunque, se per caso vi capita di leggere, lasciate qualche commentino per dare nutrimento alla mia piccola e a volte sopita anima di scrittrice. Ve ne sarò grata. Per ora, buona lettura a tutti coloro che vorranno seguirmi. :) 
















L’OTTAVO GIORNO








Osservate le mie leggi e mettetele in pratica. Io sono il Signore che vi santifica. Chiunque maledirà suo padre e sua madre sia messo a morte: ha maledetto suo padre e sua madre; il suo sangue ricada sopra di lui.
Levitico, 20, 8-9.





1.




Sedevo al tavolo della cucina, masticando malvolentieri un insipido biscotto ai cereali e accompagnandolo di tanto in tanto con del succo d’arancia, giusto per dargli un po’ di vita. Il risultato fu addirittura peggiore, ma se non altro più facile da deglutire.
Mi focalizzai sui suoni abituali della casa per ignorare quelli estranei e molesti che stavano riuscendo a rovinarmi l’umore. Il ticchettio incessante dell’orologio affisso al muro scandiva la rapida corsa dei secondi, mentre da qualche parte all’esterno di casa mia, già da qualche ora gli uccellini facevano a gara a chi cantava più forte.
Buttai giù in fretta il resto della colazione e guardai mia madre di sfuggita da sopra la spalla, seduta al lungo tavolo di legno lucido e scuro che riempiva la sala da pranzo. A gambe strette, con le sole punte dei piedi che toccavano terra e adagiata sul bordo esterno della sedia, sembrava non aspettasse altro che qualcuno desse il via ad una gara di velocità. Persino il suo corpo parlava, involontario dispensatore di utili indizi sul suo stile di vita. L’impulso di spezzarle davanti al naso la penna che picchiettava senza sosta sull’agenda mi fece prudere le mani.
In casa mia l’importanza della comunicazione non verbale era enorme, se si trattava di dover interpretare ciò che passava nella strana mente di mia madre. Non accadeva spesso che avesse molto tempo libero da passare in casa, esclusa la notte, ma quando mi ronzava intorno era difficile che se ne stesse buona senza produrre un qualche tipo di rumore capace di logorare i nervi. Sembrava volesse assicurarsi che avessi notato la sua presenza. Aveva una capacità di irritarmi che poteva essere definita talentuosa, con i suoi sguardi, i sospiri e i movimenti del volto, sempre carichi di una forza espressiva che avevo imparato a cogliere con il passare degli anni.
In quel momento il suo viso era teso, lievemente contratto in una smorfia di disapprovazione per qualcosa che non conoscevo e che non volevo sapere. Le labbra erano strette in una linea rosa, la fronte pallida e priva di imperfezioni era solcata da una ruga quasi impercettibile, ma molto eloquente. Era visibilmente in pensiero per qualcosa che, senza alcun dubbio, riguardava il suo lavoro.
Sfogliò l’agenda, muovendo rumorosamente i fogli e riprese a picchiettare la penna, senza cogliere minimamente l’ostilità del mio sguardo. Passandole accanto gettai un’occhiata fuggevole ai fitti appunti che stava consultando con aria preoccupata. Da quella distanza non riuscii a comprendere nemmeno una parola, sebbene la sua grafia fosse molto curata, non era tuttavia difficile immaginare che stesse cercando di far quadrare i suoi appuntamenti di lavoro. Con tutte le cose che si ostinava a fare in una giornata, mi chiedevo come trovasse il tempo per nutrirsi, andare al bagno, o anche solo respirare con un po’ più d’intensità rispetto al solito.
Mi gettai di peso sul divano e accesi la TV, sebbene non fossi particolarmente interessata a ciò che il palinsesto delle sette e mezza di mattina potesse offrirmi. Anche volendo avrei fatto fatica a concentrarmi su qualcosa di serio, con lei che faceva casino con quella dannata penna.
