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Autore: determamfidd    01/07/2016    1 recensioni
Dopo l'attacco di Smaug Thorin avrebbe fatto di tutto per risparmiare alla sua famiglia ulteriore dolore mentre Frerin avrebbe fatto di tutto per meritarsi quella devozione.
La morte non cambia nulla.
Genere: Angst, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Frèrin, Thorin Scudodiquercia
Note: Traduzione | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'Le Appendici di Sansukh'
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La storia si svolge prima degli eventi di Sansukh e può essere letta anche da sola. L'autrice originale è Jeza-red, che mi ha dato il permesso di postare la traduzione. La storia originale può essere trovata qua.

Il giorno era soleggiato e luminoso, ed era l'ironia più grande di tutte. Un pioggia leggera cadde la notte e quando arrivò il mattino tutto era coperto da un brillante strato di freschezza. Persino l'aria aveva un sapore dolce. Thorin la inspirò fra i denti, cercando di sposare l'immagine del cielo rosato senza nuvole che li aspettava.

Le truppe raggruppate all'entrata della valle dovevano condividere la sua inquietudine perché il silenzio era pesante e soffocante su campi e tende.

«Un giorno troppo bello per morire» aveva sentito dire a Balin a qualche punto dal suo posto accanto all'enorme tavolo in legno di quercia coperto di mappe e pietre runiche.

«Ma uno buono per rompere qualche schiena» ringhiò Dwalin allegramente e Thorin dovette sbuffare. Un secco umorismo gli veniva sempre naturale... ultimamente era l'unico genere di umorismo che lo faceva. Cercare di tenere un fronte positivo col loro futuro così incerto era una lotta resa più dura ogni giorno del loro esilio.

A volte Thorin si chiedeva se era possibile che fosse anche maledetto da qualche malattia della mente, come suo nonno. Coi suoi modi volatili e la pazienza minore tutti i giorni, era difficile per tutti vederlo come il sorridente, scherzoso ragazzo che era stato nel passato e alcuni di loro – Balin soprattutto, ma anche suo padre e suo fratello, commentavano questo fatto ogni tanto. Thorin non sapeva dire esattamente quando o come il cambiamento fosse arrivato – lui si sentiva uguale, meno sicuro del futuro e più stanco, ma si sentiva come era sempre stato. Era un'illusione causata dalla sua mente? Era accecato dal suo orgoglio come suo nonno dalla vista dell'oro?

Fu, come sempre, la mano di Frerin sulla sua spalla che si fece strada fra le nubi di pensieri oscuri come un raggio di luce.

Thorin si voltò e guardò suo fratello, cercando di mettere sul suo volto una qualche sorta di calma. Per un secondo vide gli occhi di Frerin cambiare e oscurarsi, e seppe di aver fallito. Suo fratello gli offrì un sorriso – lo stesso sorriso luminoso e gioioso che aveva il potere di illuminare il mondo attorno a lui, che rallegrava tutti coloro che lo guardavano – e Thorin quasi sospirò.

Sapeva, da un po' di tempo ormai, che Frerin portava questo sorriso come un'arma e una medicina per coloro per i quali non poteva fare altro. Per la loro piccola Dís, per il loro padre dal cuore spezzato, per lui.

A volte voleva prendere suo fratello per le spalle e dirgli che poteva smetterla ora, che andava tutto bene. Che avrebbero vinto e tutto si sarebbe sistemato. Facevano tutti ciò che doveva essere fatto, e alcuni avevano più abilità e doveri di altri, e andava bene, era giusto. Frerin sarebbe cresciuto e avrebbe trovato i suoi doveri, sarebbe diventato bravo quando si trattava di politica, sarebbe stato accanto a Thorin e Thráin come eguale.

Ma soprattutto voleva dirgli che non c'era motivo di nascondere la sua disperazione dietro quel dannato sorriso per loro. Che il suo dolore stava iniziando a mostrarsi, il suo ottimismo luminoso si stava sfaldando, e che anche quello andava bene. Che Thorin, per quanto fosse danneggiato e chiuso emotivamente, poteva aiutarlo, poteva fare da scudo al suo sole luminoso in ogni modo possibile...

Ma tenne la bocca chiusa. Perché era debole e aveva bisogno dell'illusione datagli dal sorriso di suo fratello, gli serviva il conforto che gli portava. Quando avessero riavuto la loro casa, l'avrebbe ripagato, si sarebbe preso cura della sua famiglia, sarebbe stato un buon fratello e un buon principe...

Ma ora tutto quello che poteva fare era ricambiare debolmente il sorriso e accarezzare i capelli dorati di Frerin, offrendogli il proprio conforto.

«Sei pronto?» chiese Frerin, cercando di suonare rilassato «Ti serve aiuto con l'armatura, o...»

«Sto bene» lo interruppe Thorin, per non far partire la fiumana di parole «Non mi metterò l'armatura pesante, mi rallenta. Dovrò tenere il passo con le truppe, dopotutto.»

Forse era incosciente, mettere tutta la sua vede in una maglia di ferro strettamente intrecciata e un solo scudo invece di proteggersi sotto il peso confortante di placche di acciaio – ma non era mai stato addestrato per combattere con l'armatura completa, era troppo giovane, non c'era mai stata la possibilità... prima. Era rapido con una lama e abile con un'ascia lunga, e per quello gli serviva più libertà di quella datagli dalle placche. Suo padre era stato d'accordo, quando ne avevano parlato alcuni giorni prima. Thráin stesso era un Nano dal corpo enorme ma comunque sapeva quanto sforzo serviva per per muoversi con grazia dentro a strati su strati di metallo. Confidava che suo figlio avesse fatto la scelta giusta.

«Allora perché io devo portarmi questa cosa sulla schiena?» si lamentò Frerin, indicando i bordi della pesante corazza ce copriva il suo torso e la spessa maglia di ferro che gli arrivava quasi alle ginocchia. Era un acciaio buono, forte, nulla da dire. «Per la barba di Mahal, ho fatto solo qualche passo e sto già sudando come un maiale!»

Ebbene, non c'era un modo gentile per rispondergli.

«Perché tu, fratello mio, ne hai bisogno» disse Thorin, che non era una persona particolarmente gentile, in modo diretto «Ti terrà al sicuro se perderai lo scudo.»

