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Autore: pandamito    17/06/2016    1 recensioni
Mentre da una parte nel mondo Andrea e Giuliano incontrarono Licia per caso, in un’altra parte sempre molto super random qualcuno mi chiese mi raccontare una storia. Sinceramente non ne avevo proprio voglia, però sapete com’è, non avevo niente di meglio da fare mentre il torrent finiva di scaricarsi e poi ho realizzato: quello era il mio momento. Il Destino, il Fato, un cavallo, qualcosa di mistico e onnipresente che governava le forze dell’universo mi stava dando l’opportunità che avevo sempre aspettato per risplendere ancor di più, per infangare ancora il nome di qualche persona e bearmi delle loro sventure.
E così una testolina riccia e nera trotterellava tranquilla per strada, intento nel tornare a casa da-
No, aspettate, non è così che inizia la storia.
Torniamo indietro. Rewind.

-
Basically: gente molto random e scapestrata abita in un condominio dove succede di tutto e di più e fanno cose.
Ovvero chiamata "la storia che nessuno aveva bisogno che io scrivessi".
Genere: Commedia, Demenziale, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash, FemSlash, Crack Pairing
Note: Nonsense | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Threesome
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Avvertenze: questo capitolo si è scritto da solo perché non è per niente ciò che volevo scrivere all'inizio ma va bene così, la forza cosmica dell'universo ha voluto che scrivessi flangst invece che demenziale, quindi come al solito finisco per fare flangst demenziale e va bene così. No shame.
Ora faccio come gli autori inglesi che mettono avvertente inutili e nonsense e quindi vi dico che in questo capitolo vengono introdotte le prime interazioni coi social network. Nel corso della storia ce ne saranno diverse per varie ragioni, visto che comunque la storia è ambientata ai giorni nostri, quindi è anche comune che le persone si approccino in un determinato modo ai social network.


 






Era troppo presto perché gli altri fossero svegli, di fatti la tenda che separava l’angolo della zona notte dal resto del monolocale era chiusa e da dietro di essa si sentiva solo il leggero russare di Tony.
Effettivamente era così presto che non so neanche io come faccio a sapere bene tutte le cose che accaddero. L’unico forse più sveglio in quella stanza era Ragnarock, il gatto nero dai grandi occhi verdi che in quel momento faceva finta di dormire, accoccolato su una delle credenze.
Non sapeva neanche Wade stesso come faceva a stare in piedi e Theodore – anche lui purtroppo sveglio perché doveva andare a scuola – poté scommettere che il caffè che il maggiore stava bevendo fosse corretto.
Wade lo osservò mentre si dirigeva mogio mogio verso il piano cucina e si sedeva a uno sgabello del bancone di marmo per versarsi il latte in una tazza e mangiare i suoi cereali.
Il maggiore alzò un sopracciglio. «Ragazzino, che succede?» L’altro scrollò le spalle. «Sei fin troppo depresso persino per i tuoi standard» proseguì il primogenito.
Theodore prese una cucchiaiata di cereali e la fece ricadere nel latte, poi ne riprese un’altra e se la portò alla bocca. Masticò per un po’ e deglutì. «Vogliono cambiarmi classe» spiegò finalmente. «Cioè, vogliono mandarmi un anno più avanti perché dicono che sono troppo intelligente rispetto a gli altri, o loro sono troppo stupidi per me. Fa lo stesso.»
Wade staccò gli occhi dalla home di facebook sul cellulare e il suo viso si illuminò un poco. «Ma è fantastico!» esclamò, andando dall’altra parte del bancone per sedersi vicino al fratello e dargli una pacca sulla spalla. «Non dicevi che tanto la tua classe ti faceva schifo?»
«Sì, ma…» iniziò il minore, un po’ seccato, «se la nuova classe è peggio e la gente mi farà ancora più schifo?»
«Beh, devi pensare che rimarrai meno in quella scuola rispetto agli altri in questo modo» cercò di confortarlo l’altro.
«So che nella nuova classe c’è anche il tipo sulla sedia a rotelle che ogni tanto viene qua a trovare il padre.»
Wade sorrise. «Vedi? È già un buon inizio. Potresti fartelo amico.»
«Ma a me non piace» obiettò il minore.
«Ci hai mai parlato?»
«No, ma so che non mi piace.»