Era proprio quello il suo metodo infallibile per far capire a chi le stava accanto che qualcosa non procedeva nel modo giusto, o meglio, che non stava andando tutto secondo i suoi calcoli. Qualcosa di estremamente raro, perché lei otteneva sempre ciò che voleva. Le manifestazioni della sua ansia erano molteplici, ma tutte altrettanto efficaci: se era in cucina, spostava pentole (totalmente a casaccio, dato che era parecchio tempo che non cucinava qualcosa di più impegnativo del pane tostato), oppure schiaffava qualcuna delle sue assurde riviste di economia o legge sul tavolo, come se pensasse di dover riempire i silenzi degli altri o il vuoto della casa con il chiasso della sua inquietudine.
Passai di canale in canale senza davvero prestare molta attenzione a nessuno dei programmi, e gettai un grido mentale di liberazione quando dalle mie spalle non giunsero più fastidiosi picchiettii. Senza voltarmi ascoltai mia madre alzarsi dalla sedia e percorrere a passi rapidi la casa, diretta verso l’armadio accanto alla porta d’ingresso. Ero sicura che stesse per indossare il soprabito panna e l’elegante borsetta in pelle dello stesso colore, in tinta con la maglia e in preciso contrasto con i pantaloni neri dal taglio morbido e le costose scarpe col tacco alto.
Distolsi lo sguardo dallo schermo, giusto per controllare se le mie intuizioni fossero azzeccate e sorrisi nel pensare a quanto fosse prevedibile quella donna. Mal interpretando il gesto, lei sorrise di rimando, sfilandosi i capelli biondi da sotto il colletto del soprabito. Assomigliò più a una smorfia che a qualcosa di gentile.
«Sarò fuori città, oggi. Ho un volo fra poco ed è possibile che stasera faccia tardi. Te la cavi?»
Possibile per lei significava sicuramente, così come te la cavi, voleva dire arrangiati, nutriti, intrattieniti da sola e non combinare guai.
«Posso farcela».
«Non lasciarmi nulla per cena, mangerò un boccone al volo».
Mi sentii in dovere di puntualizzare. «Esco anche io stasera, perciò potrei fare più tardi di te».
Poco ma sicuro. Io e i miei migliori amici lo avevamo pianificato almeno un mese prima e, come loro, anche io non stavo più nella pelle.
Mamma non disse nulla per parecchi secondi, tanto che dopo qualche istante cominciai a sospettare che non mi avesse nemmeno sentita. Mi sporsi oltre lo schienale del divano, un braccio appoggiato alla stoffa scura, per assicurarmi che lei fosse ancora presente, ma il suo viso era assorto in qualcosa che non riguardava sua figlia. Le dita sottili e pallide si muovevano rapidamente sulla tastiera del cellulare e subito dopo, notando il mio sguardo interrogativo, mi fece segno di tacere e si portò all’orecchio il ricevitore.
«Catherine, buongiorno» esordì con voce ferma, rivolgendosi a Catherine Dobson, la sua segretaria. Alla mente mi tornò il viso della giovane donna, dai lineamenti marcatamente orientali che mi avevano inizialmente messo in soggezione quando mamma ci aveva presentate. Quando però mi aveva regalato un sorriso dolce mi ero sentita in colpa per essermi fermata alla prima impressione e mi ero chiesta come fosse possibile che lei e mia madre respirassero la stessa aria.
«Confermi l’appuntamento con Seymour per questo pomeriggio?»
Durante la pausa che seguii mi parve quasi di sentire il rumore del cervello di mia madre muovere i suoi ingranaggi in un lavorio incessante, come se agissero ad una velocità maggiore rispetto agli altri esseri umani, e le risposte pronte di Catherine, la sua voce calma ma decisa, così distaccata quando si trattava di lavoro e così piacevolmente tinta di emotività nei rapporti personali.