Dato che Frerin era anche più giovane di lui e aveva avuto ancora meno tempo per imparare a combattere bene. Era più bravo a parlare, ad ogni modo, un oratore, rapido e intelligente – qualità che non l'avrebbero aiutato per nulla sul campo di battaglia quando irrompe il caos e non c'è tempo di pensare al prossimo passo.

«Sarò con nostro padre!» frignò piano Frerin, il volto rosso per la vergogna «E sono più bravo con un arco! Perché non mi lascerà stare con gli arcieri?»

Perché Thorin aveva chiesto a Thráin di non farlo.

Perché gli arcieri erano pochi.

Perché né lui né suo padre potevano rimanere lì.

Ma quella era una verità ancora meno gentile, quindi Thorin la tenne per sé. Suo fratello era intelligente, comunque, probabilmente aveva già capito, ma finché nessuno ne avesse parlato la sua dignità non ne avrebbe sofferto troppo. Se ne sarebbe fatto una ragione.

Invece, si tirò vicino Frerin per un braccio e ispezionò le chiusure ai lati della corazza, assicurandosi che fossero a posto. Tirò qua e là mentre suo fratello cercava di spingerlo mia, sputacchiando come un gattino arrabbiato.

«È a posto, vedi? È tutto stretta e tirata e... e basta!» soffiò «Padre mi ha aiutato a metterla quindi puoi smettere di preoccuparti, grosso idiota!»

«Non smetterò mai di preoccuparmi per te, nadadith» borbottò Thorin. Ancora una volta passò la mano fra i capelli biondi sulla testa di suo fratello e si chiese chi quel gesto avrebbe dovuto calmare di più. «E poi Dís me l'ha fatto giurare a punta di spada, quindi non ho scelta.»

«Sei peggio di nonna, giuro...» qualsiasi cosa Frerin volesse dire rimase silente dopo quelle parole «Io...» mormorò, abbassando gli occhi «Io... mi spiace.»

Non parlavano di loro, madre e nonna, cercavano di non menzionarle. Thorin era quasi sicuro che anche Frerin e Dís, come lui, cercassero di non pensare a loro troppo spesso. Era un ricordo troppo doloroso di coloro che erano morti quando era venuto il drago.

Gli mancavano, ovvio, come potevano non mancargli? Soprattutto ora, quando la sua famiglia aveva bisogno di guida e consiglio che solo sua madre poteva dare. Quando avevano bisogno della calma ferrea di nonna e delle conoscenze che aveva con innumerevoli famiglie reali in tutta la Terra di Mezzo.

Ma, soprattutto, Thorin aveva bisogno della loro preoccupazione e il loro amore, perché era sempre più difficile voler bene a se stesso quando tutte le sue lotte a malapena lasciavano un segno nella miseria della sua gente.

Ed eccola, di nuova, la nuvola scura che appariva sulla sua testa.

Ma Frerin sorrise di nuovo e, di nuovo, si disperse.

Thorin guardò l'angolo della stanza dove Fundin e Dwerís si stavano facendo sempre più rumorosi nel tentativo di obbligare Dwalin a mettersi un qualche tipo di armatura. Sembrava che avessero già abbandonato l'idea di vambraci e placche pesanti, e avessero deciso per una semplice, ma robusta corazza, probabilmente per la frustrazione.

Frerin lo trovava divertente. Thorin... ci provava.

«Per la barba di Mahal, sono peggio di Dís» commentò allegramente Frerin, dandogli di gomito e chiedendo curiosamente: «Ha dato una pietra runica anche a te?»

Thorin alzò un sopracciglio e cercò nella tasca nascosta nella sua cintura, tirando fuori una piccola, liscia pietra con una serie di rune da un lato. Ritorna da me, dicevano.

«Tu non l'hai presa?» chiese, non esattamente felice. Dís era così preoccupata per loro, quasi aveva pianto quando avevano lasciato i colli ferrosi. Aveva fatto promettere a Thorin che sarebbe tornato e che avrebbe riportato il loro Fratello Idiota sano e salvo, e che si sarebbe assicurato che loro padre sarebbe tornato anche lui... Cosa avrebbe dovuto fare? Aveva preso la pietra dalle sue manine e le aveva baciato la fronte, e promesso che li avrebbe riportati sani e salvi.

Se Frerin non aveva fatto lo stesso...

«Le ho detto di tenersela» disse Frerin, facendo spallucce «Mi conosci, la perderei o la romperei, o peggio... So che potrei fare di peggio, fidati di me. Le ho detto di tenersela, così me l'avrebbe ridata quando fossi tornato. Si preoccuperà di meno così, sai?» Guardò su e la totale speranza nei suoi occhi fece cedere le ginocchia a Thorin.

Senza una parola tirò suo fratello in un angolo della stanza lontano dall'entrata della tenda, via dai loro amici e dai genitori dei loro amici. «Devi ascoltarmi, nadadith» rispose alla domanda negli occhi di Frerin. Era così facile abbassare la voce e piegarsi in avanti, come se non fossero altro che due bambini che cospiravano su come mettere le mani sulla corona di loro nonno senza che nessuno se ne accorgesse. «Ho bisogno che tu stia con padre.»

«Thorin...» una smorfia di fastidio passò sul volto di Frerin e si mosse per allontanarsi, ma la mano di Thorin sul suo collo lo fermò «Non sono completamente inutile...!»

«Lo so» mentì Thorin «E non è quello il motivo per cui te lo sto chiedendo» mentì per metà «Padre non è...»

Com'era difficile da dire. Gli si bloccò in gola come una scheggia di vetro, come una spina. Un sapere che avevano cercato di negare – che Thráin non era lo stesso di prima.

Thrór, per quanto fosse deprimente, sembrava migliorare più lontano era dalla Montagna. Era più presente e vocale, energetico. Gentile.

Thráin sembrava... perso. C'erano momenti in cui si perdeva nella sua testa e rimanere lì per ore, senza una parola o un gesto, il volto rivolto ad Est.

Sempre ad Est.

Thorin non poteva nemmeno provare a capire quanto potesse far male perdere il proprio Uno. Aveva perso madre e amici, e persone care, capiva il dolore. Ma i suoi genitori erano una coppia che succedeva una volta su mille, gli diceva sempre il vecchio Fundin, una coppia così completa che qualcuno diceva potessero leggersi nel pensiero! Frís, con la sua fiera intelligenza e la voce della ragione che guidava le Gilde e Thráin che comandava i cuori dei suoi guerrieri con abilità e dignità.

