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Autore: Ray Wings    29/06/2016    2 recensioni
Anno 2620, è la fine del mondo come lo conosciamo. La terra è ora invasa da creature ben note nell'immaginario narrativo: gli zombie. Come sono arrivati non ha importanza, probabilmente è "solo" l'apocalisse. Era prevedibile, in fondo, no? La sovrappopolazione, la mancanza di risorse, le guerre... per forza avrebbero portato a qualcosa di tragico e terribile.
Solo una speranza riempie le anime dei sopravvissuti: devono correre e raggiungere la U-Nasa, impegnata nel trasferimento della popolazione in un luogo lontano e sicuro, privo di creature mangia uomini: Marte.
Tutto ciò che bisogna fare, ora, è correre.
[Storia partecipante al contest "Apocalisse: vivere o morire" indetto da ManuFury sul forum di EFP]
Genere: Angst, Azione | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Finché correrò resterò vivo.


Corriamo.
Da quanto tempo lo stiamo facendo?
Non ha importanza. Ciò che conta, ora, è solo correre.
Il petto mi fa male, ma so che non c'entra la fatica. Sono ancora forte, riesco ancora a correre e finché correrò resterò vivo.
È la paura che mi attanaglia, mi comprime, che mi uccide.
Rimbomba nelle mie orecchie l'incessante battito selvaggio del mio cuore, come un macabro battere di un orologio adibito a scandire lo scorrere del tempo che ci resta.
Tum.
Un passo in avanti.
Tum.
Un minuto indietro.
Tum.
Non smettere.
Non ora.
Corri.
«Sheila! Corri!» grido e stringo ancora più forte la sua mano. È scivolosa, temo di perderla, temo che mi sfugga, perciò stringo più che posso.
«Marcos non ce la faccio» piagnucola lei tra gli ansimi, ormai allo stremo.
«Non ora. Non smettere. Non ora!» La trascino per quelle strade ormai deserte, tra spazzatura e odore di morte, ma riesco a sentirli i loro versi gutturali alle nostre spalle, l'alito fetido, le loro marce mani che ci sfiorano.
Le sento sulla nuca, mi provocano un brivido, e un battito più forte degli altri mi spinge ad accellelare.
La mano di Sheila, impregnata di sudore, mi sfugge e lei cade in ginocchio sul bollente asfalto. Mi blocco e mi volto a guardarla.
China a terra, respira a fatica mentre gocce di sudore le scivolano giù lungo il profilo del naso. Corro da lei e cerco di sollevarla.
«Non fermarti. Non ora.»
«Arrivano» piagnucola.
Ha ragione.
Ha fottutamente ragione.
Siamo circodati! Quei bastardi sono ovunque, sembrano non finire mai.
Stringo tra le dita la mia mazza da baseball e in un solo gesto divarico le gambe, dandomi lo slancio, e colpisco alle mie spalle. La testa dello zombie salta via, lasciandosi dietro una scia di putrido sangue nero, poi cade a terra e rotola. Il bastardo muove ancora gli occhi e cerca di mordere l'aria, ma il corpo esanime crolla a terra.
Mi guardo attorno, cercando una via di fuga. Sheila è stremata, deve riposare, non potrà correre ancora, ma loro non si fermano. Mi chino e mi porto un suo braccio intorno al collo, sollevandola di peso.
«Di qua!» E la guido a un cassonetto, pochi passi da noi. «Presto, sali!» la incito, abbassandomi per aiutarla, facendo uno scalino con le mani su cui lei avrebbe potuto poggiare il piede e darsi lo slancio. Segue il mio consiglio e con un balzo salta sul cassonetto, arrampicandosi con fatica.
Resto a guardarla e aiutarla da giù, fintanto che lei non si volta, urlando con gli occhi colmi di panico: «Marcos! Dietro di te!»
Mi volto appena in tempo per vederlo arrivare a fauci spalancate dritto sul mio collo. Lascio cadere a terra la mazza da baseball per poter usare entrambe le mani e portargliele al volto, bloccandolo e impedendogli di raggiungermi. È morto, eppure ha ancora una grande forza. Mi sbatte contro il cassonetto alle mie spalle e nell'impatto, accidentalmente, calcio la mia mazza, facendola finire sotto l'enorme contenitore di metallo.
