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Autore: Vago    24/06/2016    2 recensioni
Libro Secondo.
Dall'ultimo capitolo:
"È passato qualche anno, e, di nuovo, non so come cominciare se non come un “Che schifo”.
Questa volta non mi sono divertito, per niente. Non mi sono seduto ad ammirare guerre tra draghi e demoni, incantesimi complessi e meraviglie di un mondo nuovo.
No…
Ho visto la morte, la sconfitta, sono stato sconfitto e privato di una parte di me. Ancora, l’unico modo che ho per descrivere questo viaggio è con le parole “Che schifo”.
Te lo avevo detto, l’ultima volta. La magia non sarebbe rimasta per aspettarti e manca poco alla sua completa sparizione.
Gli dei minori hanno finalmente smesso di giocare a fare gli irresponsabili, o forse sono stati costretti. Anche loro si sono scelti dei templi, o meglio, degli araldi, come li chiamano loro.
[...]
L’ultima volta che arrivai qui davanti a raccontarti le mie avventure, mi ricordai solo dopo di essere in forma di fumo e quindi non visibile, beh, per un po’ non avremo questo problema.
[...]
Sai, nostro padre non ci sa fare per niente.
Non ci guarda per degli anni, [...] poi decide che gli servi ancora, quindi ti salva, ma solo per metterti in situazioni peggiori."
Genere: Avventura, Azione, Fantasy | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Leggende del Fato'
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 Seila guardò di nuovo la botola per terra.
Erano passati tre giorni da quando Nirghe l’aveva lasciata lì, da sola.
Cosa pensavano? Che lei da sola fosse in grado di sconfiggere qualcuno? I Serpenti avevano bisogno di preparativi lunghi, non potevano combattere quando volevano.
Delle risate sguaiate risuonarono poco lontane. Ad accompagnarle c’era un rumore di diversi scarponi che battevano contro il terreno e un suono di ferro contro ferro.
Erano tanti gli uomini che si stavano avvicinando.
Il Serpente si guardò intorno. Nella radura non c’era un solo posto per nascondersi e se fosse rientrata nella Grande Vivente non sarebbe riuscita, probabilmente, a ritrovare quel posto.
L’erborista guardò con disgusto la botola davanti a lei. Poi l’aprì e si fece largo con le lacrime agli occhi tra le spesse ragnatele che costellavano il cunicolo che si presentava oltre l’apertura nel terreno.
La botola si richiuse alle spalle dell’elfa poco prima che un gruppo di uomini entrasse all’interno della radura.
Seila avanzò a tentoni, muovendo la lunga cerbottana nel buio, con grosse lacrime che le rigavano il viso e le cadevano dal mento sulla camicia. La mano sinistra, intanto, tastava il muro. Un urlo acuto uscì dalla sua bocca quando incontrò un’ampia ragnatela che ostruiva tutto il passaggio.
Solo dopo parecchi metri nella più totale oscurità la mano dell’elfa bionda andò a toccare un freddo anello in ferro, una porta in legno riposava sotto questo.
L’elfa tirò con quanta forza aveva in corpo, smuovendo quel battente quel poco che bastava per far filtrare un’innaturale luce blu nel corridoio.
Il Serpente scivolò nella stanza dalla quale la luce proveniva.
Sul soffitto, pendente, un’unica, lunga stalattite luminosa scendeva verso il pavimento, dove ristagnava un sottile velo d’acqua.
Sulla parete della sala circolare, oltre a quella dalla quale era entrata Seila, riposavano due porte identiche.
- C’è qualcuno? – urlò a gran voce l’erborista, sentendo solo il rimbombo delle sue parole contro le pareti umide.
Seila provò a fare qualche passo avanti, cercando di evitare di mettere il piede nelle pozzanghere melmose che costellavano il suolo.
Una brezza parve soffiare per una frazione di secondo all’interno della sala. Poco dopo una delle due porte si aprì, lasciando lo sguardo spaziare nel nero più scuro che si possa immaginare. Nulla si riusciva a cogliere oltre quella soglia.