«Come fai a dirlo se non ci hai mai parlato?» chiese il primogenito, insistendo.
Theo scrollò le spalle e lo guardò annoiato. «Anche se non ti avessi mai parlato, saprei di certo che mi staresti sul cazzo» spiegò.
Wade lo guardò impassibile per qualche attimo che sembrò un’eternità e l’altro non accennava a rompere il contatto visivo, come una sfida segreta fra i due a chi fosse il gatto dominante in quella situazione.
Poi finalmente Wade parlò: «Ed è proprio per questo che ti scordi il passaggio in macchina.»

 


 
Fissava la schiena marmorea rivolta verso di lui.
Perfetta.
Se qualcuno gliel’avesse chiesto, gli sarebbe bastato anche solo guardarla da lontano per l’eternità per essere felice. E invece poteva toccarla. Così allungò il braccio sinistro, quello ancora intatto e libero dal gesso, e con i polpastrelli delle dita sfiorò leggermente tutta la lunghezza di quella spina dorsale che gli si protraeva davanti agli occhi come un’opera d’arte, provocando un brivido nel corpo- no, in quella scultura marmorea stranamente morbida e calda. Poteva sentirlo. O forse era lui che aveva i brividi? Oh, ma lui ce li aveva sempre in sua presenza, o anche solo quando lo pensava. Un po’ patetico. Un po’ molto, ma non poteva farci nulla, né se ne vergognava. Forse solo un po’, ma di se stesso, non di lui. Mai di lui.
Notò come i muscoli si contraevano mentre venivano coperti da una semplice camicia bianca e i loro opposti si allungavano. Gli ricordò di una lezione al college che sicuramente non aveva finito di seguire, così lasciò perdere e si intristì perché avrebbe più gradito farne una sua tela di quella schiena piuttosto che coprirla. Un vero peccato.
Poi però si ricordò che era sua. Sua, sua, sua, sua, sua.
Fece leva sul braccio sinistro per alzare quel tanto di busto che gli serviva per raggiungerla – la perfezione – e su di essa vi lasciò un bacio, poi un altro, poco distante dal precedente, poi un altro ancora e un altro e un altro e sua, sua, sua, sua e mia, mia, mia, mia. Lo circondò in un semi-abbraccio – ovvero con un braccio solo – e risalì con le labbra fino alle spalle e intrecciò le dita della sua mano sinistra nei capelli biondi più lunghi alla nuca, che tendevano ad arricciarsi più si andava verso le punte.
Alexandre lo allontanò con una leggera spinta sul petto, facendolo ricadere sul letto stretto e sfatto che gli toccava, e gli lanciò un’occhiata di rimprovero.
Tornò a dargli le spalle, finendo di abbottonarsi la camicia. «Rivestiti, che devo scappare in ufficio appena posso.»
Le labbra di Anthony si piegarono all’ingiù mentre il proprio ragazzo non si degnava neanche di guardarlo. Il minore fece per alzarsi, ma prontamente il moro gli circondò la vita con un braccio e lo buttò giù di peso, facendolo ricadere sul proprio petto e avvinghiandosi a lui per non lasciarlo andare.
«Avevi promesso che avremmo fatto un brunch assieme» protestò Tony, fintamente offeso. O realmente offeso, sinceramente non lo so. Scivolò da sotto il peso del ragazzo per metterglisi a cavalcioni e riprese a torturarlo con le labbra per inchiodarlo a letto, col viso stampato il sorriso più ebete che qualcuno potesse mai avere, della serie che avrebbe vinto contro una schiera di bambini felici la notte di Natale.
Alexandre sospirò, lasciandolo un po’ fare. «Lo so, per questo ho portato anche da mangiare. Sta di fatti che dopo devo comunque scappare» precisò.
Di fatti sul bancone nella zona cucina c’erano un paio di buste di cui all’interno vi si potevano scorgere alcuni contenitori di cibo a cui Tony lanciò un’occhiata preoccupata e poi rivolse lo stesso sguardo verso il minore.
Alexandre alzò gli occhi al cielo, trattenendosi dallo sbuffare. «Tranquillo, ho comprato tutto» lo rassicurò, appoggiando una mano sul petto dell’altro per spostarlo e rimettersi seduto al bordo del letto, dandogli ancora una volta le spalle.