«Merda!» impreco.
«Marcos!» urla intanto Sheila, sopra di me.
Con uno sforzo immane -che sia questa la famigerata forza della disperazione?- spingo via lo zombie, che cade a terra. Non resta però fermo a lungo e si dimena, cercando di rialzarsi, per tornare alla carica. Mi lascio cadere a terra, seduto con la schiena contro il cassonetto, e infilo al di sotto di esso la mano per cercare la mia mazza.
"Maledizione, dov'è?" mi chiedo, mentre allungo un piede davanti a me e con un calcio allontano ancora una volta quell'essere schifoso.
«Marcos!» urla ancora Sheila, in preda al panico. Mi volto, troppo tardi, per vederne un altro calarsi su di me alla mia sinistra. Allungo le mani su di lui, per bloccarlo.
«Cazzo!» mi sfugge, mentre mi schiaccio a terra sotto al peso del mio aggressore. Lancio uno sguardo al primo che ci aveva attaccato: è di nuovo in piedi e si sta per scagliare su di me. Uno riesco a gestirlo, due sono già più complicati, soprattutto se sono disarmato.
Ma Sheila salta giù dal cassonetto e si lancia su di lui, facendolo ancora cadere a terra, insieme a lei.
«No, Sheila!» grido, cominciando a dimenarmi mai come prima di allora. Sheila rotola via per lo sbalzo, ma alza subito la testa, cercando di rimettere ordine ai pensieri. Si volta e vede lo zombie contro cui si è buttata caricare su di lei. Stesa a terra, arretra rapidamente, fino a schiacciarsi contro il muro di una casa. Allunga una mano nel vuoto e afferra la prima cosa che trova: un mattone.
Con forza lo usa per colpire il suo aggressore, tramortendolo.
Io intanto riesco a poggiare un ginocchio sul ventre dello zombie che ho addosso, ancora impegnato nel tentativo di mordermi, e con uno slancio lo scaravento via. Volto istintivamente gli occhi a sinistra, sotto il cassonetto e la vedo: la mia mazza.
Mi allungo rapidamente e l'afferro. Lo zombie si rilancia su di me e sta per cadermi addosso, ma con un calcio lo allontano di nuovo. Riesco finalmente a far uscire la mazza da sotto il cassonetto e facendola roteare sopra la mia testa colpisco pesantemente il mio aguzzino, spezzandogli l'osso del collo.
Il crack mi fa venire i brividi, ma non ho tempo di nausearmi.
Mi alzo rapidamente e raggiungo Sheila.
Un altro colpo e faccio saltare la testa al suo aggressore, che già si trovava su di lei. Il sangue nero zampilla dal suo collo, ora aperto, colpendo Sheila e insudiciandola. La vedo impallidire e tremando come una foglia allontana via disgustata quel corpo senza testa.
«Stai bene?» le chiedo con gli occhi colmi di terrore. Se è ferita, non riesco a vederla e la cosa mi manda fuori di testa.
Lei continua a guardarsi attorno impanicata, sembra non vedermi. Mi abbasso e l'afferro per le spalle: devo sapere o potrei impazzire!
«Sheila!» la chiamò e la mia voce si incrina appena. «Stai bene?» ripeto, scandendo bene le parole.
Lei mi guarda negli occhi e io ancora una volta affogo in quello sguardo così immenso, così suo.
Annuisce e io riesco a tornare a respirare.
«Andiamo!» la invito ad alzarsi, prendendole le sottili mani tremanti.
«Sono tutta sporca» piagnucola, ma so che non le interessa veramente del vestito. È disperata e ha solo bisogno di piangere. «Guardami» continua mentre una lacrima le scende dal viso, lungo la guancia nera di polvere e terra. «Era il mio vestito migliore» singhiozza.
«Lo faremo pulire una volta arrivati alla U-Nasa.» Cerco di consolarla, anche se mi rendo conto della stupidità della mia frase. Era ovvio che non le interessasse veramente del vestito, lei aveva solo bisogno di un abbraccio, un profondo e intenso abbraccio. Un abbraccio che io non sono mai riuscito a darle e che chissà se un giorno ce l'avrei mai fatta.
