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Autore: _armida    01/07/2016    1 recensioni
Ade si chinò sul suo volto, quasi volesse sfiorarglielo con il proprio. “Lo sentì il sole sulla tua pelle, Persefone?”, soffiò sulle sue labbra. Un gesto elegante della mano e le foglie secche ancora attaccate ai rami sopra le loro teste si staccarono, permettendo così ad un raggio di sole di penetrare all’interno del cerchio, finendo a lambire le loro due figure.
“Il bell’Apollo, il tuo caro Dioniso, loro parlano del sole, del suo calore sulla pelle, ma tu ti limiti a sorridere ed annuire, fingendo di sapere di cosa parlano ma in realtà non lo sai. Senti solo un leggero torpore, niente a che fare con la sensazione divorante che provano loro. La pelle delle divinità che conosci si scurisce e diventa ambrata, la tua rimane invece sempre pallida. Ti sei mai chiesta il perché di tutto questo?”
Parlava davvero di lei? Oppure c’era anche un pochettino di sé stesso in quelle parole?
“Io e te non siamo poi così diversi”
Genere: Avventura, Fantasy, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Oggi ho deciso di mettere le note qua sopra :D
Innanzitutto vorrei scusarmi con voi per il moltissimo tempo che è passato dall'ultimo aggiornamento della storia (sono più di tre mesi). Mi dispiace davvero molto ma l'università non mi dà un attimo di tregua: non che avrei creduto che ingegneria fosse una facoltà semplice, ma qui si sta davvero esagerando! 
Bene, detto questo vi lascio al capitolo. Buona lettura e a presto (se sopravvivo alla sessione estiva)


Capitolo V: L’Incubo

La tempesta imperversava ancora ferocemente. Il rumore dell’acqua, che scrosciava senza sosta, e il riecheggiare dei tuoni in lontananza, coprivano ogni altro possibile suono.
Persefone si guardò intorno, chiedendosi come fosse finita a vagare per quegli stretti vicoli, in quello che aveva tutta l’aria di non essere uno dei quartieri più benestanti di Atene. Alzò il capo verso l’entrata di una di quelle umili dimore, riconoscendo immediatamente la casa. Inconsciamente, era andata dall’unica persona estranea a quella faccenda che conoscesse: era andata dal proprio maestro.
Timorosa, si avvicinò alla porta e bussò, sperando con tutta sè stessa che qualcuno la udisse.
Dopo alcuni istanti al piano superiore si accese una debole luce e, poco dopo, si sentì qualcuno scendere una scala.
La porta si aprì un minuto più tardi e sulla soglia fece la sua comparsa una donna anziana in camicia da notte, con i lunghi capelli bianchi sciolti che le ricadevano sulle spalle. Avvicinò la candela al viso di quell’ospite inaspettato, nel tentativo di riconoscerla.
“Persefone?”, disse infine Iphigenia, la moglie di Fidia, sorpresa.
La giovane dea accennò un lieve ‘sì’ con la testa.
“Mia cara, cosa ci fai qui tutta sola nel bel mezzo della notte? E poi con questo tempo...”. Si fece da parte, permettendo così alla ragazza di entrare, ma lei indugiò comunque sulla soglia. “Entra, cara, entra”, la spronò, passandole un braccio intorno alle spalle con un fare che aveva un chè di materno. 
Persefone le si strinse immediatamente addosso, bisognosa di affetto ed attirata dal piacevole calore prodotto da quel corpo.
“Poverina, starai congelando”, disse l’anziana, mentre avanzavano verso la semplice scala di pietra grezza che portava al piano di sopra. “Fidia, corri immediatamente giù! C’è qui la tua allieva”, chiamò il marito. Poi la propria attenzione fu nuovamente attirata dalla sua ospite, che riversava in condizioni a dir poco pietose. “Vado a prenderti qualcosa per scaldati”, si rivolse a lei. Ruppe quel piacevole abbraccio, dirigendosi in fretta verso un sobrio armadio di legno, dal quale estrasse alcune coperte, che posò poi sulle spalle di Persefone, riuscendo così in parte a calmare il tremolio del corpo della giovane.
Fidia scese le scale nel mentre, borbottando qualcosa tra sè e sè, apparentemente per nulla soddisfatto che qualcuno avesse disturbato il proprio sonno. Aggrottò le folte sopracciglia bianche, al constatare le condizioni in cui riversava la sua pupilla. “Persefone, si può sapere cosa ti è accaduto?”, chiese, lasciando per una volta trasparire tutta la propria preoccupazione. 
La giovane lo osservò con i suoi grandi occhi verdi. “Io...io...”, tentò di mormorare, ma un singhiozzo le mozzò la voce. Le lacrime che era riuscita a trattenere da quando era entrata in quella casa tornarono a scorrere impetuose sulle sue guance. 
“Va tutto bene, Persefone”, le sussurrò dolcemente Iphigenia ad un orecchio, mentre la stringeva forte a sè. La condusse in un’altra stanza, che probabilmente era la cucina e la fece sedere su una sedia di legno, anch’essa dalle linee essenziali. “Vado a prepararti un bagno caldo, nel mentre rimarrà Fidia qui con te”, le disse, tentennando comunque a lasciare le mani della giovane.

***

Alcune ore più tardi...