«Sai che apprezzo quando ti applichi in cucina, solo che preferisco mangiare qualcosa di carino, almeno oggi» confessò il moro, tracciando ancora una volta la linea della spina dorsale del biondo, stavolta coperta dalla camicia. Si riavvicinò nuovamente, circondandolo in un abbraccio. «Forse mangerò te» disse maliziosamente, prima di piombare seriamente sul suo collo.
«Anthony» lo ammonì, cercando di allontanarlo.
Il maggiore trattenne una risata, scostandosi un poco. «Oh, è serio quando mi chiami così.» Alexandre gli lanciò un’occhiata e Tony alzò le mani in segno di resa. «Hai ragione, non sei carino» disse, cercando di restare il più serio possibile. Gli diede un buffetto sulla guancia. «Diciamo che probabilmente hanno inventato la parola “perfezione” quando ti hanno visto.»
Alexandre per poco non si strozzò con la sua stessa saliva e abbassò il capo per cercare di nascondersi mentre arrossiva violentemente, neanche riuscendo a guardare l’altro.
«Smettila, Tony» lo rimproverò, sebbene le sue labbra premessero per lasciarsi sfuggire un sorriso lusingato.
«Mh, cosa dicevi l’altro giorno? L’ascensore…?» gli sussurrò all’orecchio, stuzzicandolo.
Se fosse stato possibile, Alexandre sarebbe arrossito ancor di più, stavolta anche un po’ per l’irritazione. «Oh, piantala!» esclamò.
«Dove?» chiese il moro con un ghigno.
Il minore rimase impassibile, fissandolo negli occhi chiari. «Ti rompo anche l’altro braccio se continui» lo avvertì.
Tony scrollò le spalle. «Non è un problema, so come arrangiarmi» disse, continuando a ghignare malizioso. Il biondo lo guardò perplesso e il maggiore si rese conto che purtroppo il suo presunto fidanzato non sarebbe mai riuscito ad arrivare alla sua allusione; così fece un gesto sbrigativo con la mano. «Lascia stare.»
Scostò le lenzuola e scese dal letto, andando a ripescare un paio di mutande da infilarsi, sebbene con una sola mano potesse sembrare alquanto ridicolo.
Alexandre lo lasciò fare, continuando anche lui a rivestirsi, ma osservò comunque quanto il ragazzo fosse goffo in quella situazione e il suo sguardo si addolcì. «Ti aiuto a rivestirti» propose, andando a prendere una maglia da fargli infilare.
«Oh, siamo arrivati già a questa fase? Tra poco dovrai ricordarmi di prendere le pillole e cambiarmi il catetere o qualcosa del genere» scherzò l’altro.
Ma l’eco della risatina di Tony fu l’unica cosa ad echeggiare in quella stanza. Alexandre non stava ridendo. Alexandre non stava ridendo e cercava di fissarlo negli occhi, rigido come una statua di ghiaccio. E a quel punto Tony andò internamente nel panico, tentando di evitare lo sguardo azzurro dell’altro.
Forse non era stata una così gran battuta, pensava. Cioè ovvio che non lo era stata, ma forse era proprio pessima, forse non era stata per niente una buona idea dire quelle cose. E se avesse ferito Alexandre in qualche modo dicendo così? Anzi, peggio, se si fosse spinto troppo in là? Se ad Alexandre quelle cose non interessassero? Se non ci avesse mai pensato? Se – cosa più probabile di tutte – non avesse mai avuto l’intenzione di restare per sempre con Anthony? Cioè, era comprensibile, per carità, Tony sarebbe stato il primo a non stare con se stesso, avrebbe capito perfettamente qualcuno come Alexandre, solo che… C’era qualcosa in lui che si rompeva anche solo a questo pensiero, da star male. Che cosa avrebbe fatto in quel caso? Ma era ovvio che prima o poi sarebbe arrivato quel giorno. Ora che ci pensava Alexandre gli ricordava già quando doveva prendere le pillole-
Oh, no. No, no, no, no, si stava per far prendere dal panico e Alexandre lo stava fissando. Non poteva permetterselo perché ogni volta che perdeva la testa per cose del genere, l’altro se ne accorgeva e si preoccupava e far preoccupare Alexandre era l’ultima cosa che l’Orwell volesse fare. Autocontrollo. Doveva avere autocontrollo!
