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Autore: Lizbeth_O_Connor    18/06/2016    0 recensioni
Lizbeth Walsh è una diciassettenne inglese cresciuta a Firenze e costretta ad abbandonare i suoi amici per trasferirsi a Roma Capitale.
La sua vita cambierà radicalmente nel giro di poco tempo.
Salteranno fuori vecchi demoni e si ritroverà costretta a dover affrontare nuove problematiche che mai avrebbe immaginato.
Una storia d'amore, amicizia e droga.
Quando esplode una scintilla, come fai ad impedire l'incendio?
Genere: Drammatico, Generale, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Violenza
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Storia, la materia più noiosa che Lizbeth avesse mai studiato. Ogni mattina, durante quell'ora, sembrava che il suo banco diventasse un cuscino maledettamente invitante cui cedeva ogni volta.
Se dobbiamo dimenticare il passato, perché bisogna studiare storia? Liz odiava studiare storia. Era frustrante dover studiare gli errori di altre persone, a lei bastavano già i suoi che erano anche troppi.
«Signorina Walsh, la vedo molto interessata alla mia lezione. Perché non ripete ciò che ho detto fino ad ora?» Maledetta seconda fila, maledetto liceo e maledetta professoressa di storia. Tra tutti gli studenti che c'erano in quella classe, proprio lei doveva riprendere ogni volta.
«Ehm, allora, Firenze era la culla del Rinascimento, un periodo nel quale la città stessa, che aveva già dato Natali a Dante Alighieri, era percorsa da grandi come Da Vinci, Lorenzo il Magnifico, Raffaello Sanzio...»
Firenze. Fra tutte le città straniere era diventata certamente la sua preferita. Più ci vivi e più ti rendi conto di essertene innamorato. È così accogliente che alle volte si sentiva fiorentina. Passeggiando per le strade di Firenze, si poteva respirare l'atmosfera affascinante che può regalare solamente l'arte fiorentina che si mostra agli occhi di tutti, così pura in tutta la sua essenza, in pratica palpabile.
«Può bastare. Se dovessi ritrovarla a dormire durante la mia ora, mi ritroverò costretta a prendere seri provvedimenti, signorina.» annuì e, non appena la professoressa tornò alla sua spiegazione, si sdraiò nuovamente sul banco ma qualche attimo dopo, suonò la campanella, quindi si alzò lentamente sbuffando e si stiracchiò.
«Sonno anche oggi?» 
Diana era certamente la sua più grande amica. La conosceva da quando si era trasferita a Firenze. Aveva soltanto cinque anni ed era arrivata a scuola da pochi giorni.

Diana è seduta su una piccola sedia di plastica nella sua classe. I lunghi capelli biondi le cadono sul viso che tiene chino sul foglio dove il disegno di una farfalla multicolore sta prendendo vita sotto le sue dita, troppo abili per appartenere a una bambina di cinque anni. Poggia un attimo la matita sul banchetto di legno e si porta indietro i capelli con entrambe le mani. È stanca di tenere i capelli sciolti. Le danno troppo fastidio mentre disegna e lei odia che qualunque cosa si metta tra lei e le sue matite. Si alza in piedi e va in cerca della sua maestra perché le possa intrecciare i capelli, fino a quando non sente le voci di alcuni bambini poco distanti. Incuriosita, decide di avvicinarsi al punto da dove suppone arrivino le voci e poco lontano vede quelli che dovrebbero essere i suoi compagni. Si avvicina e sentendoli ridere si chiede cosa stiano guardando di tanto divertente e al solo pensiero sorride e si mette a correre verso di loro. Non appena vede quello che sta succedendo corruga la fronte e si fa spazio tra la folla avvicinandosi a quella nuova seduta sopra suo fratello, disteso a pancia in giù e con la testa reclinata indietro, tenuta per i capelli dalla bambina.
«Cosa fai a mio fratello?» le urla pensando a cosa fare per poter allontanare l'Inglese da suo fratello. La bambina dagli occhi azzurri si gira verso la bionda lasciando la presa dai capelli del bambino sotto di lei.
«Ha detto che il mio disegno era brutto.» si giustifica facendo spallucce e alzandosi dalla schiena di chi aveva osato offendere le sue doti artistiche.
L'altra, ormai col viso paonazzo per la rabbia, fa per lanciarsi addosso all'aggressore di suo fratello il quale la blocca in anticipo. Se quella bambina era riuscita a mettere k.o. un bambino più grande, non solo d'età, ma di statura, non osava immaginare cosa avrebbe fatto a sua sorella.
