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Autore: FRAMAR    28/06/2016    23 recensioni
Un padre umile e coniglio, una madre egoista, una figlia viziata ed il piccolo trascurato.
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Scritta in onore dei due anni di Efp e dedicata agli oltre 800 lettori settimanali che seguono le mie opere
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Vincitore Premio "Il Fogliaccio"
Genere: Drammatico, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Una famiglia




 
Pov Livio


Avevo risciacquato  doverosamente la tazzina in cui avevo bevuto il caffè, ero un tipo ordinatissimo, una specie di talpa umana: se avessi potuto avrei scavato gallerie sotterranee per nascondermi e dare il meno fastidio possibile. La voce aspra di Rosa mi bloccò. Portava poco gloriosamente il nome di un fiore, Rosa appunto era alta, massiccia, implacabile come un granatiere. L’avevo sposata sperando di scoprire gentilezze recondite, inesistenti: “Cosa credi?”, domandava ironica, “di essere un eroe perché sciacqui  una tazza? Io lavo intere batterie di piatti mezzogiorno e sera, mentre tu…”.

“Io in genere a mezzogiorno mangio in trattoria, sto sempre in giro per lavoro, lo sai pure”, mi scusai, “certe sere ti do una mano, non è così?”

“Tuo preciso dovere. Io mi gusto la televisione dopo una giornata campale”.

Guardava lo schermo con gli occhi fissi un po’ tondi, divorando dodici cioccolatini ogni sera, ghiotta e incosciente, poi le veniva l’inevitabile colica, le dovevo portarle la borsa con l’acqua calda, darle il fernet col bicarbonato, mettere a letto il Cucciolo, il figlio più piccolo, e risentire la lezione alla Lulù, la ragazzina. Non la sapeva quasi mai. Se ne andava tutto il giorno in giro la Lulù, chissà dove, chissà con chi. Era arrogante, saccente, maleducata. Si lamentava di tutto, della casa popolare, del rione indecente, dei vestiti mai “all’altezza”. Avrebbe voluto una madre elegante e un padre  bello appariscente ricco: “Vammi  a comprare lo yogurt alla ciliegia”, diceva imperiosa come la madre.

Io andavo, rimettendomi la giacca appena tolta. La lattaia era vicino casa, stava per chiudere, dovevo affrettarmi. Andavo verso il banco, mi ero abituato a non discutere, forse per vigliaccheria, forse per saturazione o per pigrizia. Non lo sapevo nemmeno io. La lattaia ormai mi conosceva, mi giudicava un gran brav’uomo, poveraccio, chissà il perché le facevo pena, così mi serviva subito senza farmi aspettare. Certe volte io ordinavo un caffè, senza zucchero, per non ingrassare, in fretta, guardando furtivo la porta  per paura che magari la Rosa venisse giù e potesse sorprendermi, ma sei matto, avrebbe detto, il caffè si fa in casa con la napoletana, che bisogno hai di sprecare i quattrini?


 
Quella mattina arrivai in ufficio più presto del solito, sorrisi alla donna di pulizie, la Cornelia, aveva sette figli, ogni tanto mi regalava  un cartoccio di caramelle per i bambini. Incontrai subito Balloni, alto biondo, fiero, sei qui disse, devi andare a Pisa al posto di Savino che si è preso un giorno di ferie.  Protestai debolmente, ero già stato a Civitavecchia il giorno prima, una sfacchinata, gli altri se ne stavano comodamente in ufficio, uscivamo a turno una volta alla settimana e invece… Pazienza, non mi sedetti neppure,  intanto era inutile, preso gli incartamenti da consegnare al fornitore di Pisa, ridiscesi le scale, prima di salire in macchina composi un numero al cellulare: “Pronto Matilde, sei tu?”

“Si sono io” rispose Matilde.

Chiusi gli occhi, Dio com’era dolce la sua voce, un suono d’arpa, un gorgoglio di colomba. L’avevo conosciuta una sera, Matilde, a un concerto, l’unica mia  evasione, così soave, femminile, diversa.

Lei mi aveva sorriso, come se  ci conoscessimo da un sacco di tempo, eravamo andati insieme nel corridoio, avevamo parlato a lungo, ogni tanto le telefonavo. Una cosa pulita, sentimentale. ”Sono qui in ufficio. Ho spedito un collega a Pisa, non avevo voglia di muovermi. Fa già tanto freddo”.