Poi una figura si fece avanti lentamente. La testa era larga, mentre il corpo pareva ondeggiare, colpito dalla luce della stalattite azzurra.
Una mano guantata oltrepassò la cornice della porta.
Seila saltò indietro, cercando disperatamente la porta dalla quale era entrata, ma trovando solo una liscia parete che non lasciava nemmeno sperare in uno spiraglio.
Un corpo ricoperto di lunghe piume comparve nella grotta.
- Ma che… -
- Jasno? – chiese il Serpente con le spalle premute contro la parete umida.
- Seila? Che ci fai qui? – chiese di rimando l’elfo albino, facendo qualche passo verso il centro della sala e scoprendo il capo dal cappuccio.
- Questo è il posto dove dovevo andare! Sei tu a essere entrato dal muro! Ma non dovevi andare a sud tu? – continuò l’elfa bionda staccandosi di pochi passi dal muro.
- Si… Esattamente, dov’è che siamo? Io sono entrato in una porta in mezzo a un campo… lascia perdere, è una lunga storia. Comunque, che posto è questo? –
- Non lo so… Io sono entrata in una botola per terra, c’era un corridoio con tantissime ragnatele. E poi ho trovato una porta sulla parete e sono entrata qui. –
- Quindi siamo in una grotta sotto terra? Sotto la Grande Vivente? –
- Credo di si… - Seila, a piccoli passi, aveva raggiunto il compagno. Incerta se quello che aveva davanti a sé fosse davvero Jasno.
- Che caos… - fu l’unico commento dell’Aquila.

La terza porta si aprì di colpo, sbattendo violentemente contro la parete.
La cortina buia riposava anche dietro a quel battente.
- Pensi che dovremmo entrare? – chiese Seila con un filo di voce, portandosi alle spalle di Jasno.
Un tonfo riverberante scaturì dall’ingresso, spandendosi nella grotta azzurra e facendo sobbalzare i due assassini.
Pochi secondi di silenzio. Tre, quattro. Poi un altro tonfo.
Due secondi. Un altro tonfo. Seguito da un quarto, un quinto, sesto, sempre più vicini, sempre più rapidi.
Poi tre figure umane uscirono dalla porta, seguite da altre quattro e altrettante dietro quest’ultime. In meno di due secondi la grotta venne riempita da trentacinque uomini magri, scarni, con lunghi capelli unti che ricadevano sulle camice logore e spade sbeccate strette tra le dita scheletriche.
- Cosa facciamo? – chiese Seila stringendo tra le mani le piume sintetiche dell’abito dell’Aquila.
In tutta risposta Jasno fece qualche passo indietro, allargando leggermente le braccia per prepararsi a qualunque cosa potesse accadere.
Una goccia d’acqua cadde dalla stalattite azzurra. Quando andò ad impattare contro la pozzanghera, il suono che produsse rimbombò nel silenzio della sala.
Quegli uomini scarni alzarono gli sguardi vacui verso i due assassini. Le iridi spente non tradirono nessun pensiero quando le spade si levarono verso il soffitto e le gambe si mossero sul pavimento bagnato.
Jasno saltò in alto, atterrando poi sul torace di un uomo, che cadde con le spalle a terra e il collo già torto.
L’aquila non perse tempo a guardare il cadavere. Afferrò un braccio che gli stava transitando vicino in quel momento con una presa d’acciaio. Con un movimento fluido si alzò facendo leva sull’arto che teneva in pugno fino a rompere l’articolazione della spalla. L’avambraccio sinistro, nel mentre, era già corso sotto il collo dell’uomo per interrompere il flusso di sangue al cervello.
Una spada gli sfiorò il fianco poco prima che l’elfo albino potesse ruotare per utilizzare la sua ultima vittima come scudo.
Il corpo del secondo uomo cadde a terra, ma l’elfo dai capelli bianchi si era già portato lontano.