Thrór avrà anche guidato il regno dal suo trono, ma erano stati loro a farlo funzionare come un macchinario ben oliato per decenni, senza lamentele, in silenziosa tranquillità come una sola benevolente entità.

Perdere metà della propria anima così, Thorin non poteva immaginarlo. I danni che lasciava nello spirito sembravano troppo profondi per potersi riprendere.

«Lo so» Gli occhi larghi e spaventati di Frerin dissero a Thorin che capiva «Padre non è se stesso» disse «Non lo è nemmeno nonno, per quello...»

«Per questo voglio che tu stia al suo fianco» annuì Thorin, una mano che stringeva il piccolo palmo di suo fratello.

«Così entrambi saranno con qualcuno che se prende cura» disse Frerin, annuendo «E che gli ricordi che... capisco.»

Forse mettevano troppa fede nella differenza che la loro presenza avrebbe fatto, ma, per la barba di Mahal, dovevano provare! Dovevano mostrare loro padre e loro nonno che non erano soli, che non tutto era perduto.

Thorin sapeva che Thráin non avrebbe cercato di proposito la morte in battaglia... almeno cercava di crederlo. Ma se si sbagliava, la presenza di Frerin sarebbe stata un ricordo del fatto che c'era ancora qualcuno da proteggere, per cui vivere, sarebbe dovuto servire a tenere con loro la mente di loro padre.

Thrór era più difficile da capire, ma Thorin avrebbe potuto servire come scudo per suo nonno se la situazione l'avesse richiesto.

Avevano perso abbastanza, abbastanza persone della loro famiglia erano state perdute nelle fiamme, non potevano permettersi altro. Si sarebbe assicurato che non ci fossero più morti!

«Non devi essere così inquieto»

Frerin girò il suo palmo nella mano così era ora lui a tenere Thorin, e poi coprì le loro mani con la sua libera, come per mantenere suo fratello in quel posto. Era un trucco che Thorin ricordava vagamente sua nonna usasse quando era un giovane Nanetto incapace di stare fermo per più di cinque minuti per volta. Lei non lo sgridava mai per la sua impazienza, si limitava a tenergli le mani in un modo tale che sembrava maleducato anche per la sua giovane e nervosa mente tirarle via. Frerin aveva dovuto averlo imparato da lei, allora...

«Non sei tu a guidare questa battaglia, nadad» gli disse suo fratello «Puoi smettere di preoccuparti. Ciò che accadrà, accadrà, e non c'è nulla che possiamo fare ora.»

Era un buon consiglio. Chiaro e pratico.

Ma Thorin stava pensando col suo cuore in quel momento e non era un cuore particolarmente saggio.

Stava per dirlo ma uno schiaffo sulle nocche lo fece soffiare invece.

«Cosa...?»

«Vorrei che la smettessi con questa farsa stoica e ammettessi che hai paura tanto quanto tutti!» Frerin lo guardò con la sua espressione più cupa – che, in effetti, non lo era poi molto. «Puoi dirlo a me, lo sai? Puoi dirlo a padre! Barba di Mahal, puoi dirlo pure a Dwalin, probabilmente è spaventato quanto lo sei tu ed è ugualmente testardo nel non ammetterlo!»

«A cosa servirebbe?!» esclamò Thorin senza pensare. Si voltò e fece un paio di passi prima di rendersi conto che stava cercando di scappare. Si fermò improvvisamente, orripilato dalla sua codardia e rabbia. Era solo Frerin che gli parlava! «A cosa servirebbe?» ripeté in tono più calmo, strofinandosi con stanchezza la faccia «La paura è paura, non svanirà solo perché ne parliamo.»

«Un peso condiviso è più facile da portare» rispose piano suo fratello. La sua voce era dolce col tono di loro madre. Perché fu lui a prendersi tutte le parti luminose e furbe della loro eredità?

«Dovrei condividerlo con te?» Non era nelle intenzioni di Thorin suonare così duro, ma fu così che gli uscì e con la coda dell'occhio vide Frerin che sobbalzava.

Questa conversazione non stava andando come l'aveva pianificata, dannazione!

«Come posso?» Le parole erano come schegge di vetro piantate sulla sua lingua, ma lui le spinse comunque fuori. Frerin aveva solo un paio d'anni meno di lui, ma con ogni era sempre più evidente che avesse ereditato anche la bassa statura di loro madre e Thorin, favorito dall'impressionante altezza Durin, dovette piegare parecchio il collo per far toccare le loro fronti. «Come posso, quando è per te che ho più paura ora?»

Gli occhi di suo fratello lo fissarono, larghi per la sorpresa, e Thorin lasciò che vedessero la paura nei propri occhi – ma solo per un momento. Non sopportava di essere tanto scoperto, nemmeno davanti a qualcuno che non lo avrebbe mai deriso. No, per lui i pesi condivisi non era più leggeri, il contrario anzi – erano resi ancora più pesanti dalla paura e preoccupazione di altri.

«Thorin, io...»

«Non dovresti essere qui» sussurrò «Io non dovrei essere qui, ma tu sei...»

«Un Nano che può prendere le proprie decisioni!» lo interruppe Frerin.

«...il mio mimel ûrzud

Il silenzio dopo quelle parole fu assordante. Thorin chiuse la bocca e ingoiò con fatica, come se avesse appena finito di sputare chiodi invece di parlare. Avrebbe potuto facilmente averlo fatto – vista la facilità con cui parlare delle emozioni, delle proprie almeno, gli veniva. Nonna avrebbe potuto aver ragione nello sgridarlo tante volte dicendogli che era troppo un Longobarbo.

Ma Frerin non stava ridendo, per fortuna, solo... lo fissava in una sorta di meraviglia spaventata. Dopo un attimo o due le sue guance iniziarono a cambiare colore, però, e non passò molto prima che Thorin rimanesse a fissare le punte delle orecchie di suo fratello che stavano diventando di una curiosa sfumatura di rosso mentre il proprietario cercava di nascondere il volto dietro una tenda di capelli biondi spettinati.

«Non sono piccolo!» fu la risposta che lo fece ridacchiare.

«Ma mi fai sempre preoccupare, nadadith, tu e Dís. Vi risparmierei da ogni sofferenza se potessi.»