L’espressione del biondo si fece più preoccupata, ma Tony tentò disperatamente di cambiare discorso, o almeno di portarlo in una zona dove si sentisse più sicuro.  «E poi un brunch da nudo è più divertente ora che non c’è nessuno, siamo tutti più felici. Si spera» scherzò. Più o meno.
Alexandre fece passare con cautela le braccia del maggiore nelle maniche corte della maglietta e poi gli fece infilare la testa nel giusto buco del collo. Gli liberò alcuni boccoli scuri intrappolati dentro la maglia che ora finivano sulle spalle del giovane. I loro occhi s’incrociarono ed erano così stranamente e terribilmente seri che il bacio venne da sé, improvviso ma energico e stavolta fu il minore a circondare il bacino di Tony e a stringerlo a sé, con una presa ferma che, per controverso, era così salda proprio perché partiva dalla preoccupazione. Poi gli accarezzò una guancia e l’altro si rilassò un po’ a quel contatto.
«È che quel gatto continua a fissarmi e mi mette in soggezione» confessò, lanciando un’occhiata verso il divano, dove appollaiato c’era una grassa palla di pelo bianco dagli enormi occhi giallognoli che fissavano i due. Che comunque rimaneva una bellissima e maestosa palla di pelo, eh.
Il moro sospirò, quasi esasperato. Prese la mano del proprio ragazzo con quella buona che gli era rimasta e lo condusse verso l’angolo della cucina, dove li attendeva il brunch. «Xandre, davvero, sei l’unica persona al mondo oltre a Phil a cui quel gatto non porta rogna e sei di certo l’unica cosa che teme» spiegò, per poi continuare: «Posso assicurarti che non ti farà alcun male, almeno a te. Una volta è saltato sulla schiena di una tizia mentre lo stavamo facendo e ha fatto cose ancora più assurde, quindi se avesse voluto ucciderti, l’avrebbe già fatto dopo tutto questo tempo.»
«Ah» fu l’unica cosa che il biondo riuscì a far uscire dalle proprie labbra, irrigidendosi improvvisamente mentre si sedeva.
Tony iniziò a cacciare la roba dalle buste e si fiondò sui cornetti salati appena li vide. Alexandre invece si torturò per un attimo le mani, sentendo l’agitazione ritornare in lui, poi si costrinse a tenersi occupato e aprì il contenitore della frutta, prendendo qualche fragola e ponendola sul waffle che addentò.
«E la ragazza?» chiese, dopo un po’ di silenzio.
«Cosa?» chiese il moro distrattamente, godendosi le fette di formaggio e miele e illuminandosi alla vista di un thermos pieno di caffè all’interno di una delle buste.
«Che fine ha fatto?» domandò ancora l’altro, tenendo la testa bassa per non guardare negli occhi l’interrogato e facendo finta di interessarsi alla marmellata che stava spalmando su una fetta biscottata.
Tony rifletté un attimo, versando a entrambi un po’ di caffè e poi prendendo uno dei mini toast che il minore gli aveva comprato. «L’ho accompagnata in ospedale» disse semplicemente, tra un morso e un altro. Quando mandò giù, la realizzazione incominciò a farsi strada in lui. «Ah, no, aspetta, tu intendevi- Alexandre, sei geloso?» domandò velocemente, la sua voce divenne leggermente più acuta e incredula e, per sua enorme sfortuna, ciò che ne uscì suonò un po’ accusatorio.
«No» tagliò prontamente l’altro, continuando a tenere la testa bassa.
«Alexandre, io-»
«Ho detto di no, non agitarti!» lo interruppe di nuovo, perdendo quasi la pazienza e prendendo bruscamente il succo d’arancia sul tavolo per versarsene un po’.
«Piuttosto, che cosa hai intenzione di fare col lavoro?» domandò, ansioso di spostare la conversazione altrove.
Tony sospirò, scuotendo il capo, finendo con un boccone il toast. «Ah, so solo che sono nella merda. Oggi ho chiesto di sostituirmi il turno, ma non posso prendermi dei giorni» spiegò. «E poi non mi toglieranno mai subito il gesso.»
L’altro finalmente sollevò lo sguardo dalla fetta biscottata cui stava facendo finta di interessarsi e corrugò le sopracciglia. «Ma non possono fare così-»
«Sì, Alexandre» lo interruppe, sospirando. «Possono.»