Afferrò la testa di un uomo di fronte a sé, per poi utilizzarla da perno per poter portare le gambe all’altezza del collo di un secondo combattente. Le mani impiegarono meno di un secondo a rompere le prime due vertebre su cui si erano appoggiate, nello stesso tempo le gambe si chiusero intorno il collo del secondo uomo, trascinandone il volto contro il pavimento.
Jasno si rialzò velocemente, scrollando dagli stivali il sangue misto ad acqua e polvere. La ferita al fianco cominciò a mandare periodici segnali di dolore al cervello dell’assassino.
Un grido acuto distolse l’attenzione dell’elfo dall’obbiettivo che aveva preso di mira.
Seila era con le spalle strette contro il muro e la lunga cerbottana in pugno, tenuta di fronte a lei per cercare di tenere a distanza i quattro uomini che l’avevano raggiunta.
La mano bianca di Jasno colpì di taglio il retro del collo del primo uomo, facendolo crollare a terra e finendolo con una tallonata sul setto nasale. Saltò quindi fino a porta i piedi sul torace del secondo, fratturandogli qualche costola con il calcio che lo gettò contro i suoi compagni, che mise a tacere con poco meno di una decina di violenti pugni su volto e giugulare.
L’Aquila alzò il volto dai cadaveri, pulendosi le mani insanguinate nella giubba dell’ultima vittima.
- Riesci a fare qualcosa per fermarli? – chiese quindi l’elfo albino guardando l’erborista tremante.
- Io ho bisogno di tempo! Non ho dei veleni pronti, sarebbero marciti tutti! –
- A parte il fatto che tu, sapendo che c’era una prova, potevi preparare qualcosa. Adesso vedi di fare qualcosa, io cercherò di tenerteli lontani il più a lungo possibile. Di quanto tempo hai bisogno? –
- Io, cioè, non lo so… -
- Ascoltami! Il veleno che prepari in meno tempo. Va bene quello. Non mi interessa se ammazza o stordisce,  ho solo bisogno che lo prepari ora. – Jasno sentì una vena sulla tempia destra cominciare a pulsare. Non gli capitava spesso di arrabbiarsi fino a quel punto, ma in quell’occasione c’era in gioco la sua vita .
L’aquila si voltò, dando un rapido sguardo agli uomini ancora in piedi, che non parevano turbati dai cadaveri riversi sul pavimento.
Ventisette uomini ancora in grado di combattere. Contò l’assassino. Solo otto riversi per terra.
- La tua cerbottana sopporta i colpi? – chiese l’elfo senza voltarsi.
- Si… -
- Va bene. Tu cerca di calmarti. Dimenticati di chi c’è intorno a te e fai quello che devi. Io ti prendo in prestito la cerbottana. –
- Va bene… - gli rispose l’elfa bionda con voce tremante.
Jasno afferrò con forza la lunga canna, roteandola sopra la testa mentre correva contro i suoi avversari per imprimere maggior forza.
Non gli era mai piaciuto combattere con il bastone o le catene. Non si riusciva quasi mai a mettere a tacere una vittima immediatamente, per questo preferiva combattere a mani nude. Urlò con quanto fiato aveva in gola per attirare l’attenzione di quegli uomini, poi estremità della cerbottana colpì il primo corpo.
Jasno si compiacque nel vedere che quegli uomini avevano abboccato alla sua esca, perdendo di vista l’elfa inginocchiata per terra e intenta a scartabellare tra vasetti e provette in cerca di ciò che le serviva.
Il bastone colpì un polso, fratturandolo e facendo volare lontano la spada che poco prima quella mano impugnava.
Poi una stoccata sullo sterno di un uomo che cercava di colpirlo alle spalle, seguita da una sotto il mento di un avversario che gli si era parato davanti, fatale.
