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Autore: Alphabet Loser    13/06/2016    3 recensioni
E se lo lascio, lui che non ho mai posseduto, lo lascio per cosa? Per dove? Esiste un posto in cui potrei andare?
[2331 parole]
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Terza classificata al concorso "Per quando il dizionario non basta" indetto da Achernar_Ari sul forum
Genere: Introspettivo, Malinconico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna, Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Basata sul prompt "Ameneurosis: il doloroso allontanarsi di un treno che fischia perdendosi nella notte, a metà fra l'abbandono e il desiderio di fuggire."






 

Quando finisco di allacciarmi la scarpa e mi rialzo, barcollo, quasi cado. Mi rimetto in piedi e immagino la mia faccia stordita, capogiro emotivo. Che idiota. Non so nemmeno stare dritto. Se qualcuno mi vedesse probabilmente penserebbe che sono un giovane alcolizzato, e che magari sono venuto qui per drogarmi. Non sarebbe granché strano. Però l'alcol è amaro e mi brucia al fondo della gola, la droga mi spaventa e il fumo mi infastidisce. Odio le persone che ti soffiano il fumo in faccia. Odio le mie scarpe quando si slegano. Una, due, tre, quattro, cinque, sei assi delle rotaie di fronte a me. A volte mi metto a contare cose, ma non arrivo mai alla fine perché sono troppe. Ma in fondo a chi importa quante sono le dannate assi? Ogni tanto vorrei fumare solo per poter stringere le labbra con espressione stizzita mentre aspiro, grattarmi un sopracciglio o spostarmi una ciocca di capelli tenendo tra le dita una sigaretta che diventa sempre più corta, sempre di più, schiacciarla con la punta del piede sul cemento mentre un ragazzo non molto lontano da me mi vede e pensa che sono bello, mentre sfogo nella dipendenza da catrame e nicotina i miei problemi da adolescente triste e solo, un poeta maledetto che non sa scrivere. Triste e solo lo sono davvero, in effetti.

Odio le persone che lasciano le sigarette per terra (guardala, una poco lontano da me). E poi si lamentano delle industrie multinazionali quando sversano liquami tossici nei fiumi. Odio non saper riconoscere le costellazioni. Essendone però così attratto. Dovrei andare a vedere un planetario. Non uscire più. Restare lì per sempre. Farmi assorbire dal soffitto a cupola. Guardo verso l'alto e non vedo un sacco di stelle. Maledetta evoluzione, che inquina di luci artificiali i miei cieli e che con un banale cellulare mi permettere di far passare tutte quelle ore che trascorro chiuso in casa perché non fumo ma sono triste e solo. Qualche puntino bianco. Sarebbe molto bello pensare che Orione con la sua cintura veglia da sopra la mia testa e guida ogni mia scelta, anche quelle sbagliate. Ma anche ci fosse, nel cielo rumoroso sopra di me, nemmeno lo vedrei. Orione, se ci sei e se mi senti, Artemide ti ha amato molto. Avreste meritato una fine migliore, vi ho sempre shippati.

A mia madre ho detto che andavo a una festa di compleanno. Invece sono in stazione con le mani infilate nella tasca della felpa. Che cosa ci faccio, qui, in una stazione? Ho diciotto anni freschi, tra un anno mi diplomo e la festa di compleanno c'è davvero. Probabilmente c'è andato pure Alessio. Ale. Quello che è. Chissà di che colore è la sua maglia stasera. Potrei farci un salto, dire che prima avevo un po' mal di testa ma mi dispiaceva non passare nemmeno. Alla fine con alcuna gente ci vado d'accordo. No. Nessun salto da nessuna parte. Sto qui. A drogarmi dell'odore delle droghe passate di sconosciuti drogati. E a contare, quando mi viene voglia, le assi delle rotaie. A guardare le macchinette dei biglietti. Mi hanno sempre un po' affascinato. Perché sono un cretino. Potevo andarci, a 'sta festa. Potevo proprio. Le discoteche mi fanno schifo, ma questa era a casa della tipa, che mi costava. Mi costava l'imbarazzo, diciamo. Tanto so che alla fine sono sempre quello che fa diventare i cerchi delle Q. La gente parla, chiacchiera, io resto vicino ai loro gruppi, ma fuori, rido alle loro battute ma cerco di farlo il più piano possibile.