Con orgoglio mi aveva raccontato che suo padre era californiano e sua madre giapponese e che lei si sentiva americana tanto quanto asiatica. Questo di lei mi era piaciuto molto, il perfetto connubio tra due culture apparentemente così diverse. Tutto in lei era armonia ed equilibrio, non solo ingannevole vanità, che invece ero solita leggere negli atteggiamenti di mia madre.
Mamma mormorò qualche parola di ringraziamento dopo una breve conversazione, poi mi rivolse uno sguardo indifferente.
«Hai detto qualcosa?» Fece, come se si fosse resa conto solo in quell’istante di non essere sola in casa, o come se si stesse lamentando di avere una mosca fastidiosa che le ronzava intorno.
«Ho detto che sarò fuori questa sera» mormorai, resistendo all’impulso di alzare gli occhi al cielo. Lei non disse nulla per qualche secondo, impegnata a riporre nella borsetta l’agenda e la penna, sapevo però che ci stava pensando su. Aveva certamente capito che non cera bisogno di chiedermi chi mi avrebbe accompagnata. Se gli esseri umani avessero potuto avere due ombre, i miei migliori amici, Louis e Jennifer, sarebbero state le mie. Dopo due interminabili secondi di riflessione e silenzio, alzò nuovamente lo sguardo su di me, con un’espressione severa.
«Non me ne hai parlato. Dove andate?»
«In un locale nuovo a qualche chilometro da qui. Niente di speciale» mentii.
Era vero che non era lontano, ma dire che non era niente di speciale era una sorta di bestemmia. Avevamo trovato i volantini con l’annuncio dell’apertura del Mephisto in un posticino dove andavamo spesso a farci un trancio di pizza, e la promessa di un posto a tema infernale ci aveva elettrizzato, scatenando la nostra fantasia. Non potendo chiedere in giro di che si trattava, dato che l’inaugurazione sarebbe stata solo quella sera, Louis aveva passato giorni e giorni fantasticando su ciò che avremmo trovato, facendoci venire il mal di testa.
«Che significa a pochi chilometri da qui? È un posto che conosco?» insistette mia madre.
«Non è un sofisticato ristorantino che dispensa caviale a prezzi esorbitanti a ricchi snob. Quindi no, direi di no. E poi, come ho detto, apre questa sera per la prima volta». Sperai notasse la frecciatina, ma il suo viso non fece una piega.
«Dove?»
«Perché tutte queste domande, ti ho già detto che è vicino. È a SoMa, comunque» mormorai, esasperata dalla sua intrusione illegittima. Passava la maggior parte del tempo fuori casa, perciò avrei gradito che si limitasse a dirmi Certo cara, vai pure e divertiti, senza questionare. Il mio obbiettivo per quella sera era di passare al meglio i miei primi giorni da persona libera. Completamente libera e diplomata da pochi giorni, e con nessuna preoccupazione se non quella di decidere come vivere il mio immediato futuro.
Le mie speranze furono infrante quando notai la piccola contrazione all’angolo della sua bocca non appena pronunciai il nome del distretto.
Idealmente San Francisco poteva essere divisa in un reticolo di tante piccole aree, dette distretti, ognuno con il proprio nome e per la maggior parte dei casi ognuna con la propria caratteristica o cultura. Parlando di San Francisco era impossibile ignorare il suo carattere multi etnico e di conseguenza era anche difficile tralasciare le sue stranezze.
SoMa era una di quelle. Il suo nome contratto stava per South of Market, ricalcato sulla forma abbreviata SoHo di South of Huston a New York City.
Sia alla luce del sole che verso sera, SoMa brulicava di attività di ogni sorta, un punto di incontro per turisti e abitanti del luogo. Non erano pochi gli svaghi culturali che poteva offrire, uno tra tanti, il San Francisco Museum of Modern Art, oppure il Cartoon Art Museum, dedicato ai cartoni animati e ai personaggi di animazione famosi. C’ero stata tante di quelle volte con papà che lo conoscevo quanto conoscevo casa mia.