«Lasciami stare Manuel!» urla cercando di liberarsi dalla presa ferrea del più grande. Lui scuote la testa e la stringe più forte.
«Dai Diana, dobbiamo andare a casa.» dice lui ricordandosi il motivo per cui è passato alla scuola materna prima di raggiungere i propri genitori fuori dalle elementari.
La biondina decide di calmarsi e fa un grande sospiro senza distogliere lo sguardo da quello della bambina nuova.
«Non devi fare male a mio fratello, hai capito bambina nuova?» la avverte cercando di essere minacciosa. La bambina dagli occhi glaciali solleva un sopracciglio chiedendosi se la piccoletta davanti a lei faccia sul serio.
«Ho un nome, lo sai?» risponde ignorando completamente la sua minaccia.
«Mi chiamo Lizbeth.» aggiunge e, senza aspettare una sua risposta, si volta prendendo il suo zainetto e si allontana verso l'uscita.


Il loro primo incontro non fu esattamente rose e fiori ma Lizbeth sapeva che quella bambina piena di coraggio da sfidare qualcuno decisamente più forte di lei, sarebbe diventata sua amica. Ebbero, ogni tanto, qualche battibecco ma niente che una tranquilla conversazione non fosse riuscita a sistemare.
«Storia è decisamente un'ottima alternativa a qualunque sonnifero conosciuto e ancora mi chiedo come faccia a piacerti una materia simile.» Diana scosse la testa sorridendo. 
Tra le due era sempre quella un po' più seria, perlomeno per quanto riguardava la scuola. Ciò non toglieva che anche lei, delle volte, avesse trasgredito a qualche regola, anche se in effetti, la colpa era sempre stata di Lizbeth.
«Oggi pomeriggio alle 15:30 al solito posto?» 
«Facciamo 16:00, devo ancora impacchettare le cose per il trasloco.» rispose Lizbeth sistemando il suo materiale scolastico all'interno della borsa.
«Ancora non posso crederci che te ne vai.» disse dispiaciuta.
«Nemmeno io, credimi.» sospirò e si alzò. Salutò Diana, e s'incamminò verso l'uscita dell'istituto.
Una volta raggiunta, rabbrividì. Era fine Ottobre e il freddo autunnale diventava ogni giorno più insopportabile, sempre se non stessi uscendo da una cella dopo sei ore scolastiche. Fece un lungo respiro sorridendo e s'incamminò verso casa accendendosi una sigaretta. Tirò una lunga boccata e fece appena in tempo a superare il cancello che sentì una voce familiare chiamarla.
«Dove scappi Walsh?» si voltò e sorrise al suo migliore amico.
«Mi accompagni a casa?» chiese a Matteo, il quale annuì e le porse la mano in attesa di qualcosa. Tirò un sospiro e, capendo la sua richiesta, tirò fuori il pacchetto di sigarette per poi offrirgliene una. La accese e lei riprese a camminare con lui al suo fianco.
«Allora, tra poco arriva il grande giorno.» disse e lei annuì senza riuscire a trattenere una smorfia. 
«Già. Due giorni e "ciao, ciao Firenze!".» tirò un'altra boccata di fumo e lui l'imitò subito dopo.
«Non posso crederci che dopo quattordici anni ci diremo addio.» lo guardò male e tirò un'altra boccata prima di rispondergli.
«Non dirlo nemmeno scherzando. Ci sentiremo tutti i giorni e i miei mi hanno promesso che mi avrebbero concesso di tornare almeno due volte al mese.» tirò per l'ennesima volta dalla sigaretta e decise di buttare ciò che ne rimaneva a terra per poi acciaccarla con la punta della scarpa.
«Non sarà lo stesso, ma è già qualcosa.» aggiunse poi.
«Sarà strano non vederti tutti giorni a scuola.» disse semplicemente. Annuì e abbassò lo sguardo continuando il tragitto in silenzio. Arrivarono davanti casa di Lizbeth che si voltò per salutare Matteo, che nel frattempo stava facendo l'ultimo tiro di sigaretta. Accennò un sorriso non appena incontrò il suo sguardo.
«Ci vediamo più tardi, okay?» disse lui e lei annuì. Lo salutò con la mano indietreggiando verso la porta di casa e, non appena ne varcò la soglia, fece un sospiro. Chiuse la porta, buttò lo zaino in terra e si levò le scarpe,quindi raggiunse la sua famiglia in cucina e accennò un sorriso levandosi la giacca di dosso e poggiandola su una sedia.