Però Alessio. Ha i capelli lunghetti e quando fa caldo si passa una mano dietro, sul collo. Adesso è quasi estate, ma è sera, anzi notte, quindi non è che faccia tutto 'sto caldo. Probabilmente non mi sono perso niente. Solo lui in generale.

Non mi era mai piaciuto, il nome Alessio, prima che incontrassi quell'Alessio lì. È sempre stato per me uno di quei tanti nomi che suona bene solo al femminile. E dire che però a lui è adatto sembra un po' brutto, ma credo sia vero. Alessio ha ridimensionato il suo nome.

Me lo immagino da solo che suona il basso sul suo letto, la casa vuota. I genitori... non so, al cinema. Credo sia figlio unico. Non suona in un gruppo, e me lo vedo mentre tocca piano le corde, spesse e metalliche, con dita che sanno quello che fanno. Non voglio essere le ragazze che ha toccato. Voglio essere quelle corde. Le chiavi che gira e rigira, in un senso e nell'altro, avvicinandosi alla paletta, quasi posandoci l'orecchio sopra. Ho sempre avuto un debole per i musicisti. Soprattutto per i musicisti che guarda caso sono lui. Che faccio? Lo lascio qui, questo musicista? Non l'ho neanche mai visto suonare. Mi prende una malinconia così forte, sono incredibilmente debole. E se lo lascio, lui che non ho mai posseduto, lo lascio per cosa? Per dove? Esiste un posto in cui potrei andare?
Ho dei soldi. Non so quanto costa un biglietto ma sicuramente mi bastano. Potrei farne uno. Per dove, però? Per dove? Non è così importante. Né troppo vicino né troppo lontano. Potrei scappare. I pochi soldi che ho in tasca mi danno la possibilità di farlo.

Alessio, però. So che lui non è niente, nemmeno per me. È solo uno di quei tanti ragazzi per cui alla fine della mia vita avrò provato qualcosa di strano e di forte. È solo un ragazzo un po' più alto degli altri, con i capelli un po' più lunghi, le dita forse un po' più sottili. Quando, sotto l'effetto di chissà quale sostanza stupefacente prodotta dal mio stesso cervello, penso di amarlo, vorrei prendermi a schiaffi. Non lo amo. Fingere altrimenti sarebbe ipocrita. Non mi sono mai innamorato. Quando succederà, però, immagino sarà abbastanza forte e sconosciuto da farmi venire la nausea e perdere l'equilibrio. Ma per ora Alessio è il viso che vedo di notte quando sto per addormentarmi, è la schiena che nei sogni ad occhi aperti guardando la lavagna accarezzo. Mi invento ogni volta piccoli particolari di lui. Un graffio sul fianco sinistro. Mi piacciono i graffi. I segni rossi induriti di poche gocce di sangue, che ti fai vivendo e non semplicemente esistendo come me. Non sa come se lo sia fatto. Forse ha sfregato contro l'amplificatore.