“Ma quel poveretto? Mandato lui…”, rise Matilde: Le raccontavo continue bugie. Mi dipingevo come avrei voluto essere: forte, invulnerabile, uno sicuro di se. Un dominatore. Mi bastava.  Era una sorta di compensazione psicologica che mi aiutava a sopportare la realtà così amara. Per questo vedevo Matilde di rado: per non tradirla, per non deluderla. Avrei preferito morire piuttosto che deludere Matilde. Salii in macchina consolato almeno in parte. Faceva davvero freddo, mi allacciai la giacca, mancavano due bottoni.




 
Pov Lulù


A casa c’era il putiferio, come ogni giorno. Io e mamma litigavamo in continuazione, Cucciolo mi stava a sentire  indifferente, giocando con le macchinine: “Siete due povere sceme”, diceva soltanto dopo un po’.  Ma non parteggiava per nessuna. Io detestavo Rosa, mia madre detestava tutti in massa, mi sentivo infelice per un sacco di motivi che gli altri non cercavano di modificare. Prima di tutto perché ero brutta e grassa e inelegante, poi avrei voluto una casa più decente per poter ricevere le mie amiche altolocate che possedevano la villa a Porta a Lucca o a Tirrenia al Mare, poi mi sarebbero ovviamente piaciuti  dei genitori diversi, non due tangheri come mi ritrovavo io: mia madre un’arpia avara e mio padre un verme strisciante e umile. Lo disprezzavo.

Mi telefonò Fabio: “hai già fatto la versione di Cesare?”.

“No e non intendo farla, una barba figurati, e tu?”.

“Avrei voluto copiarla da te: Sono solo in casa, perché non vieni?”.

“A fare?”

“Bè, lo sai: Quello che ti ho detto, no? Devi pur deciderti, hai sedici anni, non vorrai farti santa…”

“Non sono mica innamorata di te, povero scemo, sai?”

“Cosa c’entra? Neanche io sono innamorato. Chi credi di essere? La Belen? Si fa così per gioco, come gli altri, no?”

Io lo avrei fatto per dispetto ai due tangheri e al mondo intero. Ma non mi decidevo mica. Se avessi avuto una madre diversa avrei anche potuto parlargliene ma con la Rosa mai.  Mi pareva di sentirla: che discorsi fai adesso? Ti do una sberla e ti giro la faccia  dall’altra parte, sei proprio stupida proprio come tuo padre. Stasera vado a letto alle nove, che cucini lui quando torna. Mi ammazzate tu e tuo fratello, non ne posso più, anche i discorsi di sesso vieni a farmi adesso, è una vergogna.

Allora aspettai che mamma uscisse per andare al supermercato, l’unico posto che frequentava assiduamente, anche per mezzo chilo di zucchero, poi composi “quel” numero. Lei era quasi sempre in casa, confezionava  cappelli acconciature da sposa per un atelier, avevo trovato il numero scritto sopra il taccuino di mio padre, la prima volta lo avevo composta solo per curiosità: “Pronto Matlde?”.
“Oh sei tu, Lulù, come va?”

“Da bestie. Ho ancora litigato con mamma, è di una grettezza spaventosa. Mio padre si lava sempre la tazza ogni mattina, lava i pavimenti e pulisce i vetri. Mi fa tanta rabbia. Tutti si approfittano di lui, anch’io naturalmente. Lo mando sempre a comprare lo yogurt per dispetto e lui docile corre giù”:

“Poveraccio, non devi fare così con lui. E’ troppo bravo ecco tutto. Non è mica colpa sua, sai, al mondo esistono i leoni e i conigli…”.
Sapeva benissimo Matilde attraverso le mie telefonate che mio padre mentiva sempre, descrivendosi così diverso, un leone, appunto. Ma se questo gli serviva a vivere, in fondo non danneggiava nessuno.

“Cosa c’è di nuovo?” domandò.

“Fabio vuole che vada a letto con lui, cosa mi consigli?”

“Di non farlo, naturalmente. Sarebbe assurdo, impietoso, soprattutto verso te stessa, perché vuoi  farti tanto male, Lulù?”