«Come è andato l'ultimo giorno di scuola tesoro?» chiese suo padre, un uomo distinto e sofisticato, oltre ad un grande avvocato. Molto professionale nel lavoro ma in famiglia era l'uomo più dolce e affettuoso che una donna potesse desiderare di sposare ed un giovane potesse volere come padre. Non fece mai mancare loro niente e allo stesso tempo riuscì a insegnare loro il valore delle cose e, soprattutto, delle persone. 
«Come gli altri giorni.» disse semplicemente sedendosi sulla sedia e iniziando a gustare il pranzo che quella grande cuoca di sua madre aveva servito loro. Lei era una psicologa troppo fissata col suo lavoro. Tendeva molto a psicoanalizzare chiunque, persino i suoi figli e Lizbeth non capiva più se lo facesse apposta o se oramai le veniva naturale.
«Io invece ho preso dieci al compito di fisica.» disse Richard senza essere interpellato.
Lui era sempre il primo in tutto e non perdeva mai occasione per mettersi in mostra e questo era spesso motivo di litigio tra i due gemelli. Lei odiava che dovesse sempre cogliere l'occasione per elogiarsi e, in caso non si presentasse, di crearne una.
«Non mi sembra che qualcuno te l'abbia chiesto, Richard.» gli rispose seccata e senza rivolgergli la minima occhiata e subito lui iniziò a scimmiottarla convinto che potesse, in qualche modo, darle fastidio. Come se certe bambinate potessero colpirla.
Finì il pranzo e si alzò da tavola sparecchiandola dalle sue stoviglie e dirigendosi, poi, in camera sua per finire di impacchettare le sue poche cose.
I suoi genitori le dissero che si sarebbero trasferiti in una casa già arredata e che loro avrebbero dovuto occuparsi di portarsi le cose più personali, quindi impacchettò giusto le foto con cui aveva riempito un'intera parete e i quadri che più le piacevano, oltre i suoi abiti, ovviamente.
Impiegò un'ora e mezza circa per staccare tutte le foto e riporle negli scatoloni e riuscì giusto a sistemare qualche altra cornice e qualche abito in una valigia che sentì il suo telefono squillare.
Lo tirò fuori dalla tasca posteriore dei suoi jeans e rispose senza guardare il mittente della chiamata mentre continuava a sistemare i suoi vestiti dentro lavaligia.
«Pronto?» rispose distrattamente.
«Liz ma dove sei finita?» allontanò il telefono dall'orecchio e guardò lo schermo per essere sicura che la voce femminile dall'altra parte del telefono appartenesse a Diana. Sì, era proprio lei. Guardò l'orario e si rese conto di essere in ritardo di quasi un quarto d'ora e sicuramente i suoi due migliori amici la stavano aspettando spazientiti insieme al resto del gruppo.
«Stavo impacchettando la mia roba e non ho fatto caso all'ora. Infilo le scarpee arrivo.» disse e, senza aspettare una risposta, attaccò la chiamata.
Posò il telefono sul letto e corse all'ingresso indossando le scarpe, passò in cucina a prendere la giacca e poi di nuovo in camera per recuperare il telefono.
«Io esco!» urlò uscendo di casa.
Iniziò a correre per raggiungere le rampe, il loro solito punto d'incontro,cercando di non inciampare a ogni singolo ostacolo che incontrava e, stranamente, riuscì a schivarli tutti, riuscendo ad arrivare sana e salva a destinazione nel giro di cinque minuti.
Si guardò intorno alla ricerca dei suoi amici e, non appena riuscì a individuarli, li raggiunse poggiando le mani sulle ginocchia nel tentativo di riprendere fiato.
«Con calma Walsh.» 
Guardò Matteo con l'intento di rispondergli in malo modo ma non appena lo vide sorridere, non riuscì a fare a meno di imitarlo.
Si mise dritta con la schiena e poggiò le mani sui fianchi tirando un ultimo sospiro.
«Credo di aver battuto ogni record.» disse ridacchiando.
«Non c'era bisogno che corressi, tanto eri già in ritardo.» scherzò Manuel, il fratello di Diana. Ci fu un periodo in cui erano stati fidanzati. Avevano dodici anni e non finì nel migliore dei modi.
Scosse la testa e si sedette vicino a Diana.