L’Aquila smise di sopprimere la foga che quel combattimento gli faceva ribollire nell’anima. Quella foga era nemica di chi combatteva a mani nude, poiché inibiva le capacità di ragionamento e di logica necessari per colpire con accuratezza l’obbiettivo. In quel momento, però, era la sua miglior risorsa.
Le piume dell’abito accentuava i volteggi dell’elfo albino in quella sua danza mortale. Il bastone roteava veloce, talvolta disegnano nell’aria archi vermigli di sangue.
I piedi si muovevano leggeri sul pavimento bagnato, facendo appena increspare l’acqua della pozzanghera quando questa si trovava sotto la suola dello stivale.
Le spade venivano per lo più deviate da quel tornado di legno.
Jasno riuscì a creare uno spazio vuoto attorno a sé. Non esisteva più un’orda di nemici, ma un’unica massa indistinta che andava colpita. Nulla più.
La frenesia del combattimento lo avvolgeva, quella danza caotica parve diventare quasi una forma d’arte.
- Maledizione! –
Una voce acuta riverberò nella stanza.
I piedi dell’elfo cercarono di continuare quei movimenti casuali che avevano seguito fino a poco prima, ma l’idea di ritmo li ostacolò in quest’impresa.
Il bastono rallentò, non volendo rimanere tra quelle dita non più concentrate sul combattimento.
Una spada si fece largo nella coscia sinistra, un’altra sulla schiena, all’altezza dei reni.
Con un ultimo colpo disperato Jasno si fece largo tra la folla che lo avvolgeva, incespicando sulla decina di cadaveri che aveva lasciato dietro di sé e segnando il suo percorso con una striscia di sangue.
- Che succede? – chiese irato con l’erborista, sputando qualcosa che gli sembrava sangue. Non sapeva dire se suo o di una delle sue vittime.
- Mi manca la polvere di calcite! Tutto quello che ho fatto finora non è servito a niente! –
- Tu mi hai distratto per questo? Alchimia di base. La facciamo anche noi. Siamo in una schifosa grotta e ogni singola goccia d’acqua contiene calcare. Fatti andare bene quello e non distrarmi di nuovo. –
Il respiro gli usciva affannoso, la gamba destra pareva non reggerlo più bene e qualcosa di viscido gli scorreva lungo la schiena, ma non provava dolore.
Guardò per una frazione di secondo la cerbottana sporca di sangue che teneva in pugno. Sembrava non aver subito nessun danno dal combattimento appena finito.
Cerco di prendere un respiro profondo, che si trasformo quasi immediatamente in un colpo di tosse.
Le gambe iniziarono a correre di loro iniziativa.
L’Aquila saltò, per poi atterrare con i piedi premuti sul torace di un uomo e la punta del bastone conficcato poco sotto il setto nasale.
L’elfo sentì nuovamente il sangue ribollire nelle sue vene, il senso di pesantezza che gli aveva attanagliato le viscere si smorzò, rendendo i movimenti più rapidi e fluidi.
I muscoli cominciarono a cantare una ballata di guerra frenetica.
Il bastone si muoveva apparentemente contro ogni legge della fisica, passando di mano in mano senza mai smettere di ruotare o anche solo rallentando la sua corsa.
Gli uomini cadevano uno dopo l’altro, alcuni rimanevano bocconi a terra, la maggior parte si rialzava, ma Jasno non ci prestava attenzione. Quella danza lo aveva completamente inebriato e a lui null’altro interessava, se non continuarla.
La stanchezza prese per qualche secondo il sopravvento. La gamba sinistra cedette per una decina di centimetri, prima che la muscolatura fermasse la caduta.
Una delle quattordici spade rimaste non perse l’occasione per lasciare un profondo solco sulla spalla destra.
Jasno cercò di restituire il favore, ma tutto quel che riuscì a fare furono due parate incerte.
Il suo corpo aveva raggiunto il proprio limite. Aveva consumato ogni riserva di energia in suo possesso, aveva dato fondo a ogni sua risorsa.
