Capitolo
uno.
Il problema principale
dei venditori porta a porta è che non sanno quando desistere.
Aprii
la porta in canottiera, pantaloncini e con un turbante avvolto sulla
testa.
Erano le sette del mattino e mi ero alzata da venti minuti,
gli occhi erano gonfi e i riflessi addormentati; quindi, quando vidi
i folti baffi a manubrio del signor Bonelli, attaccati alla faccia
del signor Bonelli, con la cravatta a motivi d'ancora che spuntava
fuori dal collo tozzo del signor Bonelli, nonostante tutti questi
segnali d'allarme rosso, ci misi venti secondi di silenzio stupito e
sguardo vacuo a realizzare.
“Oh,
Gesù Cristo! Ancora tu!”
Ecco, qui realizzai.
Chiusi di
scatto la porta del mio appartamento, ma il piede di Bonelli, calzato
di mocassini di pelle, si infilò veloce nell'apertura. Non per
questo desistetti: spinsi la porta con ancora più forza, fanculo
Bonelli e al diavolo il suo piede.
“Solo
un secondo Rebecca! Dammi un minuto, fidati di me...” supplicò,
attraverso lo spiraglio di cinque centimetri. Dovevo far installare
una telecamera di sorveglianza, sciocca io. “E mi stai rompendo il
piede, accidenti a te!”
“Mai! Esci dalla mia proprietà!
Ma chi ti ha fatto entrare?”
“Dai, Becca, solo un
secondo!” Il doppiomento gli tremolava dallo sforzo che stava
impiegando per salvarsi il piede. Furono due minuti di dura lotta,
pieni di ringhi, imprecazioni e reciproche maledizioni.
Ero
pienamente cosciente che dare il permesso a Enrico Bonelli di entrare
nella propria abitazione era come dare il via libera a un vampiro;
dopo entra quando vuole, come se fosse casa sua; devi chiamare
l'esorcista per scacciarlo; sedimenta la sua oscura presenza sul
divano del salotto e ti succhia tutto il sangue che hai (beh, nel
caso di Bonelli ti succhia tutta la liquidità dal conto in
banca).
Ma
era un lunedì mattina, avevo dormito solo tre ore la notte prima.
Fui una debole. Mi arresi.
“Alle
sette e mezza ti voglio fuori da qui, hai capito? F-u-o-r-i!”
“Ma
certo, Becca, tranquilla.” Bonelli si era ringalluzzito. Mi fece
persino l'occhiolino.
Mi
spostai di lato e lo lasciai entrare nel salotto, che faceva anche da
studio, ufficio, cucina e camera da letto. Bonelli scavalcò i pacchi
di cosmetici comprati da Ebay e la montagnetta di vestiti da lavare.
Si
sedette sul divano, accanto al mio gatto Beril che lo guardò con
disappunto agitando la coda: il signor Bonelli ricambiò lo sguardo,
chiaramente in soggezione.
“Ehm,
ok. Allora...” Poggiò sul tavolo la sua valigia di pelle, la aprì
e ne estrasse un Remington 1100. “Ta-daaa!” fece, mostrandomi il
fucile automatico come se fosse l'ottava meraviglia del mondo.
“E
allora?”
“Come
e
allora?
Hai visto che chicca? È difficile importarli dall'America e guarda
splendore che è! Oh, signorina, non puoi permetterti di fare quella
faccia da superiore, tu che giri con quel cesso a pedali
dell'11-87!”
“Enrico,
come ti ho detto più e più volte: non mi serve un aggiornamento
delle armi da fuoco.” E non ho soldi per permettermelo, aggiunsi
mentalmente.
“Guarda,
si può avere anche calibro dieci! Che te ne pare? Con quello non c'è
bisogno staccare la testa ai Diaboli, gliela polverizzi direttamente.
E poi ho qui diversi cataloghi, eh, puoi darci un'
occhiata...”
“No.”
Ripescai il phon dall'armadietto del bagno, lo attaccai in sala e lo
accesi, nella speranza di coprire la voce di Bonelli.
“Tipo
questa Beretta Stoeger Cougar, una cosa piccola, occultabile,
pratica. Te la puoi portare nei bar, alle mostre, in vacanza! Nelle
discoteche!” E mi rivolse un sorrisetto stronzissimo.
Discoteche.
A quanto pare le voci a Milano girano più veloci che nel mio paese
natale, dove la popolazione media è composta da trenta anziani e
venti pecore.
“Lascia
qui il catalogo di quest'anno, ci darò un'occhiata” gli dissi,
mentendo spudoratamente.