Poi sento il rumore del treno che arriva, e quasi mi sembra strano. Mi riscuote dai miei pensieri. Ho davvero molto poco tempo, adesso, per decider cosa fare. Sto davvero vagliando l’ipotesi di prendere e andarmene? Anzi, non prendere, in realtà. Partire senza portarmi dietro niente. Cos’ho qui? Una famiglia, quasi nessun amico, dei compagni di classe. Nessun segno da lasciare, nessun segno da interpretare. Cosa mi aspetta, a qualche chilometro da qui? Niente. Assolutamente niente. Forse è proprio questo che voglio. Il nulla. Patetico, infinito, accogliente, poetico nulla. Sarebbe divertente vedere le reazioni dei miei conoscenti. Ma hai sentito di quel ragazzo che è scomparso? Niente, una sera è uscito e non è più tornato a casa. Dev’essere scappato. Strano, però, era così tranquillo, timido. Ah, stronzi, beccatevi questa. Me ne vado. Fanculo tutti. Ho davvero voglia di farlo, però. Ritrovarmi in una città, prostituirmi o lavorare in un negozio di dischi, mangiare tutti i giorni al McDonald’s e dormire in un ostello, come nei film più indie e improbabili. Finché… non lo so. Non succederebbe niente. Temo.

Il treno appare all’orizzonte, in modo estremamente poetico. Ci manca solo un bel tramonto. Si ferma davanti a me. Un imponente verme di metallo. Una ragazza con la coda alta corre ridendo verso il vagone, un trolley alla mano. È rude il modo in cui le porte si chiudono dopo pochi secondi, una quantità irrisoria di tempo. Il capotreno mi stava guardando. Ma esito per migliaia di millesimi di secondo, e lui se ne va senza di me.

Il treno va via. Veloce, mi scompiglia un po’ i capelli. Alza un po’ di polvere. Va via senza di me. Mi ha lasciato lì, da solo, nella stazione. Almeno avesse fischiato, ‘sto bastardo. Come i treni vecchi, quelli d’epoca, con la bella locomotiva. Avrebbe dato drammaticità al momento, almeno quella. Mi immagino con abiti anni ’30, le bretelle, mentre guardo malinconico un treno che si allontana, in una nuvola di fumo, carbone bruciato da un ragazzino chino sulle fiamme e dal volto annerito dalla fuliggine. E invece niente. Nada. Modesto squallore dei treni moderni. Chissà se ha freddo, Alessio, o ha caldo, o è a posto. E chissà come starebbe con me. Da uno a dieci, quanto gli darebbe fastidio la mia presenza? Da uno a dieci, quante opportunità sto perdendo? Quanti treni passano e io li guardo come se dovessi muoverli a pietà. Le mie mani bruciano a contatto con la stoffa ruvida dell’interno delle tasche.

Credo di essere un codardo. Lo sono, senza dubbio. Ma almeno non sono un incosciente. Ho ancora un anno di scuola. La maturità a cui pensare. Alessio da guardare nelle ore di lezione, quando lo interrogano ed è meno evidente che lo sto fissando. Mancano nove mesi alla prossima estate. Sembra un sacco di tempo, ma alla fine se ci si pensa sono solo nove mesi. Un mese è solo trenta giorni. Sono capace di sprecare ben più di nove mesi di tempo. Tutte le cose che devo fare, che voglio fare, che ho bisogno di fare, forse potrei farle una volta arrivato al capolinea di quel treno. Che se n'è andato senza nemmeno chiedermi se ero sicuro di voler rimanere. Mi giro, do le spalle alle rotaie. Una voglia strana di cadere all'indietro, di fidarmi di loro. Quando esco dalla stazione provo dentro quel senso di vuoto logorante che mi prende alla fine di un film. Alla fine di una storia. Ma non c'è stata nessuna storia, là dentro. Già prendo le distanze. Forse sono già cresciuto rispetto al me dell'interno della stazione. Prendo a calci una lattina verde e argento di birra, immaginando che al suo posto ci sia la faccia di chi l'ha bevuta e lasciata lì. Sedotta e abbandonata. Rido da solo. Sono proprio un coglione. Adesso vorrei alzare la testa, guardare a sinistra e vedere Alessio venirmi incontro sorridendo. Si ferma a qualche passo da me, con le mani in tasca. "Facciamo un giro?" mi chiede. Accetto con indifferenza, con una scrollata di spalle, come il poeta maledetto che non sono. Lui, mentre camminiamo, con l'indice sfiora la mia manica, come se volesse prendermi per mano, facendomi pensare che ho fatto bene a non prendere quel treno. Nella mia mente, per tutta la sera insieme non ci prendiamo mai per mano, ma siamo sempre lì lì per farlo. La verità è che mi faccio solo un sacco di seghe mentali. Non sono nemmeno più illusioni, ormai. C'è una parola giapponese che indica la speranza che succeda qualcosa che sappiamo non accadrà. Dovrei cercarla, dipingere l'ideogramma sul muro di camera mia. Mi piace pensare che sono solo perché sono speciale, non sono nient'altro che un egocentrico. Schiaccio la lattina sotto un piede, il vociare fastidioso e rumoroso di un gruppo di ragazzi me la fa colpire con più forza. "Alessio" penso, "vieni qui.
Prendi quel treno con me"