Di notte non perdeva il suo fascino, ma la cultura lasciava maggior respiro al divertimenti, con locali di diverso genere, ristoranti, e nightclub.
«In tutta franchezza, Amber, non mi sembra una buona idea che tu frequenti quei posti». Finalmente mia madre mi espresse direttamente i suoi pensieri, anche se dall’espressione perplessa che aveva assunto appena nominatogli il distretto non mi era stato difficile prevederli.
«Perché no?»
«Perché non è una zona adatta a te e credo che i genitori di Jennifer e Louis sarebbero della mia stessa opinione. Sempre che i loro figli non si siano comportati come hai fatto tu con me, tenendomi all’oscuro di questa tua decisione».
«Loro lo sanno e non hanno nulla in contrario se stiamo tutti e tre assieme. Siamo in compagnia, non correremo alcun rischio! E come sarebbe a dire che non è una zona adatta a me? Mi credi così ingenua?» La mia voce era già tinta di irritazione, sebbene non fosse l’atteggiamento giusto da tenere con una persona come mia madre. Più mi dimostravo toccata sul vivo, più lei si convinceva del fatto che ero dalla parte del torto.
Scosse la testa con un sospiro esasperato che mi parve fuori luogo visto che stavamo affrontando quella conversazione solo da pochi minuti.
«Non fraintendere qualsiasi cosa ti dico, Amber, per favore. Sei una ragazza giovane e attraente e quelle sono zone della città in cui verso sera si trovano in giro persone poco raccomandabili».
Serrai i denti per combattere l’impulso di alzare la voce, cosa che avrebbe solamente peggiorato la situazione. «Te l’ho detto, siamo in tre».
«Non è una grande garanzia se la tua scorta è formata da Louis e Jennifer. Non sono esattamente due persone dall’aria minacciosa. Louis non farebbe paura a nessuno nemmeno sforzandosi e quella ragazza, non sa nemmeno da che parte giri la terra. Senza offesa».
Non l’avrei ammesso a voce alta, ma le sue parole avevano un fondo di verità. Nemmeno io, con il mio metro e cinquantatré d’altezza e il fisico gracile davo l’impressione di sapermi difendere.
«Siamo in una grande città, le persone sbagliate si possono incontrare ovunque, anche in un parco per bambini. Basta solo fare attenzione, dovresti fidarti un po’ più di tua figlia, non credi?» tentai di ribattere, con la rabbia che mi gettava fastidiose vampate al viso. Mamma si sistemò la borsetta sulla spalla con l’aria di una che aveva deciso di punto in bianco di troncare a metà la conversazione. Sapevo che stava per regalarmi una delle sue tante frasi fatte.
«Non è che non mi fido di te, non mi fido della gente che si trova per strada. Drogati, barboni e delinquenti d’ogni sorta» caricò ogni parola con una dose di disprezzo che mi parve eccessiva. Resistetti all’impulso di insultarla, nonostante le parole premessero sulla lingua per uscire e fare male. Detestavo il modo in cui metteva sullo stesso piano individui che lei riteneva inferiori ai suoi standard. Era probabile che nella categoria fossi inclusa anche io.
Lottai per mantenere la calma e ragionare lucidamente su come aggirare il discorso e volgerlo a mio favore, senza dover litigare. Tirai in ballo il diploma, le mie esigenze di svago e il desiderio di non deludere i miei amici, che contavano su di me per poter avere un’ottima serata, ma ogni mio tentativo di difesa a nulla valse contro il suo viso di marmo. Si spostò all’ingresso, accompagnata dal rumore dei tacchi di tanto in tanto attutiti dal tappeto e intenta, come faceva sempre, a osservare la sua immagine riflessa nello specchio appeso sulla parete accanto alla porta. Con le dita si sistemò alcuni ciuffi biondi che già erano perfetti così.