I muscoli si ricordarono come provare dolore, inondando il cervello dell’assassino di urla insostenibili.
Uno straccio umido venne premuto sugli orifizi dell’Aquila nel momento preciso in cui qualcosa di vetro si frantumò contro il pavimento.
La luce azzurra della stalattite assunse una tonalità verde per diversi secondi.
Inizialmente gli uomini rimasti in piedi parvero solo rallentati dalla nebbia che si stava condensando, poi i muscoli cominciarono a contrarsi e i primi cominciarono a cadere a terra.
Trenta frenetiche pulsazioni del suo cuore, contò Jasno, prima che l’ultimo uomo non cadde. Altre dieci prima che lo straccio venne sollevato dalla sua bocca.
Jasno si sentì pesante. Maledettamente stanco.
Vide ancora le orecchie scure di Seila comparire tra i capelli biondi. Poi i suoi occhi persero contatto con il mondo e i muscoli smisero di pulsare.

Seila si guardò intorno spaesata. Non era rimasto nulla della caverna in cui si trovava pochi secondi prima, né di Jasno, che era accanto a lei.
Era in una stanza bianca, anonima. Una gigantografia della cartina delle Terre era incorniciata sulla parete di sinistra, mentre di fronte a lei un uomo le dava le spalle, guardando dall’unica finestra un paesaggio boschivo, pacifico.
L’uomo si voltò, sorridendo con una chiostra di denti lucenti. Indossava abiti eleganti, sopra gli occhi chiari lunghi capelli neri erano stati pettinati all’indietro.
L’uomo si avvicinò a Seila, senza mai smettere di sorridere o perdere l’aurea di perfezione che lo circondava.
- Ciao Seila. – esordì.
- Ciao… tu chi sei? –
- Ammetto che la statua che mi hanno eretto non mi rende giustizia… bene, lascia che mi presenti. Il mio nome è Ordine, cara Seila. –
- Ordine… il mio dio? Proprio lui? –
- Temo di essere proprio io. Sai perché sei arrivata qui? –
- Sono morta? Ho sbagliato qualcosa nel veleno? –
- No. Proprio perché sei riuscita in mezzo a un combattimento a miscelare le giuste dosi sei qui. Sei riuscita a trovare un tuo ordine in mezzo al caos della battaglia, hai portato la calma nel tuo animo mentre ovunque infuriava la tempesta. Ti sei meritata la mia fiducia. Seila. Lascia che ti offra il potere che avevo riservato per te. –
L’uomo prese con due dita uno dei capelli che riposavano inerti sul suo capo, strappandolo con un colpo deciso.
Sul palmo della mano pulita, il capello crebbe in lunghezza e larghezza, aprì gli occhi mentre piccole squame color ocra ricoprivano il corpo indifeso.
Un serpentello aprì infine gli occhi per ammirare il mondo intorno a sè.
- Sai cos’è? – chiese ancora l’uomo.
- È un serpente… -
- Non solo. È un serpente del Deserto Rosso, anche detto l’Incubo dei Camabiti. Il suo veleno è il più letale al mondo. Ma non solo, lui sarà il tuo compagno che non è un compagno e in lui riposa il potere che ora ti dono. Abbine cura e rendimi fiero di te. –
- Grazie… - riuscì solo a dire Seila prendendo tra le mani il piccolo serpente.
- Ora non temere e va, i tuoi compagni ti attendono. E non aver paura per il compagno che era con te nella grotta, di lui avrà cura Caos. Alla prossima volta, Seila. –
La stanza svanì come svanisce un sogno.
L’erborista si ritrovò nella stessa grotta azzurra, attorniata solo da pozzanghere e fango. Dei corpi che l’avevano infestata fino a poco prima non era rimasta traccia.
Il piccolo serpente ocra si mosse tra le mani della ragazza, studiando la sala mentre la lingua tastava l’aria.