Alzai le spalle: “Così ”, risposi appena. Perché gli altri ne fanno a me: il mondo, le persone, le cose e i miei sedici anni, aggiunsi silenziosamente.

“Non farlo ti prego, se mi vuoi bene”, disse Matilde con una voce diversa.




 
Pov Livio


Mi fermai a mangiare alla solita trattoria dei camionisti. C’era il brasato con la polenta quel giorno lì. Mi sarebbe venuto il bruciore di stomaco, avevo un principio di ulcera per la rabbia che divoravo ogni giorno, ma pazienza, bruciore più, bruciore meno.

“C’era nebbia stamattina presto”, disse la signora Eleonora, che mi conosceva.

“E’ la sua stagione ormai”, risposi con un sospiro. Per me la nebbia c’era tutto l’anno, era il mio matrimonio con una donna granatiere come la Rosa, una figlia antipatica come la Lulù e una esistenza senza emozioni, senza sogni. Soltanto Matilde… Ma non sapevo nulla di lei, della sua vita e poi cosa potevo sperare? Soltanto qualche parola di conforto e basta così. Ordinai anche una pera che non fosse ghiacciata, me la sbucciai tagliandola a spicchi. Si sedette accanto gomito contro gomito, perché il locale piccolissimo era già gremito, un tale, forse faceva il rappresentante anche lui. Mi sorrise: “Scusi, sa…”.

“Ma si immagini, si figuri…”

Scambiammo quattro parole sul tempo, sullo sport, sul campionato europeo in Francia che stava per iniziare, sulla polenta e sul vino che era veramente buono. Ci salutammo. Io uscii, incominciava a piovigginare, l’asfalto era viscido, scivoloso. Saltai in macchina ricominciando  a guidare. I miei pensieri mi tenevano compagnia, mi piaceva fantasticare. Ripensavo alla musica di Chopin , al concerto, oppure a quella di Verdi o al vascello Fantasma di Wagner e vedevo spiccare la faccia bianca di Matilde, era vestita in blu quella sera, gli occhi brillavano, anche a lei piaceva la musica, chissà se amava qualcuno, se era felice. Non avevo mai osato domandarglielo per paura di soffrire. Premevo l’acceleratore senza accorgermi perché di solito ero un tipo prudente e la musica diventava una sinfonia assordante che consolava.




 
Pov Lulù


“Famiglia Filippi?”, chiedeva una voce anonima al telefono.

“Si”, risposi, “si, dica pure…”.

Mi informarono in poche parole. Livio Filippi era morto, la macchina sbalzata sulla scogliera, incendiata, il corpo proiettato fuori, deceduto sul colpo. Qualcuno doveva partire per Pisa a riconoscere la salma. Sicuro la “la salma”, diceva proprio così la voce freddamente anonima. Io lasciai cadere il ricevitore si colpo. Quella notizia mi fece spaventare, all’improvviso. Morto. Com’era possibile? Quella stessa mattina era andato in latteria per me, aveva sopportato i miei capricci e adesso…

Chissà perché mi tornò in mente all’improvviso una scena perduta nel labirinto dei ricordi: io piccolissima, non volevo bere una medicina cattiva e lui, mio padre, seduto sul letto, ne  ingollava un grosso cucchiaio e sorrideva, dicendo, ma guarda un po’ quanto è buono sto sciroppo.  Scacciai l’immagine, ma ne tornarono altre a fiotti, pressanti continue, una dopo l’altra, in tutti quegli anni. Mio padre ingrassato, con le lenti spesse, che non mi negava nulla, palestra, musica, vestiti, gite e io lo disprezzavo forse proprio per questo, perché mi dava troppo con umiltà, quasi scusandosi di essere così, un poveraccio qualunque. La mia compagna di banco, la Tina, per esempio, possedeva un padre campione, alto, bellissimo, pareva un giovanotto, sportivo, con certe macchine mozzafiato ed era anche “carico di donne” a quanto si sapeva in giro. Avrei voluto che anche “lui” fosse così? Mi chiedevo adesso: lo avevo creduto fino a un momento prima, ma mi accorgevo che non era affatto vero. L’immagine di mio padre, ormai che non esisteva più mi andava bene com’era, un uomo semplice, buono, generoso, rispettabile. Non mi sembrava più un “poveraccio” ma “qualcuno”.  Mia madre stava entrando grassa e ingombrante, con i sacchetti di plastica del supermercato: “Sono stanca, non ce la faccio più, tutte sulle mie spalle. Tuo padre se ne va a spasso per  il mondo. Mangia in trattoria lui, il signore…”.