Frerin lo guardò e aprì la bocca per dire qualcosa... ma a metà la chiuse e nessuna parola ne uscì. C'era qualcosa di tormentato nei suoi occhi, però, qualcosa di triste.

«nadadithh?» domandò Thorin.

«No, nulla» Frerin scosse la testa «Non sarebbe d'aiuto, non ora. Più tardi, noi...»

Thorin non poté sentire la fine della frase a causa di Dwerís, che era finalmente esplosa in una tempesta di rabbia giustificata verso suo figlio minore e uscì dalla tenda con Balin al seguito.

«Farai meglio ad andare a ordinargli di mettersi quella cosa prima che vengano da noi» sussurrò Frerin, spingendolo verso il padre e figlio fermi in una silenziosa sfida di sguardi «Non voglio dover sentire Fundin arrabbiato oltre a tutto il resto.»

«E chi vuole?» rispose Thorin sottovoce.

Lui non voleva, ma era un principe e il suo dovere era quello di proteggere la sua gente. Pieno di risoluzione, marciò verso il suo vecchio amico e suo padre, per un momento dimenticandosi di chiedere che cosa delle sue parole aveva tanto scosso Frerin...


Le ultime parole che si scambiarono prima della battaglia furono brevi al confronto. Entrambi cercavano di sembrare più coraggiosi davanti ai più anziani, davanti al loro popolo. Fu in parte lite scherzosa, in parte avvertimento, una promessa di rivedersi dopo e confrontare il numero di teste di Orco che erano riusciti a mozzare. Un avvertimento per il più giovane di stare attento al proprio lato sinistro.

Cercarono di non notare quanto pieni di paura fossero gli occhi dell'altro, quanto il loro ultimo abbraccio fosse più stretto che mai.

Quando i guerrieri con l'ascia iniziarono la marcia, guidati da Thráin e da un altro signore dei Colli Ferrosi, Thorin cercò di non guardare suo nonno – il volto di Thrór era un immagine di spirito spezzato e incredibile determinazione, e quel miscuglio era innervosente. Invece, si voltò verso i suoi amici, tirando testate alle fronti e scambiandosi abbracci con Dwalin e Balin, cercando di proiettare un senso di stupido giovane coraggio che non aveva.

Andò persino dal giovane Dáin – un bambino così ridicolmente piccolo! Ancora più piccolo di suo fratello. Non erano mai stati molto vicini, vista la differenza d'età, quindi abbracciarlo sarebbe stato improprio – non importa quanto a Thorin sembrava che il ragazzo ne avesse bisogno. Si limitò a mettere una mano sulla spalla di suo cugino e stringerla piano, sperando che avesse tutta la fortuna del mondo.

...e poi Náin, la vecchia cornacchia, fece lo stesso con lui. Vai a immaginarlo.


Thorin cercò di prepararsi per la battaglia il più possibile. Non era un novellino quando si trattava di combattere, in verità era uno spadaccino piuttosto abile. In quanto sopravvissuto dell'attacco di Smaug conosceva la paura, terrore e morte non gli erano sconosciuti. Il sangue non gli faceva più venire la nausea, né la vista né l'odore.

Gli attacchi notturni degli Orchi gli avevano insegnato l'abilità di tenere tutto sotto controllo in mezzo al caos.

Nulla, però, avrebbe potuto prepararlo per il rumore.


Quando gli eserciti si scontrarono e il primo sangue iniziò a macchiare il terreno, quando alzò la spada per la prima volta, Thorin seppe già che quel suono l'avrebbe perseguitato per il resto della sua vita. Urla da ghiacciare il sangue di dolore e agonia, suono di piedi che inciampavano sopra i caduti, di scudi e corpi che si rompevano. Le voci della sua gente si mischiarono con quelle del nemico in un infernale impossibile rumore che sapeva non se ne sarebbe mai andato, che per sempre si sarebbe inciso nella sua mente e sarebbe riemerso più e più volte nei suoi peggiori incubi.

Eppure vi si spinse attraverso, perché non c'era altro che poteva essere fatto. Era in testa a una colonna, non poteva fermarsi dov'era più di quanto non potesse prendersi un momento per asciugarsi il sangue dal volto. Hm, forse avrebbe dovuto essersi messo un elmo dopotutto... ma del resto, gli serviva il campo visivo più ampio possibile per controllare la situazione.

Cercò comunque di rubare piccoli, rapidi momenti per guardarsi attorno, per provare a costruire una qualche mappa di quel caos nella sua mente, per cercare di dargli un ordine in ogni modo possibile...

Quando gli arcieri iniziarono a cadere sotto la malvagia pioggia di frecce nere, Thorin ringraziò Mahal per l'intuizione di tenere suo fratello lontano dall'ala sinistra della colonna principale. Non esistevano numeri abbastanza grandi al mondo perché lui si sentisse al sicuro nel metterli fra il pericolo e Frerin; la larga schiena di suo padre la scommessa più sicura che potesse fare.

Ma poi un'altra orda di Orchi cadde su di loro – e quanta di quella feccia si nascondeva nelle sale di Khazâd-dum? - e non ebbe più tempo per sperare, la sua spada gli scivolava dalla presa stanca e dovette rapidamente cambiare di mano per impedire che cadesse.

Thorin pensava di essere stato ben preparato e abbastanza coraggioso per la battaglia.

Finché la Bestia non apparve polverizzando quella certezza. Rimase senza pensieri né parole, guardò suo nonno che moriva per mano dell'essere più lurido che il mondo potesse creare.

Affrontò Azog e fu come un incubo che avesse preso forma. La bestia era enorme e selvaggia, senza grazia nei suoi movimenti, solo un folle desiderio di uccidere – come se solo rabbia e odio le conferissero potere, come se la morte attorno a loro le desse forza.

I movimenti di Thorin erano lontani dall'essere fluidi. Lontani dalla tecnica aggraziata affinata dal vecchio Fundin, insegnatagli da infinite ore di esercizio e crudele esperienza. Era troppo stanco... troppo esausto. La sua mente ancora confusa dalla vista della fine macabra di Thrór, la paura gli legava i muscoli. Era così privo di equilibrio che era un miracolo che riuscisse a rimanere in piedi.

Eppure, contro ogni previsione, contro la logica e le sue stesse aspettative – aveva vinto.

Aveva vinto.

Dal terreno, armato di nulla se non una spada scheggiata e un ramo spezzato fra tutte le cose.