L’elfa bionda raccolse le boccette sparse e, presa la borsa e la cerbottana, aprì l’unica porta rimasta nella sala, ritrovandosi nella radura in cui tutto era cominciato.
Il serpentello, intanto, la seguiva silenzioso.

- Stai fermo ancora un attimo. –
Un coro di voci risuonò nelle orecchie di Jasno mentre la ferita sulla schiena bruciava come tizzoni ardenti.
Quando il dolore finì le voci, più lontane, dissero – Va bene. Ora puoi alzarti. –
Jasno abbandonò il parquet  su cui si era svegliato per guardarsi attorno. Era in una stanza. Le pareti ospitavano macchie di colore sparse casualmente e una scrivania ingombrava buona parte dell’ambiente.
Una donna lo osservava da poco lontano. Sul viso candido risaltavano due occhi marroni come la corteccia degli alberi, scuri, profondi.
Le labbra bianche si incresparono in un sorriso mentre una mano affusolata passò in mezzo ai lunghi capelli rossi che si muovevano come saette su quel capo.
La figura femminile era cinta da un abito elegante color azzurro.
Jasno non ebbe dubbi su chi avesse di fronte. Si inginocchiò e piegò il capo in segno di rispetto.
- Jasno, perché ti comporti così? – chiese la donna facendo qualche passo avanti.
- Perché tu, Caos, sei la mia signora. –
- Avanti, ci sono qualche centinaia di adoratori che si inginocchiano di fronte alle mie statue ogni giorno. Lascia questo onore a loro e stai dritto di fronte a me. – gli rispose la dea con quella voce così particolare.
Jasno si alzò insicuro, passando una mano sullo strappo nel tessuto del pantalone, sorprendendosi non sentendo il buco lasciato dalla spada che lo aveva infilzato.
- Non preoccuparti. Ci ho pensato io a rimetterti in sesto. Non sarò Natura, ma sono ancora capace di mettere a posto un essere vivente. –
- Caos, perché sono qui? –
La dea sorrise con le labbra sottili. – Jasno, tu hai combattuto. Hai sentito la mia musica. A un primo ascolto anche la mia voce potrebbe provocare fastidio, ma a un pubblico più attento non può scappare la sinfonia. La stessa sinfonia che hai suonato tu, quella che non segue ritmi o direttori ed è meravigliosa proprio per questo. –
Una musica eterea riempì la stanza mentre Caos volteggiava in perfetta sinfonia con gli strumenti che si inseguivano e si accavallavano, urlavano e ammutolivano.
Jasno riconobbe immediatamente quella melodia. Era la stessa musica che aveva avvertito nelle sue vene mentre combatteva.
L’orchestra impazzita si fermò nel momento in cui Caos smise di danzare.
- Jasno, tu hai visto la bellezza del caos, hai danzato sull’onda della follia e del sentimento vedendone la bellezza. Tu mi hai dato la certezza di aver scelto la persona giusta. Lascia che ti offra in dono il tuo compagno che non  è un compagno. –
I lunghi capelli di Caos parvero venir risucchiati verso il soffitto, comprimendosi verso l’interno.
La dea mise quindi le mani all’interno di quelle rosse saette impazzite, tirandone fuori un uovo grigio, grosso poco più dei pugni dell’assassino.
- Jasno, qui riposa il compagno che ti seguirà nella tua danza e in cui è riposto il potere che voglio donare. Quando il tempo sarà matura tutto ti sarà più chiaro. – disse la dea porgendo l’uovo al ragazzo.
Caos baciò la fronte dell’elfo. – Accetta anche la mia benedizione e non temere, io sarò sempre con te. Ora raggiungi i tuoi amici e buona fortuna per il tuo futuro. Che il Fato sia con te. –
- Grazie, Caos. –
La stanza perse la propria consistenza poco a poco, lasciando il posto a un campo dorato di spighe.
L’Aquila guardò la collina ricoperta di viti di fronte a sé. Poi un movimento all’interno del guscio catturò la sua attenzione. 

   
 
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