In due sarebbe tutta un'altra cosa. In due perderebbe il suo significato.

Mi siedo su una panchina, guardo le stelle e cerco di deglutire il groppo che ho in gola. Un'improvvisa stanchezza mi coglie. Mi massaggio le tempie, la fronte, le palpebre, la radice del naso. Penso al giorno di luglio in cui avrò finito gli esami, fregandomene dei risultati, al giorno in cui per la seconda (l'ennesima) volta non scapperò. Sono troppo pavido per essere un artista. Sono troppo innamorato per stare solo, sono troppo disperato per stare tra la gente. Mi sento come un orfano in un romanzo, labbra sottili e sopracciglia aggrottate, ma non ho un'indecifrabile bellezza, né lividi sulle braccia, o una tragica storia. La mia tristezza è banale e il mio dolore è scontato. Mi sento di non appartenere a nessun mondo, e mi faccio schifo per questo. Continuo a costruirmi sotto le scarpe un piedistallo infinito. Non sono normale né diverso, ma in bilico nel mezzo. Entrambe le parti hanno i loro pro e contro, ma preferirei non cadere. Allargo le braccia per tenermi in equilibrio. Lo faccio davvero, mentre cammino verso gli alberi di un minuscolo parco. Qualcuno ride e ride di me. Sebbene lo pensi quasi sempre, questa volta ne sono certo. Ma chi se ne fotte. Delle loro stupide risate. Delle foto su Facebook in cui sono ubriachi ma ridono, e io cerco di sentirmi superiore solo per non rendermi conto di essere tremendamente inferiore, ma almeno so di essere tra i pochi che guardano le costellazioni, pur non conoscendole. Come mi succede per le strade, ammiro, forse troppo a lungo, la bellezza degli sconosciuti, senza sapere nulla di loro, senza operarmi per sapere. Tornerò a casa. Tornerò tra poco, e la notte che passerò nel mio letto mi sembrerà di passarla su una panchina, su quella da cui mi sono appena alzato. Farò fatica ad addormentarmi, mi sveglierò alle quattro passate per poi risprofondare nel sonno fino alle undici di mattina. Vedrò il sole ferirmi gli occhi. Adesso, però, guardando la luna, la notte sembra più chiara. Capisco i poeti che da quella piccola palla lattiginosa sono così ispirati. La luna mette in luce la speranza, credo. Un giorno, e lo prometto a me stesso, ai miei diciotto anni friabili come una roccia rosata, alla luna, ad Alessio a cui forse un giorno mancherò, come quel ragazzo timido della sua classe che ogni tanto sembrava un po’ schizzato, alle mie braccia aperte, agli sconosciuti che mi guardano e a quelli che guardo, che un giorno un treno lo prenderò. Guarderò fuori dal finestrino, come sempre, fingendo un dramma che non mi appartiene, e mi ricorderò di oggi. 13 giugno 2016, scritto in numero, vacanze iniziate da poco. Ho più di un anno per preparare le valigie.

  
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