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Autore: Enigmista12    18/06/2016    0 recensioni
Oswald ha un'amica, con cui non si vede da tanto tempo; come lui aveva un sogno, ma chissà se è riuscita ad avverarlo come lui?
Genere: Drammatico, Malinconico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Harvey Bullock, Jim Gordon, Nuovo personaggio, Oswald Cobblepot
Note: Missing Moments, OOC | Avvertimenti: nessuno
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The Owl


Oswald non avrebbe saputo dire da quanto tempo era sdraiato con la faccia per terra. Gli sembrava delle ore, ma in realtà erano passati di sicuro solo pochi minuti. Sentiva la testa pulsare, e il sangue che gli scendeva giù lungo la faccia, dal taglio che gli avevano procurato sulla fronte con quel dannatissimo coltellino svizzero. Si parlava naturalmente dei suoi compagni di scuola. Decisamente piccolo per i suoi undici anni, naso a becco, capelli neri e lisci perennemente sulla faccia e modo di vestire molto formale, sempre nero e bianco, Oswald era la vittima favorita da tutti i prepotenti che giravano nella scuola media. Si parlava di ragazzi di terza, seconda ma anche suoi coetanei, naturalmente più alti e robusti di lui. Ora, dopo l'ennesimo pestaggio, il ragazzino non aveva il coraggio di alzare la testa. Poteva essere che avessero fatto solo finta di andarsene, e in realtà fossero lì, pronti a rifilargli un calcio in faccia appena avesse fatto un movimento. Dopo un po' strinse e i senti e si mise seduto: per fortuna se ne erano andati tutti. O almeno, i bulli. Lo picchiavano sempre nelle parti del corpo più impensabili, chiamandolo “Pinguino” soprannome che gli faceva ribollire il sangue dalla rabbia. Si rese conto di avere le guance un po' bagnate; forse aveva pianto. Cercò di asciugarsi al meglio, ma realizzò di non potere tornare a casa in quelle condizioni, o a sua madre sarebbe venuto un colpo. Perciò si alzò a fatica, e tentò di avviarsi verso l'altro cortile della scuola, diretto alla fontanella, ma non prima di aver raccolto il suo immancabile ombrello nero, che portava sempre con se', obbligato dalla madre, anche nelle giornate più limpide e che ogni volta veniva usato su di lui come bastone. Mentre camminava incrociò alcune ragazze che scoppiarono a ridere appena lo videro. Già, faceva sempre ridere tutti lui. Tentò di ignorarle ma sentì nuovamente la rabbia crescergli dentro, facendogli pulsare il taglio sulla fronte. Sua mamma per fortuna lo aveva messo in guardia dall’infidità delle femmine. Solo tua madre ti vuole veramente bene e ti sarà sempre sincera, gli diceva sempre prima di metterlo a letto. E lui era felice. Stava per svoltare l'angolo quando sentì le voci dei prepotenti che lo avevano ridotto in quello stato farsi sempre più vicine. In preda al panico si appiattì contro la parete, e un attimo dopo il gruppo comparve, formato da circa sette persone. Scherzavano su qualche cosa, su un pestaggio. Oswald ebbe la tentazione di saltare addosso al capo dei bulli colpendolo con qualche cosa di appuntito, ma si trattene ricordandosi di quella volta in cui ci provò veramente, e venne picchiato fino allo svenimento. Quando fu fuori campo si affrettò verso la fontanella, per darsi una sistemata e andarsene a casa il più in fretta possibile, ma si fermò: vicino alla struttura c'era già qualcuno. Era una persona della sua età, stessa corporatura gracile e con i capelli castani corti e stepposi. Era seduta a terra, con le ginocchia fra le braccia, in modo che le coprissero il volto. Oswald si fermò senza sapere bene cosa fare. Decise di ignorarlo e si avvicinò. Ma la persona lo sentì e alzò gli occhi; il bambino si fermò stupefatto, rendendosi conto che era una ragazza. Aveva un paio di giganteschi occhiali rotondi sul naso, che le stavano storti, la pelle di un colorito quasi giallastro e punteggiata di foruncoli rossi. Ma la cosa che colpivano di più erano gli occhi: gli occhiali li rendevano enormi, ed erano di un azzurro così intenso da far pensare a un cielo d’estate. La bambina aveva un grosso livido sulla fronte, e altri su tutta la faccia insieme a tagli e graffi. Si capiva che stava piangendo. Quando si accorse della presenza di Oswald si mise in piedi. Vestiva in maniera a dir poco originale: sembrava un'indiana d'America, con la maglia, i pantaloni e le scarpe fatte di cuoio marrone. Inoltre gli andavano larghi e le coprivano le mani e i piedi.