Il biondo rimuginò un attimo nei suoi pensieri e sembrò alquanto preoccupato. Lanciò un’occhiata timorosa al proprio ragazzo, come se avesse paura di chiedere qualcosa. «Vuoi che…?»
Il maggiore scosse la testa. «No. Lascia stare.»
La sua espressione si addolcì e Alexandre per qualche istante si concesse di osservare quanto fossero più belli gli occhi di Tony quando sorridevano gentili. Allungò una mano sul tavolo di marmo e il sorriso del moro si allargò ancor di più, corrispondendo al gesto con la sua sinistra e stringendo teneramente le dita attorno alla presa dell’altro, disegnando cerchi immaginari col pollice nel suo palmo.
«Nessuno dei tuoi fratelli può sostituirti?» azzardò il minore.
Tony sospirò ancora. «Xandre, lavorano tutti. Sarebbe un suicidio per loro.»
«E Theodore?» insistette.
«Ah! Bella battuta» si fece scappare con una smorfia. «Non lo farà mai, piuttosto mi farebbe licenziare.»
Alexandre si morse le labbra, pensante. «Hai provato a chiedere un favore a qualcuno del palazzo?» Fece una piccola pausa in cui Anthony alzò un sopracciglio, poco convinto, e il biondo riprese: «So che sembra assurdo, ma tentar non nuoce…»
«Qui in realtà potrebbe nuocermi eccome» brontolò. «Mi servirebbe qualcuno non migliore di me in modo da non farmi rimpiazzare e qualcuno di non così incapace da non farmi licenziare» rifletté, mentre Alexandre con la mano libera gli avvicinava una forchettata di uova con bacon e il moro fu più che felice di farsi imboccare. «Devo pensarci.»
Alexandre riprese un’altra forchettata, ma stavolta fu lui ad addentarla, fissando il contenitore con le uova strapazzate. «Non avevi detto che credevi di piacere al tipo del piano di sotto? Potresti chiedere a lui.»
Tony sgranò gli occhi a quella proposta, cercando di attirare l’attenzione dell’altro, che però si ostinava a tenere basso lo sguardo sul cibo, prendendo un sorso di caffè. Gli strinse la mano con maggiore enfasi.
«Alexandre, sei sicuro di non essere geloso?» chiese, allarmato.
L’interpellato ritrasse immediatamente la mano, come se si fosse bruciato o – peggio – infastidito. «Non essere paranoico» sbottò, rotando gli occhi. Poi lanciò un’occhiata all’orologio e scattò in piedi. «Dannazione, devo davvero scappare. È tutto tuo» gesticolò, indicando l’enorme quantità di cibo che era ancora rimasta e avviandosi di corsa per prendere la giacca all’attaccapanni vicino la porta.
L’Orwell si affrettò ad alzarsi e lo seguì a ruota, col terrore che cresceva nei suoi occhi. «Alexandre, io-» iniziò, ma l’altro lo interruppe subito.
«Lo so» disse, aprendo la porta e fermandosi a guardarlo seriamente.
«Ma non-» provò di nuovo il mondo.
Alexandre chiuse gli occhi e scosse la testa. «Shh, lo so e basta.»
Anthony, ancora titubante, prese coraggio e lo lasciò andare con un ultimo bacio corrisposto proprio sull’uscio. Le sue labbra tremarono.
Alexandre si fiondò giù per le scale e Tony uscì di poco nell’atrio, gridandogli dietro: «Sappi che ti disturberò su whatsapp ogni tre secondi, come al solito.»
Sempre più lontano, dalle scale, si udì la risposta: «Sappi che non risponderò, come al solito.»
Tony non poteva neanche torturarsi le mani per colpa del gesso e si maledì, maledì tutto, ma soprattutto se stesso.
Si sentì osservato e voltandosi verso destra vide un uomo rosso barbuto, con gli occhi azzurri penetranti che volevano fulminarlo con uno sguardo.
«Non sono potuto andare a lavoro perché devo controllare che i carpentieri non mi rubino nulla» disse Ernest, il vicino, con tono accusatorio.
Tony dubitava che qualcuno volesse davvero derubarlo, da ciò che gli aveva raccontato Peggy sull’altarino dedicato alle foto della modella asiatica.
«Lo prenda come una piccola vacanza» cercò di risollevarlo il povero sfigatello.
Ernest si rabbuiò ancora di più se possibile. «Il mio lavoro è la mia vacanza. Almeno lì non vedo persone vive» e con ciò chiuse bruscamente la porta dell’appartamento numero undici.