Respinse la bestia, la ferì mortalmente.

Vinse.

Non pensò mentre il panico lo spingeva in piedi, c'era un esercito alle sue spalle e lui non pensò prima di aprire la bocca per un urlo di incitazione.

Risposero alla chiamata e lo seguirono.

Mai in tutta la sua vita – prima o dopo – si sentì mai tanto potente, tanto forte...

Tanto terrorizzato che non poteva far nulla, se non inseguire il suo nemico finché non strisciarono nuovamente sottoterra. Voleva schiacciarli, sradicarli. Era pronto a fare di tutto per tenere la feccia il più lontana possibile dalla sua gente, dalla sua famiglia. Finché non è morta e innocua, finché non si è dispersa e non può più essere veduta. Finché non sarà finita.

Poi, improvvisamente, finì, e lui non seppe cosa fare.

Per un momento pensò di essere diventato sordo, perché il mondo attorno a lui era stranamente silente. Percepiva il vento che gli colpiva il volto, solo non poteva sentirlo.

Rimase in piedi sulla sporgenza rocciosa dove le sue gambe si erano decise a smettere di muoversi e guardò il campo di battaglia, cercando di dare un senso a ciò che era successo. Cercò suo nonno, anche se sapeva che non aveva senso perché l'aveva visto morire... cercò suo padre e Frerin, gli stendardi della loro formazione avanti, sotto la parete opposta del canyon. Non si sentiva le braccia e la spada era così pesante nella sua presa...

La vista del sole che toccava i picchi ad Ovest lo sorprese. Era tardi, la notte stava calando su di loro, dipingendo il cielo di rosso ferro e viola ametista. Tutto considerato la giornata era bellissima...

L'udito gli tornò col suono della propria risata che suonava terribilmente vicina a un pianto.


A volta ne avrebbe sognato, camminare sul campo di battaglia in cerca della sua famiglia. A volte ci sarebbero volute ere e a volte non ci sarebbe voluto alcun tempo. Col tempo si sarebbe dimenticato quanto avesse davvero camminato nel fango insanguinato coperto di corpi e armi, non si sarebbe ricordato di inciampare su membra mozzate e scivolare sulle viscere, e di molte altre visioni orrende.

Sarebbe stato tutto rimpiazzato da ciò che accadde dopo, tutto.


Vide suo padre per primo.

In ginocchio sul terreno, storto e piegato su se stesso, capelli incrostati di sangue e armatura rossa e oro sporca e ammaccata. Ma stava respirando e il sollievo invase Thorin come un'alta onda, facendolo quasi cadere.

Durò poco, però, quando uno sguardo lanciato attorno a loro rivelò la mancanza di un giovane Nano che doveva essere attorno a Thráin. Quando Thorin udì il respiro pesante di suo padre e notò che non era ferito né stava riposando, ma era piegato su qualcosa...

Qualcosa di piccolo.

Quando si avvicinò la sua visione divenne nera – come se i suoi occhi avessero deciso per lui che non doveva vedere. Barcollò in avanti, le ginocchia deboli, sentì il sangue che scappava dal suo volto, il cuore sobbalzava e accelerava...

Suo...

Frerin.

Frerin era sdraiato per terra, per metà cullato nelle braccia di loro padre. Fermo. Silente.

Perché era in silenzio? Frerin non era mai in silenzio...

Thorin si fermò e se fosse stato presente, lo sguardo vuoto di Thráin l'avrebbe spaventato.

Non lo fece. Non stava guardando più Thráin, non poteva. Tutta la sua attenzione... no, il suo mondo si chiuse attorno a suo fratello. Il suo dorato, giovane fratello che giaceva tanto fermo e silenzioso nel fango e tutto quel sangue...

E non rimase altro.

Il silenzio coprì nuovamente il mondo e la vista di Thorin si oscurò di nuovo. Quando gli tornò le sue mani stavano tirando le chiusure della corazza di suo fratello (che lui stesso aveva controllato solo qualche ora prima!) e gli strappavano via la maglia di ferro come se fosse stata di pergamena piuttosto che d'acciaio... Avrebbe potuto esserlo, per quanto era stata utile nel fermare la lama che era entrata dal lato...

Il lato sinistro.

Thorin gli diceva sempre di lavorare sul lato sinistro! Sempre...!

Le sue mani erano fredde quando infine toccarono la pelle.

Il mondo era ancora silenzioso.

Sentiva di stare urlando, ma non lo sapeva, non lo udiva. Tutto era fatto di silenzio e immobilità mentre le sue mani si muovevano sulla pelle fredda cercando disperatamente di trovare un modo perché non fosse così!

La gola gli faceva male, c'era sangue sulla sua lingua – probabilmente le sue costole massacrate che gli ricordavano di non muoversi tanto... o forse quell'abisso che si stava aprendo nel suo petto mentre si sentiva frantumarsi dall'interno – poco a poco cadeva nell'oscurità e rimaneva vuoto.

Il volto di Frerin era molle e pacifico, ciglia dorate ancora bagnate dalle lacrime piante negli ultimi attimi di vita. Il sangue gli sporcava la bocca e la gola e i capelli color grano dorato erano annodati sulla sua fronte quando Thorin vi premette contro le labbra per mormorare preghiere e negazioni contro la pelle fredda e secca.

Gli occhi di suo fratello erano aperti per metà, blu e ciechi.

Thorin non riuscì a obbligarsi a chiuderli.


Qualcuno doveva parlare con i sopravvissuti. Qualcuno doveva iniziare a dare ordini e dare un senso a tutto. Qualcuno...

Suo nonno era morto e suo padre in shock, incapace – o senza desiderio – di muoversi o parlare. Non c'era nessun altro.

A Thorin a malapena importava.

Aveva un fratello da seppellire.


Fu Balin, molto più tardi (era sempre, prima e dopo, Balin) che entrò nella sua tenda. Che rimase dietro di lui per lunghi minuti come una sentinella silenziosa e comprensiva mentre Thorin si inginocchiava sulla forma immobile di Frerin con una pila di acciaio ammaccato e panni sporchi accanto a lui.

Le sue mani lavorarono instancabilmente, le dita dolci mentre lavava il sangue e la terra dal corpo del suo fratellino. Doveva essere fatto, prima della sepoltura. Non avrebbe lasciato che Frerin fosse messo a riposo con anche una traccia di quel disgustoso luogo a sporcarlo!