Stranamente, però, la mia sciocca frase pare fare lo stesso il suo effetto.
«Sì, lo puliremo» ripete, annuendo. Ha gli occhi vitrei, persi in un incubo, ma la visione della U-Nasa è come una luce in quell'oblio in cui si sente persa.
«Adesso togliamoci dalla strada. Saliamo sul tetto, così ci riposiamo un po' e domani riprendiamo, ok?» le dico, cercando di assumere un tono calmo e pacato.
Lei annuisce e insieme torniamo su quel cassonetto, poi sul tetto.
Il cielo sopra di noi ormai è rosso e tende al nero, nel suo imbrunirsi. In lontananza si può già distinguere Venere, la prima stella del tramonto, colei che annuncia il calar delle tenebre.
Ci sistemiamo, sicuri della nostra altezza, e Sheila si stende al mio fianco.
Ha gli occhi puntati sopra di lei, ora meno terrorizzati, ma non per questo migliori. Quando il panico scema, lascia spazio solo a un profondo dolore che non tutti sono in grado di sopportare.
"Ti prego, sii forte Sheila" penso, terrorizzato dall'idea di vederla cadere proprio mentre è tra le mie braccia.
«Alex...» comincia lei mormorando, senza distogliere lo sguardo dal cielo che ora va riempiendosi di stelle. «Alex sta bene?» mi chiede, come se io potessi saperlo in qualche modo. Ci eravamo separati il giorno prima, costretti a causa di un crollo e di un'orda che ci era venuta incontro, e l'unica cosa che eravamo riusciti a dirci, prima di fuggire via, era stata: «Corri alla U-Nasa.»
Lo ha perso lei, così come l'ho perso io.
«Sì» rispondo lo stesso, alzando gli occhi alle sue stesse stelle. «Ci aspetta alla U-Nasa.»
«Lì è sicuro» dice lei e non è una domanda. Ha bisogno che sia così, deve esserlo.
«Sì» rispondo ancora, incapace di dire altro. Sembra quasi che le parole mi siano morte dentro, proprio come quegli zombie, lasciandomi solo con qualche rimasuglio.
«Non ho paura di lasciare la Terra» ammette lei improvvisamente, sorridendo, e io mi meraviglio. Mi prendo qualche secondo per guardarla in ogni suo perfetto lineamento. Quegli occhi così grandi, in cui mi sento morire soffocato tutte le volte che li incrocio, il profilo del naso, piccolo e delicato, le labbra leggermente carnose, ora tirate a formare due stupende fossette sulle guance.
Quando è diventata così bella?
«E tu?» mi riporta alla realtà, ma non riesco a riprendermi subito. Sospiro, cercando di tornare in me e punto gli occhi alla mazza, al mio fianco: l'unica cosa che fino a quel momento ci ha tenuti in vita.
«No, qui faceva schifo» ammetto. «E adesso è solo spazzatura.»
«Su Marte le cose andranno meglio, ne sono certa. Dobbiamo solo...» ma non riesce a terminare la frase, forse ignorando cosa davvero dovesse fare.
«Correre» le vengo in soccorso io.
Lei annuisce. «Dobbiamo correre.»

Il sole sorge ancora, sembra essere l'unica cosa che non è morta in quel lurido mondo, e io l'osservo con invidia.
Sheila, al mio fianco, apre lentamente gli occhi, infastidita dall'accecante luce, e li punta subito su di me. Mi guarda dapprima confusa, poi contrariata. «Non hai dormito?» mi chiede.
Abbasso lo sguardo, sentendomi lievemente in colpa, ma ammetto, negando con la testa.
«Quei bastardi sono qui sotto» le dico, indicando con un gesto del capo. Nella notte il nostro odore li aveva attirati e io ero stato troppo impaurito dall'idea di cadere giù per chiudere occhio. Troppo impaurito di lasciar cadere Sheila giù.
«Non manca molto. Riposerò quando saremo arrivati» cerco di tranquillizzarla.
«Come scendiamo da qui?» chiede lei, guardando i mostri intenti a dimenarsi e allungare le mani verso l'alto nello sciocco desiderio di raggiungerci. Mi alzo in piedi e mi guardo attorno: i tetti delle case sono tutti comunicanti, almeno per i primi metri, sarebbe bastato proseguire lì sopra e poi scendere poco più avanti.