“Mi hanno picchiato” disse la bambina.

“Io non avevo fatto niente. E poi mi chiamano Gufo e Civetta, e odio sti maledetti soprannomi!” e si pulì rabbiosamente una striscia di sangue che gli colava sul mento. Oswald non sapeva bene cosa dire; la conosceva la ragazzina: facevano alcune lezioni insieme. Ma ciascuno se ne stava sempre nell'angolo opposto della classe, perciò non si parlavano mai. Non ricordava neppure il suo nome.

“Picchiano sempre anche me” disse alla fine.

“Però dicono sempre che non farebbero mai male a una ragazza”. La bambina sospirò.

“Dicono che non sono una ragazza, ma un uccellaccio a cui qualcuno a fatto crescere braccia e gambe, e che devo tornarmene nella foresta da dove sono venuta”. Nonostante Oswald si fosse promesso di restare indifferente a qualsiasi cosa avesse detto, rimase senza parole: per quante cattiverie gli avessero detto sulla sua somiglianza con un pinguino, non erano mai arrivati a dirgli di “tornarsene da dove era venuto”. O forse, pensò amareggiato,perché i pinguini non volano? La bambina le tese la mano, presentandosi:

“Sono Helen Darklight”. Curioso cognome, pensò Oswald stringendole la mano di rimando.

“Oswald Cobblepot”. Mentre le loro mani si toccavano, il ragazzino avvertì come una scossa elettrica in tutto il corpo, e, spaventato, la ritirò subito. Helen si spolverò la maglia e guardò Oswald con i suoi occhioni azzurri.

“Sono conciata tanto male?” chiese. Lui scrollò le spalle indifferente. Se mia madre mi vedesse parlare con una così, pensò. Darebbe di matto. Eppure c'era qualcosa in quella ragazzina che lo attirava come una calamita. Non riusciva a ignorarla o addirittura disprezzarla come tendeva a fare di solito con gli altri. Una domanda che non sentì con chiarezza lo riscosse.

“Come hai detto?” chiese.

“Se io ti pulisco la faccia tu pulisci la mia?” ripeté Helen guardandolo. Oswald cercò di rifiutare ma sentì la sua stessa voce dire:

“Ok, va bene”. Che mi è saltato in mente? Pensò agitandosi. Helen aprì la fontanella e si bagnò le mani, imitata da Oswald che prima appoggiò l’ombrello lì accanto. Un attimo dopo i due bambini si stavano sistemando la faccia a vicenda. Entrambi facevano delle smorfie quando si passavano le mani sopra lividi o ferite, ma nessuno versò neanche una lacrima. Oswald continuava a venir trapassato da brividi gelati e bollenti all'unisono quando sentiva le mani della ragazzina sul suo viso. Ma perché? Si chiese. Cosa vuol dire?

“Dove abiti?” le chiese ad un tratto in punto in bianco. Helen glielo disse.

“Ah, è vicino a casa mia” esclamò Oswald. Nuovamente la sua voce aveva parlato al suo posto. Si morse la lingua fino a farla quasi sanguinare.

“Se vuoi facciamo la strada insieme” disse Helen. Oswald finì per acconsentire. Nel frattempo ciascuno aveva finito di riparare la faccia dell'altro. I risultati non erano proprio ottimali, ma almeno non avevano più l'aria di essere stati investiti da un bus. Così uscirono dai cancelli della scuola per dirigersi verso casa. Camminavano di pari passo, ma in assoluto silenzio. Passarono accanto a un parco, dove dei loro coetanei erano impegnati a una partita di baseball.

“Vieni mai al parco?” chiese Helen a Oswald.

“No.”

“Nemmeno io”. Oswald la guardò e sentì una strana sensazione allo stomaco, che non aveva mai avuto in vita sua. All'improvviso puntò un dito verso la periferia della città e disse:

“Sai la casa che c'è al di fuori della periferia, da quella parte? Un giorno io vivrò là. Dominerò la città, e quei prepotenti pagheranno ogni loro azione!”. Helen lo guardò e Oswald arrossì di colpo. Cosa gli era saltato in mente? Ci mancava solo di farsi ridere in faccia da quella specie di gufo umano. Ma lei restò seria.