Ma
Bonelli la sapeva più lunga. Tirò dei fogli fuori dalla valigia e
li poggiò sul tavolo.
“Questi
sono i moduli per l'ordine, cara. Passo giovedì mattina, che ne
dici? Così hai tutto il tempo di riflettere e fare la scelta
giusta.” Avrei tanto voluto rifilargli un pugno per togliergli quel
sorriso falso da televendita dalla faccia.
“Mh-h.”
Mormorai con scarso interesse. Piegai la testa in avanti, per
asciugarmi la nuca.
“È una promessa?” chiese Bonelli,
provando a fare il vago. Come se cascassi in queste trappole da due
soldi!
“Non sono così scema da fare promesse a quelli delle tua
specie, ci tengo ai miei occhi. Dai, Enrico, togliti dalle palle.”
Staccai il phon e lo rimisi nell'armadietto. Lo specchio del bagno mi rimandò l'immagine di una scocciatissima me stessa, dai vaporosi capelli rossi. Tornai in salotto, dove Bonelli era ancora insediato sul divano, la bocca aperta per ribattere. Rimase come interdetto vedendomi; qualcosa nella mia espressione lo convinse a mollare l'osso.
Con una mano gli presi un braccio, con l'altra la valigia e lo accompagnai all'uscita.
“Allora
ci sentiamo per giovedì, Becca.”
Con entusiasmo buttai fuori lui e
il bagaglio.
“Sì, sì, certo!” borbottai.
Gli
chiusi la porta in faccia. Nella mia mente partì l'Alleluja come
colonna sonora della liberazione.
Djinn
che fanno i venditori porta a porta, pensai.
Che piaga.
Andai in cucina, ovvero il piccolo piano cottura che occupava un lato della stanza. Aprii il contenitore del caffè e caricai il filtro della caffettiera. Gli occhi mi bruciavano dal poco sonno. Era stata una notte davvero orribile.
Nel
frattempo Beril aveva preso il catalogo lucido di Bonelli e lo stava
sfogliando con una zampa, comodo sul divano.
“Sai
che la 92FS non è male? Mio zio la usava, gran bella pistola...”
disse, pensieroso.
“I soldi me li dai tu? Mi paghi in scatolette Royal Canin?”
“Ah-ah-ah.”
Mi guardò come se fossi una deficiente, cosa che a un gatto riesce
particolarmente bene.
La
caffettiera fischiò; ne riempii due tazzine, spingendone una verso
Beril, che era saltato sul tavolo della cucina.
“Becca,
in ogni caso...dopo che ieri sera ti hanno fuso la Colt, non puoi
andare in giro scoperta.”
“No'
me 'anno phusa.” protestai, con la bocca piena di Pan di Stelle.
Presi da sotto il mucchio di vestiti sporchi quel che rimaneva della
mia vecchia Colt e la lanciai sul tavolo, dove rimbalzò con un sordo
rumore metallico alle zampe di Beril.
La
mia pistola aveva visto giorni migliori: impugnatura e caricatore
erano intatti ma a metà la canna si torceva e piegava su se
stessa.
“Funzionale,
direi...ma guardiamo il lato positivo: data la mira che hai magari
con la canna storta riesci a beccare qualcuno” disse Beril, con la
voce piena di secco sarcasmo.
L'avrei strozzato. Infilai la mano nel bicchiere d'acqua che stavo bevendo e gliela scrollai sul muso. Numerose gocce d'acqua gli andarono sul pelo e negli occhi. Beril mi mostrò i denti, soffiando; scappò e si mise al riparo sul divano, guardandomi malevolo da dietro un cuscino.
“E comunque, con la mia mira schifosa, ieri ne ho beccati tre su tre” ribattei, piccata.
Ok,
la mia mira non era delle migliori, ma non stavo mentendo:
la
notte prima avevo preso tre Inferi, tutti al primo colpo, ed era
anche in un vicolo scarsamente illuminato. Certo, avrei dovuto
sparargli in mezzo agli occhi per ucciderli definitivamente, invece
ne avevo colpito uno all'addome, il secondo alla spalla e il terzo
al...beh, il terzo era stato il più sfortunato.
Avevano
preso sul personale il mio tentativo di farli fuori
e fu la mia fedele Colt a pagarne il prezzo.
Ma
alla fine sono riuscita a eliminarli lo stesso, pistola o meno!,
pensai offesa, mentre mi vestivo. E
sono anche stata dentro i contorni del bersaglio, come insegnano al
poligono!