“Non mangerà più”, risposi.

Mia madre gettò i sacchetti sul tavolo di cucina, sbuffando, aprì il frigo per incominciare a disporre le vettovaglie così eroicamente conquistate, poi ripensò a quello che avevo detto: “Come sarebbe non mangerà più?”, domandò.

“I morti mangiano per caso?”, chiesi. Mi faceva rabbia, così ottusa e sopravvissuta, mentre lui…

“Ci mancherebbe altro che mangiassero”, rispose mamma, oltraggiata.

Morsicai un pezzo di pane, sentivo un tremito interno, convulso, non sapevo come dirglielo, adesso all’improvviso chissà perché mi faceva pena anche lei così grassa e ottusa, allora corsi in camera mia, mi chiusi, composi il numero di Matilde: lei rimase sbigottita, sconvolta. Era un brav’uomo, singhiozzava, un amico che non dimenticherò mai. Avrei voluto incontrarlo prima sul mio cammino, ripeteva, gli altri uomini di solito sono tanto diversi, oh tanto.

“Quali altri?”, domandavo, piangendo.

“Quel ragazzo che si chiama Fabio, per esempio, oppure che io amo, che viene a trovarmi due volte alla settimana ed è arido invulnerabile disincantato. Ma lo amo anche così”.

 Era la prima volta che provava un modo di pietà verso qualcuno. Ero cresciuta , di colpo. Stavo tornado di là per informare mamma ed ormai era quasi sera, si intravvedevano le sagome dei palazzi sfumati d’ombra, le antenne dei televisori schizzati a inchiostro di china. Cucciolo giocava sul tappeto, ignaro anche lui, con le solite macchinine, lo presi sulle ginocchia accarezzandolo: “Diventi scema?”, domandò lui, stupito. Non c’erano mai state tenerezze tra di noi. In quell’istante la chiave girò nella toppa: improvvisa, prodigiosa e qualcosa accadde.

La mano di papà girò l’interruttore nel corridoio buio: “Pulisciti le scarpe”, gridò mamma, senza voltarsi, “le hai sempre infangate anche quando non piove, non capisco il perché…”.

Stavo immota, come una statua, poi riuscii a scuotermi, corsi incontro a mio padre. Vivo.

“Mi mancano due bottoni”, stava dicendo togliendosi la giacca.

“Te le attacco io, papà”, gli dissi d’impulso, abbracciandolo stretto.

Lui mi fissava incredulo, era “incredibile che la Lulù lo stringesse così, non accadeva da quando ero bambina, secoli prima.
“Hanno telefonato che… eri morto”, bisbigliai.

“E’ stato un errore, ho mangiato gomito a gomito con un tale. Pagando senza accorgercene, abbiamo scambiato i portafogli con i relativi documenti. Lui, poveretto, ha sterzato troppo sull’asfalto viscido,  è precipitato. Ho chiarito tutto, ma  voi, evidentemente, eravate già state informate. Poveraccio, quell’altro là aveva senz’altro una famiglia che lo attendeva, che lo amava”, concluse adagio, quasi per se stesso. La mamma stava aggrappata al lavandino, bianca come uno straccio: aveva sentito tutto,  non poteva neppure muoversi, poi lo fece di colpo impacciata, ingombrante: “Anche tu ce l’hai, Livio, una famiglia”, disse, toccandogli appena la mano. Era un goffo tentativo di carezza. Un tempo si erano amati loro due, passeggiavamo sulle foglie morte in autunno, poi le lotte, la saturazione, io ragazza difficile, le difficoltà economiche, l’esistenza quotidiana, un giorno dietro l’altro, avevano limitato, corroso,  distrutto. Oppure no? Oltre alla viltà di papà, l’arroganza di mamma, l’indifferenza mia, esisteva qualcosa di più profondo e di indistruttibile? Forse.

Lo intuimmo all’improvviso, tutti e tre: “E’ ora di cena”, disse papà con finta indifferenza, guardando mamma, ma aveva gli occhi lucidi.

 

   
 
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