Aveva legato una cinta attorno alla ferita, nascondendola alla vista. Aveva pettinato e intrecciato i capelli dorati. Aveva pulito quelle piccole mani, dito dopo dito...

Fu la voce di Balin – così forte nel silenzio che era divenuto il mondo di Thorin – che lo fece alzare e uscire dalla tenda. Le sue parole piene di compassione e acciaio che lo spinsero nel disastro che era il seguito della tragedia di cui doveva prendersi cura. Per rimetterlo in ordine.

E lo fece. Abbaiò ordini e diresse risorse e fece fare alla loro gente ciò che doveva essere fatto, tutto il tempo avvolto dal silenzio. I suoi pensieri erano in quella tenda, con il piccolo corpo adagiato sulle pellicce, quello che faceva fuori da essa non più di una recita. Una farsa. Si sentiva come un attore in qualche recita crudele scritta da un folle.

Come un sognatore che camminava in un incubo.

Voleva svegliarsi, ma i suoi occhi erano già aperti, no? Continuava a battere le palpebre, ma erano secche e irritate, e vedeva tutto in colori accesi e angoli duri.

Altri Signori dei Nani erano presenti, alcuni di loro persino senza ferite, ma tutte le volte che uno attraversava la sua strada, abbassavano lo sguardo. Lasciavano sempre spazio ai suoi lunghi passi, non lo fermavano né gli facevano domande.

Erano tutti più anziani di lui – tranne Dáin, che non era più di un bambino dagli occhi enormi fra loro, ferito e ancora terrorizzato, in lutto per la propria famiglia – e sarebbero dovuti essere arrabbiati... Erano tutti disperati e tetri, e avrebbero dovuti infuriarsi contro la sua famiglia per averli portati in quella miseria.

Invece, si inchinavano a lui.

Si aspettavano che prendesse il comando.

Lui, un ragazzo di nemmeno sessant'anni, spezzato e chinato sotto il peso del dolore. Non vedevano quanto era ferito, quanto vuoto? Non vedevano quanto impreparato fosse per quella responsabilità?

Anni dopo a volte si chiese se fosse stata riverenza o vendetta, metterlo in quella posizione, renderlo responsabile. Erano impressionati da lui o vendicativi?

O forse, erano vuoti quanto lui, ma senza un loro Balin che li spingesse all'azione?


Passò la notte nella tenda, sveglio. Non poteva più dormire e temeva che non vi sarebbe mai più riuscito. Almeno non lì, in quel luogo dannato, col corpo di suo fratello a solo qualche piede di distanza, che riposava sotto la sottile coperta del mantello ornato di suo padre.

Voleva parlare, discutere con Frerin come aveva sempre fatto. Voleva imprecare contro il fato che li aveva portati a questo.

Voleva piangere. Tanto voleva che le lacrime venissero e lavassero via il dolore almeno un poco, ma i suoi occhi rimasero cocciutamente asciutti.

Il mondo era ancora silenzioso. Udiva voci solo quando stavano cercando di avere la sua attenzione, altrimenti tutto attorno a lui era muto e privo si suono.

Thráin era lì con lui, seduto sul giaciglio nell'angolo, nella stessa posizione di uomo spezzato in cui Thorin l'aveva lasciato dopo la battaglia. Aveva cercato di pulire la barba e i capelli di suo padre, l'aveva aiutato a uscire dall'armatura, aveva bendato le ferite sulle sue mani... in silenzio.

Era così surreale, pensò Thorin. Era così strano, sedere lì così, di fronte a qualcosa di così terribile e crudele, e cercare di provare qualcosa che non fosse stanchezza... Cercare di venire a termini col fatto che stavano lasciando qualcosa lì, che quel luogo dannato glielo aveva preso con tanta facilità.

«...solo un momento...»

La testa di Thorin si girò di scatto quando le parole quasi silenti lo raggiunsero; guardò Thráin sopra al corpo ancora immobile che riposava fra loro.

«L'ho perso... per solo un momento...» sussurrò suo padre guardando le sue mani rovinate. Deboli e inutili quanto quelle di Thorin. «Solo un momento...»

Non poteva ascoltarlo, tutto quel dolore e auto condanna in quella voce. Gli ricordava troppo i propri sentimenti.

Thráin non alzò lo sguardo quando Thorin si alzò davanti a lui, perso da qualche parte nell'oscurità della sua mente, né quanto fu avvolto da un abbraccio.

Ma un battito di cuore più tardi Thorin soffocò su un singhiozzo quando le braccia di suo padre si alzarono per abbracciarlo. Erano forti, ma non abbastanza forti da tenere lontano quest'incubo. Nulla lo sarebbe stato, per lunghissimo tempo, non finché i suoi nipoti non fossero nati qualche decennio nel futuro. Ma per un secondo, fu tutto ciò che ebbero. Nulla poteva rendere le cose migliori, ma avevano già così poco che ogni genere di conforto era senza prezzo. Eppure...

...non poteva fare a meno di pensare a quanto Frerin avesse avuto torto, così tanto torto. Un dolore condiviso non era più semplice da portare.


Guardò le pire che bruciavano e il mondo era silenzioso.

Balin e Dwalin lo affiancavano, entrambi piangevano apertamente la perdita di entrambi i loro genitori.

Le sue braccia erano rigide e deboli. Era strano che avrebbe fatto qualcosa, in passato. Avrebbe lanciato le sue braccia attorno alle loro, si sarebbe premuto i suoi amici contro il petto e avrebbero tutti cercato di controllare insieme la loro miseria. Nel passato... Solo un giorno prima, pensò, l'avrebbe fatto, lo sapeva.

Oggi si limitò a stringergli le spalle, a distanza di un braccio, e non disse una parola.

L'abisso nel suo petto era profondo e freddo.

Come poteva essere diverso quando il suo cuore stava bruciando fino a ridursi in cenere di fronte a lui?


«Un giorno capirai» aveva detto a Fíli a Pontelagolungo.

Ciò che voleva dire era diverso, ma sapeva che non sarebbe riuscito a farselo uscire dalla gola. Avrebbe fatto male dirlo - sarebbe stato troppo chiedere al fato di ripetersi. Sarebbe stato troppo crudele da dire al suo nipote dorato.