“Io invece vivrò per le strade. Farò pagare i criminali e prepotenti come meritano”. Oswald la fissò senza sapere cosa dire. La ragazzina sembrava molto determinata. In quella arrivarono sull'incrocio di due strade separate; si accorsero di dover prendere due direzioni diverse.

“Be', allora ciao... Oswald. Ci... vediamo domani?” chiese titubante Helen.

“...Se vuoi” rispose il bambino. Face per andarsene ma la bambina lo fermò con un gesto della mano.

“Perché l'ombrello con questo sole?” chiese. Oswald si sentì nuovamente avvampare.

“Lo vuole mia madre”. Si accorse che si erano avvicinati nuovamente, un po' troppo. Poi, senza alcun preavviso, in maniera quasi meccanica, entrambi protesero in avanti le proprie teste. Ma, per la loro goffaggine, finirono per cozzare con le teste l'una contro l'altra; il taglio di Oswald si scontrò con il livido di Helen ed entrambi gemettero.

“Devo andare, ciao!” esclamarono all'unisono tenendosi la fronte, e ciascuno si fiondò nella propria direzione. Mille pensieri turbinavano nella testa di Oswald. Quella è pazza, ha cercato di baciarmi pensò fra se' e se'. No sciocco, anche tu sei partito in avanti, non dare la colpa a lei, stavi per fare esattamente la stessa cosa rispose una voce nella sua testa. Per poco non inciampò nell'ombrello, e si fermò un momento a riprendere fiato. Si dette un'aggiustata per non destar sospetti con la madre (mai avrebbe dovuto dirle cosa stava per fare e con chi) ed entrò in casa. Quella notte, non riuscì a prendere sonno. Pensava a Helen. Per quanto si sforzasse di dimenticarla non ci riusciva.

Non l'aveva sbeffeggiato. Lo capiva. Forse più di qualsiasi altra persona, a parte sua madre. Chissà se il giorno dopo si sarebbero rivisti. Cercò di pensare che fosse tutto uno scherzo, ma qualcosa non riusciva a convincerlo. Alla fine si addormentò in un sonno senza sogni. Il mattino dopo uscì di casa come un sonnambulo, e, mentre stava per attraversare l'incrocio, individuò Helen, dalla camminata traballante che si spingeva gli occhialoni sul naso. Fecero nuovamente la strada insieme, e ad un tratto Helen gli prese la mano. Oswald si sentì stranamente fondere come cera, ma cercò di non darlo a vedere. Tuttavia, poco prima di attraversare il cancello tetro della scuola, fece scivolare via la sua mano da quella della bambina che non disse nulla. La giornata non fu particolarmente entusiasmante: ci volle poco, agli altri ragazzi, per notare il legame che si era stretto tra i deboli più deboli di tutta la scuola, e furono guai; all'ora di matematica qualcuno scrisse alla lavagna CIVETTA + PINGUINO = UOVA cosa che non aveva alcun senso, ma che suscitò l'ilarità generale della classe, mentre i due ragazzini, paonazzi dall'ira e vergogna, cancellavano in fretta e furia. All'ora di arte qualcuno li lanciò contro una tavolozza di colori che li coprì di tempera rosa e blu. A ginnastica, per una dimostrazione, vennero chiamati due alunni di terza che li afferrarono e scagliarono in un canestro, tanto che fu richiesta una scala per tirarli giù. Senza contare il puntuale pestaggio del dopo-scuola che li ridusse peggio del giorno prima. Ma per la prima volta non erano soli. A pranzo si sedettero insieme a mangiare, ignorando gli sguardi ostili e deridenti degli altri, e scambiandosi anche qualche parola. Ora, ciascuno dei due aveva un amico vero.