Tony rimase spiazzato e corse a rientrare in casa, cercando disperatamente il suo cellulare e, una volta trovato, scorse la rubrica.
Pigiò il nome di un contatto e aspettò ansioso.
Tuuuu tuuuu tuuuuu.
«Dai, dai, dai, rispondi» mormorava.
Dopo altri severi squilli, finalmente qualcuno rispose.
«Che diavolo vuoi?» la voce di Peggy dall’altra parte era, come al solito, scocciata.
«Ok ho fatto la cazzata più cazzata del mondo non lo so Peggy non lo so forse ho spaventato Xandre e ho detto delle cose ma ora non ricordo cioè stavamo parlando ok forse è meglio se non ti dico le circostanze ma insomma io ho fatto questa battuta ma non era divertente e me ne sono accorto dopo-» Tony iniziò a buttar fuori tutte le sue preoccupazioni in un getto senza fine, ma Peggy dovette fermarlo.
«Calma, dannazione, non sto capendo nulla!» sbottò. «Mi hai chiamato perché ti sei appena accorto che le tue battute fanno schifo e guarda caso neanche il tuo Ken ha riso? Non penso neanche che Ken sappia ridere.»
Tony si lasciò sfuggire un suono frustrato, ma cercò di trattenersi da non perdere tempo a star difendere il proprio ragazzo e continuare il suo monologo interiore. «No allora non è questo è che ho detto una cosa forse un po’ troppo… insomma, sul nostro futuro? Ma è stato per sbaglio! Non me ne ero accorto ma poi sì perché si è tutto irrigidito e l’ho spaventato e sono andato nel panico perché sono stato stupido insomma come diavolo mi è venuto in mente di dire quelle cose aiuto Peggy come faccio se non volesse stare più con me? E se mi lasciasse? Cioè in realtà mi chiedo perché non l’abbia già fatto ma me lo sento che accadrà e la mia vita è finita aiuto non ce la posso fare ad andare avanti no no no no no io non posso come faccio sono così patetico e lui è così bello non so neanche perché stia a perdere tempo con me e io sono così fortunato ma non sono abbastanza e che schifo la vita ma perché a me cioè oddio in realtà è bellissimo perché cioè wow proprio a me però no perché io non me la merito una cosa così bella e invece lui-» Improvvisamente una baraonda di rumori esplose oltre le pareti alla destra dell’appartamento. «Che cosa…?» mormorò tra sé e sé il giovane, confuso.
Era il rumore di una sega o qualcosa del genere e Tony capì che dovevano essere i carpentieri nell’appartamento di fianco.
«Tony, non ti sento» fece sua sorella al telefono.
«Cosa?» chiese di riflesso, effettivamente sentendola a malapena. «No, aspetta!»
«Ciaoooo» salutò la Orwell sbrigativa, attaccando il telefono in faccia al fratello.
Maledizione.

 


 
Ira aprì la porta, con la testa che gli pulsava dolorante. Non aveva neanche idea di che ore erano, ma di certo non presto… o forse troppo presto? Ah, ma che gliene importava, l’unica cosa era che la chiamata mattutina di sua sorella quel giorno proprio non ci voleva.
E le notizie che portava ancora meno.
Subito fuori la porta trovò una bottiglia di latte. Il suo vicino, quello dell’appartamento numero tre, faceva il lattaio e ogni mattina aveva preso l’abitudine di lasciare una bottiglia di latte di fronte la porta di ciascuno nel palazzo. Beh, spesso in realtà le portava il suo cane gigante quando non aveva voglia di salire le scale e c’era da dire che spesso i tappi quindi erano pieni di saliva, per non parlare che si sospettava che quel latte se lo procurasse con una combutta assieme al losco vecchietto che abitava nel palazzo che talvolta parlava di una mucca, ma- ehi, latte gratis!
Ecco, parlando proprio di vicini, il grosso bovaro arrivò scodinzolando vicino a lui e Ira si sforzò a focalizzare lo sguardo; quando lo alzò trovò proprio Rafael che stava ritornando dalla passeggiata con Ernesto, il suo cane.
«Sei più distrutto del solito» commentò il moro.
Ira fece una smorfia. «Niente, è mia sorella che dà rogne. Si è messa in testa di volersi trasferire qui» si lamentò.