«Io ho già sepolto mio fratello minore. Non voglio che tu debba fare lo stesso»

Ovviamente, visto come andarono le cose in seguito sarebbe stata una cosa inutile da dire.


A volte si sveglia, coperto di sudore e con l'eco di un urlo nella gola.

E deve camminare.

Deve fare qualcosa con le mani, quindi visita la forgia – dove per la maggior parte del tempo rimane seduto a fumare, cercando di soffocare il terrore che cresce nel suo petto col fumo fragrante della sua erbapipa preferita. Brandy, il tipo forte e amaro che aveva scoperto ad Ered Luin quando era ancora vivo, a volte aiuta, ma in genere no. Non può affogare il suo dolore come Óin. Non può fare esercizio finché non sparisce come Dwalin perché ogni manichino da allenamento prende qualche forma da incubo che rende debole il suo braccio.

Col tempo migliora, per fortuna. Si sveglia di meno, smette di fare a pezzi le proprie lenzuola cosa che rallegra grandemente sua madre. Fuma meno. Gli incubi sono più rari e meno sanguinari. Sembrerebbe che il tempo davvero possa prendersi cura di alcune ferite – non tutte, certo, e non del tutto. Alcune delle sue cicatrici stanno ancora pulsando di dolore e sono pronte a riaprirsi al minimo tocco.

Il tempo potrà non essere un guaritore, ma è bravo a dare punti, pensa.

Quello, ovvio, accade molto più tardi. Anni, decenni dopo la sua morte. Decenni di pazienza e duro lavoro, di perdono e comprensione, e dell'amore senza misura datogli da coloro che lo circondano.

La prima volta che un incubo la strappa dal letto è caotico e incomprensibile.

Quando non si era ancora abituato, quando era ancora un essere fatto di rabbia e disperazione.

Quando la novità di riavere suo fratello a portata di braccio ancora non era assorbita...


«Thorin...?» mormorò una voce addormentata «Sei tu?»

Rimase sulla porta, con la mano stretta attorno alla maniglia, col respiro un po' irregolare e piedi nudi che congelavano sulla roccia fredda... Si sarebbe dovuto scusare per entrare così. Avrebbe dovuto. Era un'intrusione maleducata che nessun nano avrebbe accettato da alcuno. Non avere nemmeno la decenza di bussare...

Ma era ancora mezzo addormentato e la sua mente era un nodo di viticci selvatici così invece andò verso il basso letto e prese Frerin fra le braccia. Goffo come un troll, portandosi dietro le coperte e le pellicce. Frerin squittì di indignazione e lottò debolmente, stancamente, contro la sua presa d'acciaio, ma Thorin non lo poteva lasciare andare.

Era così... piccolo, suo fratello, così piccolo. A malapena più grande di uno Hobbit! Il suo piccolo sole dorato...

«Thorin, cosa... che stai facendo? Ehi, piantala! Ehi!» la voce di Frerin divenne sempre più forte contro la sua spalla «Thorin...!»

«Shhh...» Thorin si udì sussurrare. In passato lo usava per far calmare Fíli e Kíli quando i suoi nipoti decidevano di essere capricciosi nelle loro culle.

Frerin non era nessuno dei due – capriccioso o nipote – ma smise di lottare per un momento, udendo la sua voce.

«Thorin...» la sua voce era cambiata, più dolce «Sei sveglio?»

«Shhh...» ripeté Thorin, perché no, non lo era ed era l'unica cosa che gli venisse in mente.

«Fratello, non sono un bambino e protesto l'essere trattato come uno!»

Ma, lo era. Lo sarebbe stato. Per sempre.

Perché Thorin non poteva essere in due posti contemporaneamente. Perché aveva scelto male!

(A differenza di Fíli. Fino alla fine e allora avevano incontrato la fine insieme, mano nella mano.)

Quando le sue proteste risultarono solo nel far stringere l'abbraccio, Frerin cambiò strategia. Abbracciò suo fratello a sua volta.

«Sto bene, nadad» sussurrò «Tu?»

«...sei morto...» biascicò Thorin a denti stretti. La sua gola gli faceva male, strano. «Morto...»

«Oh...» fu l'unica risposta a ciò. Un suono così piccolo, spaventato.

E improvvisamente le sue braccia erano vuote. Si era scordato quando agile e rapido fosse suo fratello – lo erano entrambi quando erano giovani – quanto fosse difficile tenerlo fermo. Ci vollero a Thorin un paio di confusi secondi prima di pensare di abbassare le mani.

«Beh, muoviti, lumacone, vieni qui» grugnì Frerin, mettendo le coperte in una parvenza di ordine e tirandosi indietro, facendo spazio sul letto «Sdraiati almeno, non posso... guardare in alto per tanto, lo sai» Cercava di suonare tranquillo, Thorin lo sapeva, ma sapeva anche che non lo era «Qua, solo... solo non schiacciarmi.»

Thorin lo seguì. Si arrampicò sul letto e si sdraiò, e quasi immediatamente si trovò soffocato con delle coperte, un cuscino in più schiacciato sulla faccia.

«Sei ghiacciato!» la voce di Frerin tremò per l'irritazione «Tieni i piedi lontano dai miei... ah!»

Le braccia di Thorin si richiusero in una trappola d'acciaio di abbraccio, stavolta su un fagotto molto più piccolo di Nano sonnolento. Non poteva lasciarlo andare più di quanto non potesse smettere di respirare.

Era una sensazione talmente nuova, riavere questo. Riavere lui, il suo luminoso, dorato fratello. Erano entrambi morti, ed entrambi erano morti nel modo più atroce, ma lui poteva quasi, quasi, perdonarlo. Quasi lasciarlo andare – finché voleva dire che riaveva questo. Il suo sole, la sua famiglia, vivente e integra, di nuovo assieme. Solo una mancava ed era una costante fonte di dolore, ma molto di più era meglio da quando si era risvegliato nelle Sale.

Fíli e Kíli finalmente avevano un vero padre che si sarebbe sempre preso cura di loro, sua madre... per la barba di Mahal, sua madre era lì, e suo padre era nuovamente integro, suo nonno era stato guarito. Nulla poteva fargli del male qui, erano tutti al sicuro. Lui era al sicuro. Nulla poteva raggiungerlo, ma gli incubi...

«Hai sognato di... quello... ancora?» chiese Frerin dolcemente.

Thorin sobbalzò. «Ancora...?»