«Per favore» aggiunsi, sperando ardentemente di fare breccia nel suo cuore, sempre che ne avesse uno, sperduto da qualche parte nel petto.
«Niente discussioni, Amber. Ho già detto quello che penso e non amo ripetermi, perciò trova un’alternativa per passare la serata. E la prossima volta gradirei essere informata in anticipo sulle tue intenzioni, visto che fino a prova contraria sono tua madre. Di queste cose devi discutere prima con me».
Aveva detto bene, fino a prova contraria. Ne avevo a bizzeffe di prove che confutavano le sue convinzioni di essere la madre dell’anno, che altri avrebbero potuto confermare. Conosceva meglio il suo ufficio che casa sua e pretendeva di governare la mia vita?
Capii che andare avanti con quel discorso era autodistruttivo, perché difficilmente avrei resistito alla voglia di dirle in faccia molte cose che pensavo di lei e della sua maniacale fissa di controllare tutto e tutti. Strinsi i pugni e dalle labbra mi uscii un sospiro strozzato, mentre lei impugnava le chiavi della sua auto e nel mio animo si faceva strada la terribile ipotesi di mollare e dargliela vinta anche stavolta.
Il tappeto all’entrata fu tagliato da una lama di luce che penetrava dall’esterno, piccolo indizio di ciò che poteva offrire quella magnifica giornata di fine giugno. Mi salutò, promettendomi che mi avrebbe chiamata non appena avesse avuto un minuto di tempo libero, poi si chiuse la porta alle spalle, soffocando la luce del sole.
Con tutta probabilità non si sarebbe fatta sentire.
Rimasi in piedi, lottando contro la collera, contro il fallimento e l’impotenza dei miei diciotto anni rispetto alla sua autorità e al suo titolo immeritato di madre e tutrice.
Merda! Mi passai le mani sul viso, accalorato per la frustrazione. Non era nemmeno la prima volta che bazzicavo per South of Market dopo il tramonto e non mi era mai successo nulla. La cosa più tremenda che era capitata era stata quella volta che mi ero seduta su una gomma da masticare su un muretto e non ne voleva più sapere di togliersi dai miei pantaloni, perciò perché preoccuparsi tanto? Ero abituata a cavarmela da sola, proprio come lei voleva che facessi. Gestivo la casa e mi occupavo delle faccende domestiche anche senza di lei.
Con un moto di rabbia mi chinai, afferrai una delle mie ciabatte e la gettai con violenza contro la porta, immaginando di non avere ostacoli davanti a me e di colpire mia madre dritta sul quel faccino perfetto e glaciale. Mancai il bersaglio di quasi un metro e la mia umiliazione crebbe, facendomi sentire una vera idiota per quel gesto infantile. Di certo quella non era una vera dimostrazione di maturità.
Il rumore dell’apertura del garage interruppe i miei pensieri e insinuò nella mia mente un’idea. Tesi l’orecchio e rimasi in ascolto dell’auto di mamma che faceva manovra e si immetteva in 5th Avenue. La speranza rinacque in me mentre un proposito prendeva forma più definita nel mio cervello, dal lieve ed eccitante retrogusto di sfida.
Mi avvicinai all’entrata e tuffai le dita nel posacenere posto sul mobiletto accanto allo specchio. Nessuno in casa era fumatore o lo era mai stato, perciò da quando era stato acquistato quell’oggetto non aveva mai svolto il suo vero compito, un po’ come era accaduto per il maestoso tavolo nella sala da pranzo.
Con una stretta d’emozione allo stomaco, strinsi nella mano l’oggetto che avevo sperato di trovare, e come debole giustificazione, mi dissi che avrei preferito disobbedire a mia madre piuttosto che deludere le mie aspettative e quelle dei miei amici. Con qualche piccolo accorgimento lei non sarebbe venuta a saperlo e ad ogni modo, se proprio avesse voluto che facessi la brava, avrebbe dovuto almeno premurarsi di portare con se anche le chiavi dell’altra macchina.
  
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