«Non c'era bisogno che tu venissi, in realtà.» ed ecco Cristina, l'odiosa fidanzata di Matteo. Stavano insieme da un anno e mezzo e si conoscevano da due. Lizbeth non capiva cosa ci trovasse il suo migliore amico nella rossa.
«E lei chi l'ha invitata?» disse infastidita guadagnandosi un'occhiataccia sia dal suo migliore amico che dalla sua fidanzata.
«Lasciala perdere e vieni con me in pista.» s'intromise Daniele che si era appena fermato con il suo skateboard.
«Saranno due settimane che non salgo più sulla tavola e ci tengo ancora alle mie ossa.» disse facendolo ridere.
Daniele era il fratello gemello di Matteo e l'unica cosa da cui si riusciva a distinguerli, erano gli occhi. Occhi marroni per Matteo e verdi per Daniele. 
«Pensavo fossi abituata a certe cadute.» le rispose Elena, e con lei finisce la lista degli amici di Lizbeth. Elena era la figlia più piccola della famiglia Romei, in altre parole la sorella minore di Daniele e Matteo. Anche lei, come il fratello maggiore, amava lo skateboard ed era anche piuttosto brava. 
«Sì, ma vorrei arrivare a Roma senza qualche osso rotto.» rispose alla moretta che le sorrise per risposta.
Tra una chiacchiera e l'altra, presto arrivò il momento di tornare a casa.
S'incamminarono tutti verso casa di Lizbeth, tranne Matteo che decise di accompagnare Cristina.
Una volta arrivati, la ragazza dagli occhi di ghiaccio salutò tutti e subito notò gli occhi lucidi di Diana. Non ci mise molto a capirne il motivo.
Si guardarono per qualche secondo e poi si buttarono l'una nelle braccia dell'altra. Diana scoppiò in un pianto disperato e Lizbeth dovette combattere con tutte le sue forze per evitare di fare lo stesso.
In soli due giorni si sarebbero dovuti salutare, si sarebbero visti poco e niente e nessuno riusciva a sopportare quella situazione, men che meno Lizbeth e Diana.
Dopo qualche minuto interminabile si staccarono, si guardarono dritte negli occhi e scoppiarono a ridere.
«Guarda come ci siamo ridotte.» disse Lizbeth facendo ridere ancora di più l'amica.
Guardò i suoi amici uno a uno e salutò loro fissandosi appuntamento al giorno successivo.
Entrò in casa e corse in cucina per affacciarsi alla finestra e guardare i suoi amici allontanarsi da casa sua e notò Matteo raggiungerli in corsa e dire loro qualcosa.

«Lizzie aspetta!» grida Matteo rincorrendo la mora per tutta la scuola.
«Non ho tempo da perdere Matteo.» dice sbuffando e proseguendo a passo svelto per i corridoi.
«Ma guarda che è una cosa importante!» insiste raggiungendola e parandosi davanti a lei che prontamente sposta il viso di lato per evitare il suo sguardo. Sa che s'infurierebbe ancora di più se guardasse i suoi occhi rovinati da uno stupido litigio nato da una motivazione inesistente.
«Sentiamo.» dice sperando che ascoltarlo serva a liberarsi da lui più facilmente.
«Quello che ho detto a Daniele non è vero. Cioè, non è esattamente la verità. Cioè, non è come sembra.» cerca di spiegare il moro.
«Perché, tu come interpreteresti "non puoi stare con lei"?» dice alzando lo sguardo sul suo e serrando la mascella per evitare di prenderlo a pugni.
«Perché mi pare di aver sentito questa frase anche quando stavo con Manuel. Allora la scusa era che Manuel mi tradiva e sì, era vero, ma io e tuo fratello non stiamo nemmeno insieme quindi che pensi di inventarti?» Matteo si strofina gli occhi pensando a cosa dire e geme dandosi mentalmente dello stupido per aver toccato l'occhio livido.
«Mi piaci.» dice tutto ad un fiato.

A Matteo non era mai piaciuta veramente Lizbeth, per lui era come una sorella ma a quattordici anni è facile confondere amore con amicizia.
Si sorrisero entrambi in automatico e lui si sbracciò per salutarla e, dopo essere scoppiata a ridere, lei lo salutò con la mano decidendo, poi, di salire in camera sua. Quella sera sarebbe andata a letto a stomaco vuoto. Aveva bisogno di addormentare ogni singolo pensiero negativo prima di scoppiare in lacrime e rischiare di passare una notte in bianco.
  
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