«Io ti ho visto, dopo la... dopo quello. Azanulbizar» sussurrò suo fratello «Ho... guardato. Tu e Dís e padre. Molto. Probabilmente più di quanto avrei dovuto, ti direbbe madre. Ti ho visto a volte, sai... io...» Thorin sentì un respiro caldo contro la sua clavicola, un volto nascosto sotto il suo mento e piccole dita che si stringevano sulla sua maglia – come un bambino che si nascondeva da una tempesta, Frerin si spinse più strettamente contro la sua spalla «Volevo così tanto dirvelo, a tutti... farvi capire che sono qui, che sto... bene. Così tanto. Eravate tutti tristi... ma non potevate sentirmi.»

Un respiro profondo fu l'unico suono nella stanza buia. Thorin sentì il suo corpo che si irrigidiva, il suo sangue si ghiacciava nelle sue bene, perché quella... possibilità non gli era mai passata per la mente.

La possibilità che Frerin li avesse osservati, che avesse passato giorni al lago stellato, seduto sulla stessa panca di pietra, osservando. Osservandoli piangerlo, osservandoli piegarsi e crollare prima che Thorin avesse la forza di rimettere in piedi Dís prima che la stessa disperazione le svuotasse il cuore. Osservando...

Come Thorin osservava ora.

«Mi dispiace» disse, coerente per la prima volta quella notte «Avrei dato di tutto... avrei dovuto restarti accanto.»

«Non potevi, nonno...»

«Avrei dovuto ribellarmi. Avrei dovuto...»

Avrei dovuto scegliere te. Non c'era altro da dire, aveva fatto la scelta sbagliata ed era costata a tutti.

«Thorin, ascoltami!» quelle piccole mani gli presero il volto, tirandolo giù. Sempre giù ora, anche al buio, dove potevano a malapena vedersi. «Non avresti potuto saperlo... Non puoi sapere che avrebbe cambiato qualcosa! Ti dai sempre la colpa per tutte le cose più stupide...!»

«Eri il mio sole» ribatté Thorin, la voce tesa sotto il peso del dolore «Sarei dovuto rimanere con te.»

Forse avrebbe cambiato qualcosa. Non avrebbe mai permesso che alcun male venisse ai suoi fratelli. Forse sarebbero morti entrambi o forse sarebbero vissuti entrambi, ma il risultato sarebbe di certo stato diverso! Doveva esserlo!

«Non avresti cambiato nulla, nadad. Sono morto perché sono stato stupido, va bene?»

Avrebbe potuto essere chiamato freddo e noncurante, il modo in cui fu detto, se non per il modo in cui la voce di Frerin continuava a tremare e le sue dita continuavano e stringere le trecce di Thorin.

«Frerin...»

«Mi ero distratto, non feci attenzione... non mi assicurai che fosse stato morto prima di muovermi» ogni parola gocciolava di antico dolore e lo stesso maledetto tipo di disprezzo per se stesso che Thorin conosceva fin troppo bene «Mi ero distratto e avevo perso d'occhio padre, e... beh, l'ho pagata.»

«Cosa ti distrasse?»

Domanda stupida. Era un campo di battaglia, c'erano migliaia di cose alle quali uno doveva prestare attenzione, troppe per elencarle tutte. Era una cosa stupida da chiedere, ma non c'era altro che potesse dire dopo la confessione di suo fratello. La sua mente continuava a offrirgli commenti e rassicurazioni vuote che non volevano dire nulla quando entrambi conoscevano il peso dell'incubo che nasceva da quel ricordo.

«Frerin?» sussurrò Thorin quando non vi fu risposta «Sei...»

«Ti vidi cadere»

Se il suo sangue era freddo prima, ora era divenuto di ghiaccio.

«Ti vidi cadere e pensai che fossi morto...» sussurrò Frerin sotto il suo mento «Non mi fece nemmeno tanto male, perché pensai che tu fossi morto. E mi svegliai qua, pensando che eri morto... ma ero io ad essere morto e non tu... ero felice... sarei stato così felice se non fosse stato tremendo per te. Ti avrei risparmiato tutta quella sofferenza se avessi potuto.»

Le sue parole, ritirategli contro, comprese Thorin. Le parole che aveva quasi dimenticato, quelle che un tempo fecero irritare suo fratello. Ora capiva perché.

«Non voglio più parlarne» disse Frerin dopo un minuto, il più tranquillamente possibile, e procedette a sbadigliare esageratamente «Sono stanco e tu non mi lasci riposare.»

Un piccolo attore, il suo sole. Così furbo.

«Ti lascerò al tuo riposo, allora» sussurrò Thorin in tono di scusa, riuscì a tirar un piede fuori dal letto prima di venire tirato indietro.

«Prenderai di nuovo freddo» disse suo fratello «O picchierai l'alluce da qualche parte visto che hai intelligentemente deciso di camminare scalzo. Meglio se... se ti metti qui e mi lasci dormire, grosso idiota.»

«Ah, allora... buonanotte, mimel ûrzud» mormorò in sconfitta.

La risposta fu ovviamente irritata.

«Non sono piccolo!»

Era così familiare che i suoi occhi si bagnarono un poco, ma li chiuse in fretta e il suo volto rimase asciutto.

Per un po' almeno, finché il piccolo corpo al suo fianco infine si fermò e poté sentire il respiro di Frerin rallentare.

Era una stanza quieta, ma non silenziosa.


Diventa più facile, ma facile, ma più facile. Abbastanza per andare avanti.

Gli incubi smettono di svegliarlo dopo un po' – almeno i suoi incubi.

Ci sono notti quando i suoi istinti affinati dalle battaglie lo svegliano dal sonno quando il suono di piccoli piedi su un pavimento di pietra attraversa la stanza verso il suo letto. Ci sono mattine in cui si sveglia con un piccolo corpo attaccato alla sua schiena (nel caso sia suo fratello) o stravaccato su tutto il suo letto (nel caso sia Kíli, e il ragazzo non ha un padre da cui andare a cercare conforto?). A volte è sua madre a svegliarlo per fare colazione e lui può aprire gli occhi e vedere un sorriso dolce sul suo amato volto.

Aiuta.

Si tiene occupato, o almeno prova, e c'è sempre qualcosa da fare. A volte fare la guardia, a volte nuove cose da creare, una nuova storia da ascoltare...

Il mondo ora è raramente silenzioso.

FINE

   
 
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