 

Quasi vent'anni dopo, un annoiato Oswald sfogliava pigramente le pagine di un giornale. Fuori dalla villa in cui ora viveva come “Re di Gotham” cadeva una pioggia torrenziale. Aspettava di dirigersi ad un appuntamento con una persona. Era già calato buio. Ad un tratto si soffermò su una notizia: IL VIGILANTE COLPISCE ANCORA. Da qualche tempo un misterioso vigilante girava per la città. Con i criminali non aveva alcuna pietà: gli uccideva in modo orrendo, e lasciava i corpi nella spazzatura con topi e scarafaggi. Istintivamente Oswald pensò ad Helen. Erano diventati amici, si poteva dire. L’ultima volta che si erano incontrati era stato poco tempo prima che ottenesse il suo lavoro come tirapiedi di Fish Mooney: da quel momento ne aveva passate di cotte e di crude, ma ora era lì, seduto nel posto che gli spettava, a dominare la città. Da quel che si ricordava Helen, anche nei loro ultimi incontri, non aveva mai rinunciato al suo desiderio di diventare vigilante; ogni tanto ne parlava, meditavano insieme vendette orribili nei confronti dei bulli, che poi non si avveravano. Chissà adesso dov’era. Oswald poggiò il giornale sul tavolo, si alzò e avvicinò zoppicando alla finestra, da dove cadevano gocce enormi di pioggia. E di colpo gli venne in mente un episodio passato.

 

Lui ed Helen tornavano a casa da scuola. Quel giorno avevano preso una strada diversa, che costeggiava il porto. Erano passati circa due anni dal loro primo incontro, e ormai da qualche tempo, non appena potevano, uscivano insieme a passeggiare per le strade della loro amata città . Helen fissava affascinata i gabbiani, che planavano sulla superficie del mare, e Oswald fissava Helen. Da un po’ di tempo gli succedeva, per poi riscuotersi subito, e ripromettersi inutilmente di non farlo più.

“Altro che civetta! Io vorrei essere un gabbiano” disse la ragazza aprendo le braccia. Oswald la guardò con un debole sorriso. In quel momento da un vicoletto poco avanti da loro sbucarono la banda di bulli che gli dava il tormento da sempre. Subito si aprirono a semicerchio, mettendo i due malcapitati con le spalle al muro.

“Vi prego ragazzi, almeno oggi no!” supplicò Oswald.

“Ehy, gente, sentite: gli uccelli vogliono essere lasciati soli! Ma fate attenzione, questo è il territorio degli avvoltoi!” gridò il capo. E tutti giù a sghignazzare. Oswald attese il regolare pestaggio. Ma invece accadde qualcos’altro: uno dei teppisti tese la mano verso Helen, e le infilò la mano nella maglietta. La ragazzina spalancò la bocca sconvolta. E Oswald si sentì impadronire di una rabbia che non aveva mai avuto in vita sua.

"Non toccarla!” urlò fortissimo... e colpì il prepotente con il suo ombrello, dritto in faccia. Questo gridò di dolore, portandosi una mano al naso che prese a sanguinava di getto.

“Il naso! Quel cretino mi ha spaccato il naso!” Il capo si avventò sul ragazzo e gli strappò di mano l’ombrello, sbattendolo contro il ginocchio e spezzandolo in due. Oswald deglutì, e in quel momento il prepotente lo afferrò per il collo e sollevò letteralmente da terra. A questo punto fu Helen a intervenire, scagliandosi contro il bullo e tirandogli un calcio nelle parti intime, a violenza inaudita. Questo prima aprì la bocca e poi cadde a terra agonizzante. Oswald, ansimando, rosso in viso, rischiò di cadere ma fu sorretto da Helen. Il terzo teppista, che aveva osservato incredulo la scena, mollò un ceffone alla ragazzina, che le fece volare via gli occhiali; Oswald la guardò: era la prima volta che la vedeva senza quelle lenti formato gigante . Ma non riuscì a vederla bene: infatti qualche minuto dopo, i due amici ascoltavano, rannicchiati schiena contro schiena a sentire il fragore delle onde, e gli stridi dei gabbiani, suoni che giungevano attutiti all’interno del bidone metallico in cui erano stati rinchiusi. Oswald aveva un gran male al collo, dove era stato afferrato, ed era sicuro che gli fossero rimasti dei lividi. Helen invece perdeva sangue dal naso e gli occhiali, che era riuscita a recuperare e rimettersi, erano scheggiati.

“Grazie” disse ad un certo punto la ragazza.

“Mi dispiace per il tuo ombrello”.

“Ah, non importa; almeno adesso non dovrò più portarmelo dietro... finché mia madre non me ne compra uno nuovo” fu la risposta del ragazzo. Istintivamente mise la sua mano su quella di Helen, e si sentì nuovamente fondere tutto il corpo. Stava per dirle qualcosa quando una luce accecante entrò nel bidone e i due ragazzi si ripararono gli occhi. Sopra di loro un vecchio pescatore li scrutava preoccupati. Aveva tolto il coperchio al contenitore metallico.

