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Autore: Lettrice_del_mondo    23/06/2016    0 recensioni
I banchi splendevano lucidi sotto i raggi del sole, attraversati dalle finestre pulite, la lavagna veniva incisa da un gessetto. ma, quando l'ultimo libro della giornata veniva chiuso, la porta chiusa dietro le spalle del professore, il sole iniziava a calare con rapidità. E, ad ogni scocco dell'orologio, i passi nelle strade aumentavano, il vociare iniziava a riempire qualsiasi angolo, gli occhi raccogliere qualsiasi movimento, i telefoni mandare nuovi messaggi, i bambini dormire, le macchine mettersi in moto, i computer funzionare, le televisioni mandare in onda programmi per adulti, la gente diventare libera, le finestre abbassarsi, i negozi chiudersi, gli angoli bui riempirsi di gente, le discoteche occupare tutti i posti liberi, il bagliore della luna risplendere nel buio, l'aria catturare l'ultimo respiro, le mani afflosciarsi nel tentativo di un appiglio di salvezza, i sorrisi ghermire l'ultima goccia di vita, le grigie mattonelle macchiarsi di segreti e sangue, infinito toccava i passanti portando con se paura e timore.
Il telefono squillò. Squillò. Lo stridulo segnale appuntito come lame di coltelli. Si diffondeva. Silenzioso. Stridulo. Mortale. La morte creata come un gioco. Le vite strappate come cibo. Insaziate.
La luna calò. Comparve il sole.
Silenzio.
Genere: Horror, Mistero, Thriller | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Il pulman sarebbe partito e Yennelle avrebbe perso la possibilità di arrivare a scuola in comodità. Indossava ancora il pigiama sgualcito, i capelli spettinati, gli occhi rossi per l'insonnia. In pochi secondi non sarebbe riuscita ad arrivare neanche alla porta della sua camera. I piedi iniziarono a strisciare, come quelli di uno zombie, barcollava nei piccoli passi che faceva. Le scoppiava la testa, stordita. Cosa aveva fatto ieri sera? Non se lo ricordava. Forse aveva bevuto troppe birre davanti al televisore, ma come poteva far tacere le urla di gioia della sua vicina Margot? Aveva urlato, per tutta la sera, le luci della casa accese, le finestre che nascondevano cosa stesse facendo. Prima bottiglia, ma la voce non svaniva; aveva provato ad alzare il volume, nulla, il volume elevato non battevano le sue corde vocali. Seconda bottiglia, ed era ancora lì, divertita e presente, orribilmente presente. Terza bottiglia. Quarta. Quinta. Aveva smesso di contarle. La luce accecante della casa De Mark ormai non la infastidiva, le urla non erano neanche un problema, come se non avesse mai parlato, come se fosse stata in silenzio, da sempre. La televisione era accesa, ma, quella mattina, non si ricordava cosa stesse vedendo, perché era davanti al televisore. Le mani strette intorno alla testa. Un martello pneumatico acceso nel suo cranio, solo, a torturarla. Tentò di vestirsi. Indossò l'orrida divisa della scuola. Calze color pelle, gonna a metà coscia verdognola, con linee rosse e nere, una camicia panna, una giacca beige, una cravatta nera e delle scarpe nere lucide. La voce della signora Seville risuonò dal piano inferiore, urlava ormai da un'ora, in attesa di veder scendere la figlia. Yennelle raccolse di corsa la borsa, se la mise sulle spalle e scese. I corti capelli neri che venivano legati in una coda alta, la mano che copriva la bocca assonnata. La statua ornata di rune, un'età di 40 anni e un sorriso quasi perso, aspettava davanti alle scale, un cucchiaio di legno tra le mani, gli occhi simili a due falò ardenti, le vene delle mani visibili per la forzata stretta e l'intento di non gridare. Ormai Yennelle conosceva bene la madre, sapeva che la rabbia, col passare dei giorni non sarebbe sbollita, sapeva cosa sarebbe successo. Aprì la bocca, ma non parlò, richiuse le labbra e salì le scale, senza fare rumore. Le gambe di Yennelle si mossero velocemente, scese le scale e, diretta fuori dalla porta, prese il sacchetto per il cibo sul bancone nella cucina, preparato da sua madre, come tutte le mattine. La porta sbatté non appena lei la chiuse. Fuori dalla casa c'era gente. Le loro voci erano uno sciamare di parole, grida. Dannazione, pensò Yennelle, abbassando ancora di più il cappuccio sulla testa e alzando il volume del Mp3, non possono starsi zitti a prima mattina? Stronzi. Accelerò