Rafael ridacchiò. «Almeno è gnocca?» L’altro gli lanciò un’occhiata. «Ti capisco, probabilmente anch’io ne uscirei pazzo se le mie sorelle piombassero qui da un momento all’altro, ma che vuoi farci.»
Ira alzò un sopracciglio. «Hai delle sorelle?»
Rafael rimase impassibile, rendendosi conto solo ora di cosa aveva detto. «Probabile. Perché, t’interessa?» L’altro si limitò a scrollare le spalle.
A un tratto un rumore attirò la loro attenzione e sulle scale videro un uomo in giacca e cravatta, con i capelli biondi rigorosamente portati indietro.
«Scusate l’interruzione» disse appena gli altri si accorsero di lui, avvicinandosi e rivolgendosi verso Ira: «Se ti aiuto col trasloco di tua sorella, saresti disposto a lavorare a un bar all’angolo… diciamo… non venendo pagato?» propose, titubante, ma nella sua voce si poteva sentire anche una chiara nota di disperazione.
Ira si lasciò sfuggire una risata. «Spero tu stia scherzando.»
«Io lo farei» intervenne Rafael, alzando le spalle. «Tu sei… il belloccio, insomma il fidanzato di cui quello del quarto piano non fa altro che parlare?» Alexandre arrossì violentemente e si costrinse ad annuire. «Perché no, almeno così fermerei un po’ il capitalismo assurdo che circola in quel coffee shop. Prima o poi scoprirò chi l’ha inventata questa storia assurda che la gente deve pagare per mangiare.»
Alexandre si raggelò. Per quanto avesse amato fermarsi lì a dare ragione a quel tipo e intrattenere una lunga e stimolante discussione ben argomentata sul sistema economico della società, ignorando le scartoffie da avvocato che l’attendevano a lavoro, strano a dirsi ma in quel momento c’era una cosa molto più importante di tutto ciò: Anthony.
Tornò a rivolgersi all’altro ragazzo: «Va bene, sono disposto a pagarti se ti offri di sostituire Anthony a lavoro.»
Il volto di Ira s’illuminò per qualche secondo, ma non era un sorriso di felicità il suo, bensì quello di un miserabile che si aggrappa a ciò di cui ha bisogno per andare avanti. In questo caso per Ira erano i soldi per pagare l’affitto, quelli che non riusciva a raggiungere solo vincendo gli incontri clandestini.
«Ora sì che parliamo la stessa lingua.»
Alexandre inclinò la testa, confuso. «Perché, prima cosa parlavamo?»
«Lascia stare» tagliò corto l’altro, roteando gli occhi.
«Ehi, ehi, ehi, io ero disposto a farlo gratis, ho più ragione io di essere pagato che lui!» protestò Rafael.
Alexandre sospirò. «Scusa, ma ho bisogno che Anthony non venga licenziato e offrire caffè alla gente non lo aiuterà» spiego, per poi rivolgersi nuovamente all’altro: «Non riceverai la sua paga, prenderai solo i soldi che ti darò io, nemmeno una parola con nessuno a parte lui» e indicò Rafael «e il cane. Andrai da lui e farai finta di offrirti, dì che qualcuno lo stava dicendo nel palazzo, non so, inventati qualcosa. Ti prego non esibirti al locale, né osare farlo licenziare, resta nella media e dovrebbe andare tutto bene. Sono stato chiaro?»
Ira annuì, abbastanza noncurante.

 



 



p a n d a bitch.
Va tutto male nella vita ma va bene così, si va avanti.
Ripeto che scrivo questa storia perché così mi dice la testa e tutto questo progetto in realtà è una mia fase sperimentale per capire alcune cose per altri progetti. Insomma sfruttamento su sfruttamento.
Poi mi sono dimenticata cosa dovevo dire, forse dovevo ripetere again che questo capitolo è uscito così e basta, non doveva avere tutte queste dosi di fluff e semi-angst ma va Beth.
E alla fine ricordo a tutti che sono pandamito su praticamente qualsiasi social network, tra cui twitter, tumblr, tvshowtime, sparatene uno e io ci sarò e poi Come una bestemmia. su facebook e pinterest.
Ringrazio chi deciderà di seguirmi in questa....... cosa, se qualcuno ne ha davvero il coraggio.
Baci e panda, Mito.
   
 
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