“Ragazzi, tutto a posto? Devo chiamare qualcuno?” chiese l’uomo.

“No, no signore grazie mille; solo uno stupido scherzo di alcuni ragazzi” si affrettò a dire Helen uscendo dal bidone con Oswald. Il pescatore non sembrava convinto, ma finì per andarsene. I due ragazzi senza più dire una parola, si diressero nuovamente verso casa mentre l’ombrello spezzato rimase lì a terra, inerme.

 

Fuori aveva smesso di piovere finalmente. La porta del salone si aprì e Gabe, uno dei più fidati scagnozzi di Oswald, entrò a grandi passi. Il ragazzo, ancora immerso nei ricordi davanti alla finestra, si voltò di scatto.

“Gabe” disse irritato.

“Ti prego di bussare prima di entrare. Spero che ci sia una buona ragione”.

“Ehm, in verità sì” disse lo scagnozzo.

“stanno facendo dei lavori nella strada principale. Quindi l’unico modo per giungere in orario all’appuntamento è prendere la strada pedonale, quella deserta”. Oswald gettò un’occhiata all’orologio: era già in ritardo. Usando la macchina avrebbe dovuto prendere la via più lontana.

“Quindi? Ti prego di trovare una soluzione. Come dovrei andarci all’incontro, a piedi?!” esclamò Oswald furibondo, buttando a terra la bottiglia di alcol che teneva sul tavolo.

 

“Roba da non crederci!” pensò più tardi. Stava camminando lungo una strada deserta, illuminata dai lampioni e con l’asfalto fradicio. Accanto a lui aveva due massicci tirapiedi, con mitra in mano. Certo, era abbastanza al sicuro. Ma stava comunque camminando. E lui era il re di Gotham! Non faceva altro che ripetersi questo nella testa, e ciò aumentava il suo cattivo umore. Il silenzio era rotto da strani gemiti e lamenti provenienti da un vicolo lì davanti, verso il quale si stavano avvicinando. In quel momento si sentì una portiera sbattere, e una figura minuscola sbucò fuori dalla stradina, sbattendo su Oswald che emise un’esclamazione di stupore. Gli scagnozzi puntarono le mitragliatrici, ma si fermarono subito: era solo un gracile bambino, di forse sette anni, vestito con un impermeabile rosso. Singhiozzava e tremava come una foglia. Prima che si potesse capire qualcosa riecheggiarono alcuni spari, e gli uomini di scorta caddero a terra morti. Oswald, che si era chinato sul bambino, voltò la testa di scatto: due tizi vestiti di nero avanzavano verso di lui, pistole puntate. Anche lui estrasse la sua, ma udì un colpo provenire da dietro le spalle, e avvertì un dolore tremendo alla mano; l’arma gli volò via, e dalla ferita prese a sgorgare sangue, aumentano il terrore nel bambino che prese a piangere più forte, aggrappandosi a Oswald. In un baleno vennero circondati da tre uomini: i primi due quelli vestiti di nero, mentre il terzo più colorato, vestito giallo e verde, i capelli di un biondo platino. Tutti e tre armati, i primi due con una pistola ciascuno, l’altro invece un fucile. Il biondo li guardò con calma.

“Ma tu guarda: se non sbaglio quello è il re di Gotham. A me interessa solo il bambino, ragazzi, ma qui abbiamo un terzo incomodo; che facciamo?” gli uomini scossero le spalle. Oswald aprì la bocca per cercare di dire qualcosa, ma, per la prima volta, aveva la bocca secca. Non c’era nessuno, lì attorno, e nulla che potesse essere usato come arma. Provò allora a mettere una mano in tasca per estrarre il cellulare, ma un’occhiata del biondo bastò a dissuaderlo.

“Vabbe’, lasciamo stare tutto il piano; liberiamoci di quei due e buttiamo i corpi in mare; tanto quella famiglia è povera, e un riscatto non lo avrebbero pagato comunque; e con il re di Gotham... la città conterà benissimo su di me”. Il biondo sorrise, e fece un cenno agli uomini che alzarono le pistole.