il passo, per la prima volta desiderosa di arrivare a scuola, il prima possibile. Si fermò affianco al semaforo, dove una coppietta si stava sbaciucchiando, affianco a lei. Senza pudore!! Il semaforo risplendeva le sue rosse fiamme infuocate, le macchine attraversavano mentre i pedoni aspettavano il verde. I clacson iniziarono a suonare, senza fermarsi, finestrini abbassarsi, mani agitarsi chiusi in pugni, insulti lanciati per poi ripartire. << Idiota. >> Una Fiat Qubo grigia era ferma, la macchina che toccava la gamba di Yennelle, il braccio semi abbronzato dell'uomo che sventolava fuori, il viso corrugato dalla rabbia nell'interno dell'abitacolo. << E' rosso! Ci vedi? >> Con l'altra mano spingeva il clacson. I grandi occhi grigi di lei fissi sull'uomo, sbalordita. Senza molto interesse oltrepassò l'auto e si fermò sul marciapiede opposto, il traffico ormai fluido. Arrivò a scuola. All'entrata un gruppetto di ragazze in cerchio a parlare, intorno a loro erano tutti silenziosi. Una graziosa ragazzetta, bassa e minuta, dalla lunga chioma rossa legata in una treccia, cercò di avvicinarsi, l'esile mano tesa in avanti, vicino alla spalla di un membro del cerchio, tremava, con l'altra stringeva la manica nera dello zaino. Cadde. I polmoni smisero di respirare. La mano penzolante, la testa bassa, triste. Yennelle si diresse in classe, pensierosa. Il professore non era ancora lì. La lavagna ancora pulita, la classe ancora vuota. La classe si riempì poco dopo. Il professore entrò, i libri buttati sulla scrivania, il computer traballò per l'eccessivo peso inaspettato. La sedia venne spostata rumorosamente, creando delle strisce nere sul pavimento, il segno dei gommini neri sotto le gambe metalliche, quasi arrugginite. Sopra la sedia di legno poggio' la giacca. Il corpo direzionato verso la lavagna, il gesso bianco stretto nella mano destra, la polvere bianca incisa sulla lavagna nera: Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde. Il gesso posato insieme agli altri. Gli occhi del professore cupi su tutti i suoi alunni. << Alter ego. >> Era serio, qualcuno stava prendendo già appunti. << Voi piccole creaturine forse non avete mai sentito parlare del signor Hyde o del dottor Jekyll o dell'alter ego. Che paroloni!! >> ci scherzò su. Le mani dietro la schiena, silenzioso diretto tra i banchi. Fissava i ragazzi tra i banchi alla sua destra e alla sua sinistra. << Alter ego. Alla fine tutti noi ne abbiamo uno, forse non lo sappiamo neanche noi. >> Il professore di psicologia viaggiava tra le alte chiome giovanili. << 1646. Paracelso. Diagnosticò il primo caso di disturbo dissociativo, come Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde. >> Ormai era vicino alla cattedra. Affianco al computer una sacca beige. Si avvicinava ai ragazzi e, pian piano, poggiava dei libri sui banchi. << Ovviamente vorrei che leggeste l'intero libro. Tutto. >> sottolineò quella parola. Tutto. Si fermò davanti ad un banco vuoto, sospirò. La voce quasi smorta. Era un estranea alle successioni di avvenimenti nel mondo. Solamente rannicchiata in un angolo oscuro del mondo, sperando che un esile raggio la catturarasse, rendendola, per un solo istante, presente tra gli imponenti grattaceli, le vite di chi circondava il suo corpo. << Ci sono diversi libri, autori. Di tutto. Voglio che, entro la fine del mese, voi conosciate il dottor Jekyll e il signor Hyde come voi stessi. >> Sempre se vi conosciate realmente, una vocina, in fondo alla testa di Yenelle sussurrò quelle parole. Il professore continuò a spiegare, gli occhi di Yenelle fissi al muro. Il pallido grigiore dei suoi occhi persi ad ascoltare quella stridula vocina. Ti conosci, Yenelle? Il pullman si fermò bruscamente al fianco della casa Seville. C'erano ragazzi affacciati all'altro lato del pulman, le voci basse, gli occhi fissi, dritti in un buco oscuro. La porta di vetro dello scuolabus arancione si aprì, un rumore stridente. Le suole degli stivaletti neri scesero i pochi scalini. Le chiavi nella toppa della porta. Questa si aprì e la ragazza oltrepassò la soglia. Non appena entrò sentì il suo telefono squillare. Stefanie. La ragazza rispose alla chiamata, il telefono vicino all'orecchio. Sentiva un sottofondo di musica dall'atra parte del telefono. 《 Che succede?》 