«Giochiamo a fare i Ninja» sorrido gioviale, sperando di alleviare un po' quel peso che si porta dentro e allungo una mano verso di lei. Sheila resta qualche istante a guardarmi e questo mi fa arrossire appena, ma non demordo e continuo a sorridere, illuminandomi come il sole che si andava alzando a est. Infine lei afferra la mia mano e sorride.
Il cuore mi esplode per un istante nel vedere il suo viso radioso e accarezzato dai raggi dell'alba.
E improvvisamente mi ricordo per che cosa sto correndo.
«Andiamo!» dico, cominciando a saltare sopra i tetti, tenendo ben stretta la mano di Sheila.
Riusciamo ad arrivare con facilità all'ultimo, prima di un incrocio, e comincio a guardare sotto di me, alla ricerca di qualsiasi cosa che ci avesse potuto aiutare a scendere.
«Marcos!» mi scuote lei, prima di indicare davanti a sè. L'enorme edificio primeggiava sopra gli altri, nella sua moderna costruzione, sopra ogni cosa come un Dio pronto ad accogliere chiunque. «La U-Nasa!» continua lei.
«Siamo vicini! Lo vedi? Non è lontano.»
Lei sorride ancora e gli occhi le cominciano a brillare di fronte alla sua speranza.
«Di qua!» dico e mi siedo sul bordo, sporgendomi fuori. Lancio prima la mazza a terra, sapendo che mi avrebbe solo impedito un buon atterraggio, e mi appresto a raggiungerla. Con uno slancio mi butto sopra il tettuccio di un auto, pregando che mi regga. L'auto sobbalza un po' e io resto immobile qualche secondo, aspettando di stabilizzarmi. Poi mi alzo in piedi e allungo le mani verso Sheila, ora seduta nel mio stesso punto.
«Vieni, ti prendo io!» le dico e lei si lancia sicura, atterrando tra le mie braccia. Si aggrappa alle mie spalle, cercando sicurezza, irrigidendosi appena, ma io la tengo salda a me.
Ancora un piccolo dolore al petto, ma non è fatica e nemmeno paura.
Non so cos'è, ma vorrei solo che il tempo si fermasse qui, ora.
Un eterno istante in cui riesco a cingere accidentalmente le sue spalle.
«Grazie» sorride lei, prima di separarsi, lasciandomi solo nel mio -ormai non più- eterno istante.
Sheila si siede sul tettuccio, a gambe penzoloni giù, e con un piccolo slancio si lascia cadere sull'asfalto.
La guardo, ancora perso nel movimento dei suoi capelli.
Ma all'improvviso cala il buio.
Urla il mio nome e riesco distintamente a vedere delle mani violacee uscire dal finestrino dell'auto sotto di me e avvolgerle il collo.
Il sole. Non riesco più a vedere dov'è il sole.
Tutto è così confuso, così terrificante.
Quell'urlo riempie le mie orecchie e pare non volersene andare. 
Mi muovo, credo, ma non ne sono sicuro.
So solo che ora riesco a vederlo: i suoi putridi e marci denti infilati in quel delicato collo su cui io ho fantasticato tutta la notte. E quegli occhi, quei meravigliosi occhi pieni di ogni cosa, ora improvvisamente svuotati. Puntati su di me, come fossi la sua colpevolezza.
Le labbra incurvate verso il basso, spalancate in un urlo, terrorizzate, sembrano già così rovinate e screpolate, non più piene di vita e invitanti.
Sono morte anche le adorabili fossette sulle sue guance.
I lineamenti che fino a un attimo prima erano illuminati dal sole, ora cadevano avvolti nelle tenebre, mischiandosi a esse, diventando loro stessi ombra.
E io... muoio in quella pece.
Il mio pugno parte senza che me ne renda conto e colpisce in pieno viso lo zombie che aveva osato intaccare così quello scrigno prezioso. Lo scrigno che io ho sempre temuto ad aprire, non credendomi degno di un tal tesoro, e che ora mai più ne avrei avuto la possibilità.