“Un momento...” iniziò Oswald, ma in quel momento si sentì un frastuono metallico, seguito da un urlo: uno dei due uomini in nero era stato colpito da qualcosa, e si accasciò a terra. Il biondo fece un cenno all’altro suo scagnozzo che continuò a tenere puntata l’arma sul ragazzo e il bambino; poi si avvicinò al corpo e sollevò ciò che aveva steso il suo compare: un coperchio metallico di un bidone. Si girò verso il tirapiedi:

“Che aspetti idiota? Falli fuori!” urlò con inaspettata violenza, e una punta di paura nella voce. Lo scagnozzo esitò, poi fece per premere il grilletto. In quella una figura gli planò addosso, facendo sì che il proiettile, invece di colpirla, sfiorò la testa del bambino il quale, ormai in preda al panico, scappò via urlando, senza che nessuno tentasse di fermarlo, e sparì in una strada accanto. La figura afferrò l’uomo in nero per il bavero del cappotto, sollevandolo, e lo scagliò sull’altro uomo già a terra. Poi raccolse la pistola caduta, e colpì i due corpi finché non si mossero più. Infine si girò verso il biondo, esponendosi alla debole luce di un lampione: indossava un passamontagna marrone, con due fessure per gli occhi, e due ciuffi nei punti in cui c’erano le orecchie: somigliava a un gufo. Il biondo tentò di spararle, ma la persona, in tutta tranquillità, gli si avvicinò, gli strappò il fucile di mano, e lo gettò verso Oswald che, da canto suo, era rimasto paralizzato, contro il muro, tenendosi la mano ferita.

“Chi-chi sei?” chiese con voce strozzata il criminale.

“Non fare arrabbiare Owl, il Gufo, l’unica e sola Signora della Notte” disse piano la persona con la voce arrochita e camuffata dal passamontagna. Poi estrasse da una federa che aveva sulle spalle un piede di porco e si scagliò contro l’uomo che prese a urlare: gli diede una manciata di colpi, fino lasciarlo a terra senza vita, una chiazza rossa che gli sporcava i capelli biondi e l’asfalto sotto di lui. La persona si abbassò e prese a esaminare il corpo, tenendo in mano la spranga di metallo. Oswald raccolse il fucile e glielo puntò contro.

“Dimmi... dimmi chi sei” disse cercando di mantenere il tono di voce fermo. La sua salvatrice alzò la testa: dai buchi del passamontagna vide due occhi. Occhi tondi, grandi, e di un azzurro innaturale.

“Helen?” chiese quasi sussurrando. La persona non parlò.

“Helen Darklight?” ripeté Oswald abbassando l’arma e avvinandosi a lei zoppicando.

La vigilante continuava a non parlare. Ora teneva la testa bassa, guardandosi le scarpe, come un bambino che ha fatto qualche malefatta vergognandosene. Oswald le arrivò vicino, prese il passamontagna e lo sfilò dalla testa: era proprio lei. I capelli sempre castani e stepposi, tanto da sembrare un maschio. La pelle non sembrava più così gialla come al loro primo incontro, e i foruncoli erano spariti. Era senza occhiali. I due si guardarono senza sapere cosa dire. Era da poco più di un anno che non si vedevano, ma sembravano secoli.

“Ciao Oswald. Lieta di vederti. Ti sanguina?” disse Helen alla fine indicandogli la mano.

“Ah, sì ma non è nulla” Oswald fece un lieve sorrisetto ricambiato.

“Dove abiti ora?” le chiese di colpo l’amica. Capendo l’allusione il ragazzo indicò un punto oltre i palazzi che si stagliavano attorno a loro.

“E tu fai pagare i criminali e prepotenti come meritano?” chiese poi. Helen annuì.

“Ma così... sono diventata una di loro. Pazienza, ci si abitua” disse, strappandosi un lembo del costume di cuoio che indossava. Poi prese a medicare la mano di Oswald, ignorando i brividi da cui veniva trapassato il ragazzo. Quest’ultimo, nonostante la sensazione di scioglimento che aveva ripreso a provare, era rimasto sorpreso dall’ultima frase detta.

“Quindi tu ora sei un Pinguino?” gli domandò improvvisamente Helen.

“...In un certo senso. Così come ora tu sei un gufo. Ma gli occhiali che fine hanno fatto? Fino a un anno fa ce li avevi” disse Oswald. Lei fece spallucce.