Mi misi le scarpe, due
anfibi neri con la punta rinforzata.
“Vado
da Camlo, mi ha scritto per del lavoro” annunciai, mentre ripescavo
le chiavi di casa dal fondo della borsa. “Non vomitare peli in
giro, lascia stare la mia collezioni di vinili e,
percaritàdiddioBeril,
cerca
di farla in quella diavolo di lettiera!”
Beril
soffiò e mi diede la schiena, frustando l'aria con la coda gonfia
per il disappunto.
Il mio gatto si imbarazzava e diventava
suscettibile all'argomento lettiera. Mentre chiudevo la porta pensai
che Beril, quando era umano, doveva essere stato uno di quei
fastidiosi uomini che non riuscivano a centrare la tavoletta del
water.
****
Dopo
un viaggio in metropolitana schiacciata come una sardina, in cui dove
dovetti guadagnarmi l'uscita a suon di borsettate, scesi a Porta
Romana.
Stava cominciando a piovere: sottili aghi d'acqua
cadevano, all'inizio sparsi, poi sempre più fitti. Mentre correvo,
con la borsa sulla testa, maledii interi pantheon di divinità:
sentivo i capelli gonfiarsi ai lati della faccia, ispidi come vello
di pecora.
Dopo cinque minuti fatti di slalom tra pozzanghere,
in cui avevo rischiato di essere tirata sotto a un incrocio da sciura
ingioiellata in BMW, ero arrivata alla via parallela dove si trovava
il bar di Camlo.
Appena misi piede in Via delle Sirene, fu come se
qualcuno avesse abbassato di colpo il volume di uno stereo: la
strada principale era un viavai di persone e macchine, ma in quella
vietta non c'era nessuno. I rumori
provenienti dai quartieri circostanti sembravano attutiti e lontani,
come se mi trovassi sottoacqua.
Due
palazzi coperti di edera, in stile liberty, si stagliavano a metà
della via. Erano color viola prugna, con i dettagli del cancello e
delle finestre d'oro scintillante. I frontoni erano decorati con
disegni dei segni zodiacali e della mappa celeste; in mezzo ai tipici
condomini milanesi, squadrati e grigi, erano due pugni negli occhi.
D'altronde Camlo e la sua famiglia non erano mai stati dei
minimalisti del buongusto: l'estate di due anni prima avevo visto la
loro carovana, piena di luci al led e con una jacuzzi sul tetto.
Scostai
una fitta tenda d'edera a destra del cancello del palazzo numero
tredici, per scoprire una porticina nera con intagliata nel legno la
scritta “Bar Alafair”. La aprii; il chiacchericcio di numerose
voci risuonò nel corridoio, buio e stretto, che faceva da
anticamera. Avevo i piedi gelati. Decisi che potevo sbattermene
dell'etichetta: mi tolsi le scarpe sporche di fango, gettandole sulla
moquette. Spalancai un'altra porta, decorata con vetri colorati che
raffiguravano due sfingi speculari, ed entrai in una grande sala
circolare dalle alte e strette finestre.
Al centro c'era un gigantesco albero dorato: dalle fronde attaccate al soffitto pendevano numerose mele cave, con al loro interno lampadine scintillanti. Attorno all'albero c'era il bancone circolare dove stavano i baristi, con numerosi avventori seduti sulle sedie a forma di foglia. Individuai subito la figura alta e scura di Camlo, intento a spillare una birra per un uomo in smoking verde.
Gli feci un fischio, sbracciandomi. Camlo si girò -insieme a molte altre persone- e mi salutò alzando la mano. Indicò la porta a sinistra dell'entrata e scandì silenzioso con la bocca “U-ffi-cio”.
Ero
già stata più volte nella stanza piccola e quadrata, piena di
archivi e cactus, che era lo studio di Camlo. Mi richiusi la porta
alle spalle.
Davanti alla scrivania, intrappolato alla sedia
da manette e un pentacolo protettivo, c'era un diavolo vestito con un
impermeabile di gomma che piagnucolava.
Note
di Rory:
Ciao a tutti! Questa è una storia urban fantasy che mi frullava
in testa da un po'. Mi sto divertendo tantissimo a scriverla e spero
che divertirà anche a voi leggerla <3
A fine Marzo partirò
per la Corea del Sud e ci starò un mese, quindi assicuro
aggiornamenti regolari solo da Maggio in poi.
Un grazie di cuore a
erzsi
che
mi ha betato il primo capitolo *-*