Lo vedo mentre lancia indietro la testa, colpito, ma trascina con sè lembi di carne che non gli appartengono, ancora serrati con ingordigia tra i suoi denti.
E il viso di Sheila che cade a terra proprio davanti ai miei occhi.
Proprio tra le mie braccia.
In quell'abbraccio che mai ero riuscito a darle.
I lamenti mi strozzano mentre cerco di pronunciare il suo nome. Le lacrime bagnano il mio viso e appannano i miei occhi. Non riesco più a vederla distintamente, avvolta da una nebbia che sembra soffocarmi sempre più.
«Marcos.» Un'evanescente voce, delicata come un angelo, mi raggiunge. «Corri.»
E urlo con tutto il fiato che ho.
Alzò lo sguardo e riesco a sfondare la nebbia, guardando il mostro che mi ha strappato dalle mani l'unico raggio di sole che illuminava ancora quella terra.
Si dimena dal finestrino, tra i denti ancora ciò che non gli apparteneva, bloccato dalla cintura di sicurezza.
Appoggio delicato a terra quell'esile corpo che ho stretto con tutta la forza che avevo e mi allungo ad afferrare la mazza.
Spalanco lo sportello, afferro il figlio di puttana e lo scaravento a terra, ai miei piedi.
E infine... colpisco.
E colpisco.
E colpisco.
Il rosso e il nero macchia ogni cosa intorno a me.
Non sento altro che quel macabro rumore di ossa spappolate e spezzate.
Membra e cervello volano a ogni colpo, cadendo sul mio viso, sui miei vestiti, sulla mia mazza.
È morto.
Ho fatto giustizia.
Ma non riesco ancora a vedere niente se non il nero e rosso, e continuo a urlare e colpire.
Fino alla fine delle mie energie.
Fino alla fine di ogni cosa.

Le porte della U-Nasa alle mie spalle si chiudono e lascio cadere la mazza a terra, macchiando quel pulito tappetto di sangue e cervello. Una macchia che per sempre mi sarei portato dentro io stesso e che non avrebbe pulito una semplice spugna.
"Dovevo saltare per primo"
La fisso, ai miei piedi, quella macchia.
È tonda, incredibilmente circolare, e rossa... proprio come Marte.
"Dovevo saltare per primo"
Gli occhi mi bruciano, i muscoli mi fanno male, desidero solo accasciarmi, lasciarmi cadere proprio come quella mazza.
Due piedi entrano nel mio campo visivo, schiacciando la macchia a forma di Marte.
Alzo lo sguardo, cercando di identificare la persona ferma davanti a me.
E mi lascio cadere in ginocchio, in lacrime.
La gola torna a bruciare e non riesco a respirare.
"Dovevo saltare per primo"
Lo sguardo di Alex dall'alto mi fa lo stesso effetto di quella prima stella. Una speranza che ora non esiste più e che forse mai lo era stata per me.
«Mi dispiace» riesco a mormorare tra i singhiozzi.
Allungo le mani verso la sua maglia.
Sono sporche di sangue, probabilmente di Sheila, e questo mi reca un dolore dentro così immenso che per poco non mi uccide. Spalanco la bocca, cercando aria, ma riesco solo a bruciare.
Schiaccio il viso contro la maglia di Alex, nascondendomi all'interno, stringendola tra le dita con quanta più forza ho.
Per un attimo mi chiedo perché non si muovi, perché resti così immobile, ma poi mi ricordo: io l'ho uccisa.
"Dovevo saltare per primo"
Ancora lamenti. Ancora singhiozzi.
Ancora dolore.
«Mi dispiace»
«Non ha sofferto, vero?» mi chiede lui, improvvisamente. Le prime parole che riesce a dire.
Alzo lo sguardo, cercandolo, ma la nebbia mi impedisce di vederlo distintamente.
Come mi sta guardando?
Mi sta odiando?
Nego, ma ammetto: «Non lo so.»
Lo sento sospirare e rilassarsi, prima di indietreggiare e liberarsi dalla mia presa.
«So che saresti morto tu al suo posto se avessi potuto» dice. «Alzati da terra, sei patetico. Ci stanno aspettando. Portiamo l'anima di Sheila su Marte con noi.»



   
 
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