“Scomodi erano. Vanno bene anche le lenti a contatto. Faticoso buttare Fish giù dal tetto vero? Ah, ho quasi finito non muoverti” rispose lei. Lui rimase a bocca aperta.

“E tu come lo sai di Mooney?” Prima di rispondergli Helen termino’ la fasciatura e si portò molto vicino all’amico, che si sentì arrossire nuovamente.

“Non ti ho mai abbandonato” le sussurrò a un orecchio. Ad un tratto si sentì uno stridio: subito dopo un’auto della polizia fece irruzione nella strada, fermandosi vicino a loro e abbagliandoli con i fari. Dal veicolo scesero due poliziotti familiari: erano Jim Gordon ed Harvey Bullock. C’era anche il bambino con l’impermeabile rosso, il quale scrutava la scena dalla macchina e con un’espressione spaventata. Doveva essere stato lui a chiamarli.

“GCPD! Buttate a terra le armi! Ehi Jim quello è Pinguino! Che sta facendo?” esclamò Bullock. All’improvviso Oswald, ignorando la ferita, strinse le mani guantate di Helen e la guardò fissò, portando le loro facce ancora più vicine.

“Helen, ti prego, vieni con me: non possono arrestarti, sono il re di Gotham, domino anche la polizia: vieni a stare con me, non ti farò mancare nulla, vedrai, starai benissimo. Sai... anch’io sono un criminale” quest’ultima frase la disse bisbigliando. Lei lo guardò fisso prima di parlare:

“Oswald, grazie ma non posso accettare: questo era il tuo desiderio, il mio era quello di stare qua, a fare vendetta; forse ci siamo spinti oltre i limiti, ma facciamo sempre attenzione a non volare troppo alto. Devo andare ora. Però io starò sempre con te vedrai, ti vigilerò sempre”. Detto questo si protese in avanti e lo baciò. Oswald si sentì come un’ondata di lava coprirgli la faccia, una sensazione così bella che non aveva mai provato in vita sua. Lasciò cadere il fucile per cingere le spalle di Helen, avviluppandola anche in un abbraccio. I due poliziotti, che puntavano ancora le armi su di loro, restarono esterrefatti: a Bullock sfuggì una parolaccia, mentre Gordon fece un gesto che per poco non gli fece cadere la pistola. Helen si staccò a quel punto da Oswald e poggiò lentamente la fronte sulla sua, in memoria alla testata che si erano dati al primo tentativo di bacio, quasi vent’anni prima.

“Ricordati: sarò sempre con te” gli sussurrò un’ultima volta. Poi infilò una mano nella tasca, estrasse una specie di pallina metallica e la gettò per terra: un’immensa nube di fumo grigiastro si sprigionò facendo tossire tutti, e quando si diradò la ragazza era sparita.

“Ma... chi era quella?” chiese Gordon a Oswald avvicinandosi a lui. Questo non rispose. Continuava a fissare il punto in cui Helen era sparita. Quasi meccanicamente estrasse il cellulare di tasca e compose un numero.

“Gabe?... Sì, c’è stato... un contrattempo” Bullock emise un forte colpo di tosse quando pronunciò questa parola “vieni a prendermi, sposterò l’incontro a un’altra volta”.


Poco dopo l’auto guidata da Gabe slittava lungo la strada. Oswald teneva la fronte appoggiata contro il vetro e ripensava a ciò che era successo; non c’era stato molto da spiegare ai due poliziotti, e, appena arrivato Gabe, Gordon e Bullock erano andati a riportare il bambino rapito alla propria famiglia. Ma Oswald pensava solo a Helen. Alle botte subite insieme negli anni scolastici, alle passeggiate nei parchi e al porto, alle scuse inventate ai genitori ignari per incontrarsi. E, addirittura, ad alcune risate. E poi c’era il bacio. Sarò sempre con te gli rimbombava nella testa. All’improvviso si sentì pungere gli occhi, e le lacrime presero a scendergli sulle guance. Per la prima volta non tentò di asciugarsele o tapparle. Le lasciò scorrere. Si mise a muovere le labbra, in un muto, disperato richiamo; e nel frattempo, sui tetti alti dei palazzi, l’Owl, il Gufo, la Signora della Notte, scrutava il veicolo piangendo anch’essa, la bocca che emetteva lamenti strazianti che risuonavano per le case.

 

   
 
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