L'amica, una ragazza bassina dai capelli biondi, esultò. Dio.... Prese un bel respiro. 《 Oggi non eri a scuola. Come mai? 》 Sembrava stesse bevendo, la musica sempre più alta. Una sinfonia unica, reale, conosciuta, una sfrenetica danza di musica e alcol. 《 Amore. 》 Era ubriaca. I piedi barcollavano sul pavimento di legno. 《 La vita è favolosa! Dobbiamo festeggiare. 》 Rideva, non si fermava. Silenzio. Silenzio mortale. Un silenzio straziante. 《 Ops. Si è rotta. Si, si è rotta. 》 Una risata singhiozzante. I piedi sopra i vetri della bottiglia. 《 Vieni stasera, ci sarà anche Venye. 》 L'assente sottofondo, il vuoto presente. I raggi del sole si spergevano tra le nuvole pallide e rassicuranti, le fredde lacrime tetre non sarebbero scese, sarebbero rimaste imprigionate in aria, penzolanti, in attesa, a fissare l'infinito vuoto sotto di esse, le gambe a mezz'aria, gli occhi spenti. Il corpo senza vita, era immobile, gli occhi fissi al televisore, una successione interminabile di ciò che era solo invenzione, le gocce di gioia mutate in aspra dolcezza. Yennelle cercava di guardare la televisione, vedere alcuni nuovi post su Facebook. " Il mio amore. " indicava una foto di Tori. Conati di vomito, poteva pensare solo a ciò. Lanciò il telefono sul divano. Come possono solamente pensare di essere felici, felici a ricevere dei like per una stupida foto in cui limonano con il proprio fidanzato. Solo uno scambio di germi, forse anche malattie. Come possono, minimamente, pensare di poter, finalmente, morire di gioia? Gli occhi trasparenti come vetro fissi sul suo corpo, lo specchio davanti, in attesa di vederlo, trasformare in uno specchio che, ai suoi occhi e alla visione di chiunque provasse a guardarla, la facesse diventare bella. Perché non possiamo essere lì, noi, al suo posto? << No. >> gridò. Yennelle? Non lo sai? Sì, lo vuoi. Vuoi essere al suo posto. Vuoi avere tutte quelle notifiche. Vuoi essere come Tori. Come Barbara. Come Laura. Come Margot. Come.... << Margot... >> Non erano parole, non erano dei movimenti, un sussurro sarebbe stato profondo, intenso, udibile. Il tremolio di mille paure intensificate e unite in due sottili labbra rosee, sole, in attesa di un aiuto, di un'ancora di salvataggio. Si. Si. Lei. Il suo nome è ciò che regge il tuo cuore, ciò che ora farà muovere le tue gambe, ciò che ti farà fare ciò per cui sei nata, per cui sei stata creata. Non sei qui per gioire. L'orrida paura sul suo volto, la voglia di scappare, rifugiarsi, la possibilità di trovare la più veloce ed efficace via di uscita. << NOOOO. >> urlò terrificata. Il pugno contro il vetro. Lo spacco, finalmente, le faceva vedere chi era realmente. Il volto chiaro, gli occhi due sottili fessure. Un ghigno. Solo un ghigno. Lei. Solo lei. Passo dopo passo, unendosi in un veloce sfociare di camminate. Piano, piano. Gli occhi chiusi in se. Più veloci, veloci. Alla ricerca di una via di sfuggita. La gente sparpagliata, mille pezzi di gocce diverse e uguali, bianche, nere, blu, colori vasti dell'arcobaleno, sfocati, grandi, piccini, persi, ma, pur sempre, uguali, i raggi inebrianti conficcati in ognuno di loro, diversi ma uguali, trasparenti, vuote. I raggi solari trafiggevano le diversità, le risucchiavano, se ne cibavano, se ne impadronivano, e rendevano quelle gocce tutte uguali, identiche, copie senza fine. I piedi veloci cercavano di schivare i colpi degli avversari, ganci, montanti, volevano cambiarla, renderla come loro, senza vita. Gli occhi vitrei inebriati dalla grigia e inespressa nebbia grigia fissavano la grande casa davanti a lei, oscurata dalla luna, uguale nella sua diversità temporale. La nebbia. Il grigiore. Le nuvole. La pioggia. Non saresti capace di attraversare la soglia. Le sussurrò qualcuno nell'orecchio. Il silenzio cigolante delle assi della porta d'ingresso ruppero il bagliore lunare, gli occhi speranzosi di una clamorosa ritirata. Cercava di parlare. Urlava. La mano serpeggiante, silenziosa, letale. Sarebbe finita la sua vita se avrebbe oltrepassato la porta. Se avesse solo inebriato quell'aria. Yennelle non sarebbe più stata Yennelle. Non sarebbe stata lei. La luna pianse. Urlava sperando che non entrasse in quella casa. << Si. >> Gioiosa. No. Sussurrava la luna, vogliosa della sua piccola amica. Speranzosa nel suo ritorno.
   
 
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