“Si è addormentata, finalmente”, disse Iphigenia, lasciandosi stancamente scivolare su una delle sedie della cucina, di fronte al marito. Poggiò l’abito che indossava la giovane sul tavolo. “L’ho aiutata a farsi un bagno e poi l’ho messa a letto”, ripetè. Prese le mani dell’uomo tra le proprie, sospirando. “Fidia, io non so cosa le sia capitato, ma è terrorizzata. Non riesce nemmeno a parlarne, poverina”
L’uomo scosse la testa: non sapeva niente della sua allieva; le sue origini, la sua famiglia, la sua provenienza...era sempre stato tutto avvolto dal mistero. Aveva provato alcune volte a chiederle informazioni, ma non appena accennava all’argomento la giovane si chiudeva a riccio e cercava in tutti i modi di cambiare discorso o di trovare una via di fuga; dai suoi modi di fare aveva dedotto che appartenesse a qualche ricca famiglia, una nobile, forse, ma niente di più. Nonostante questo, però, non aveva esitato ad accoglierla fra i suoi allievi, nè tanto meno invitarla un paio di volte a casa propria. 
“Credo sia una nobile, ma la mia è solo una deduzione”, disse.
La moglie lasciò le sue mani, riprendendo tra le dita l’abito con cui era arrivata Persefone. “Non ho mai toccato una stoffa del genere, nè visto un abito di simile fattura prima d’ora”. Iphigenia aveva fatto per anni la sarta, vestendo gran parte dell’alta società ateniese e non solo; aveva utilizzato le stoffe più pregiate provenienti da ogni parte del mondo conosciuto. “Indossava una gran quantità di oro che dire nobile mi sembra un termine riduttivo”
Fidia annuì: si fidava ciecamente del giudizio della moglie.
“Dovresti parlare con lei, Fidia”, continuò la donna, poggiando il vestito e tornando a cercare le mani dello scultore. “Sta scappando da qualcosa, di questo sono certa, e ha bisogno di qualcuno che le stia accanto”. Si alzò dalla seduta. “Ora però è il caso che andiamo a dormire pure noi, ci penseremo domani mattina”

***
Poco dopo...

L’aria era incandescente. Il fumo denso e scuro. 
Persefone tossì  e si guardò intorno, faticando a riconoscere il luogo dove si trovava. I resti di quella che doveva essere una colonna portante, riversa a terra, attirarono la sua attenzione: l’elaborato capitello, la meticolosa scanalatura, il diametro...doveva aver sostenuto un notevole peso ed appartenere quindi ad un edificio imponente.

Tentò un passo in quella direzione ma un’acuta fitta di dolore la costrinse a fermarsi e a portare lo sguardo verso il basso dove, poco sopra al ginocchio destro un’affilata scheggia di legno sporgeva di alcuni centimetri dalla carne.
Doveva estrarla. 
Il suo primo pensiero fu quello che doveva assolutamente estrarla.
Con la mano tremante, strinse tra le dita il frammento.
Uno...due...

Nonostante tutta la buona volontà, dalla sua bocca scappò un urlo di dolore. 
Cercò di restare in piedi ma le gambe non la ressero e cadde in ginocchio, mentre i sensi venivano meno. Serrò con forza gli occhi, concentrandosi solo sul dover restare sveglia e non lasciarsi andare a quell’invitante senso di torpore che rischiava di portarla verso l’oblio.
Prese alcuni lunghi respiri, cercando invano di calmarsi, e poi, con grande fatica, alzò nuovamente le palpebre: la spessa cortina di fumo, che fino ad un attimo prima le aveva impedito di scorgere ciò che c’era ad un palmo dal proprio naso, si era diradata.
Persefone si trovava in una posizione elevata, la cima di una collina probabilmente. Sotto di lei si estendeva quella che una volta doveva essere stata una città, ora ridotta ad un cumulo di macerie fumanti e fiamme, da cui si alzavano alti pennacchi di denso fumo nero. Le bastò poco per riconoscerla: Atene. La sua adorata Atene completamente distrutta. 

Si premette entrambe le mani alla bocca. Il respiro bloccato improvvisamente in gola. 
Scosse la testa: quello era un incubo, solo un incubo. E doveva trovare un modo per uscirne. 
A fatica riuscì a rimettersi in piedi e si guardò nuovamente intorno: alle sue spalle, le rovine di quello che sarebbe dovuto essere l’edificio più imponente del mondo conosciuto si ergevano spettrali, circondati da una sottile cortina i fumo grigio. Zoppicò verso di esse, ma si bloccò quasi immediatamente a causa di un inatteso rumore, sospetto in quel surreale silenzio in cui era immersa l’acropoli.
Dei fruscii, seguiti da sibili si facevano sempre più vicini. 
Strano come certi ricordi tornino in mente nei momenti meno adatti, eppure in quell’istante  Persefone pensò alle storie che Apollo e Dioniso raccontavano intorno al falò, durante le calde notti estive: uno di questi narrava di tre  
sorelle con delle serpi al posto dei capelli e con il potere di tramutare in pietra chiunque le guardasse negli occhi.  Probabilmente le loro serpi producevano un sibilo molto simile a quello che stava udendo ora...
Serrò nuovamente le palpebre. Il sangue che gelava nelle vene e la paura che aumentava mano a mano che quelle creature si facevano sempre più vicine.
Sentì le loro lingue fendere l’aria e la loro pelle viscida sfiorarle le caviglie. Dalle sue labbra sfuggì un gemito quando una di queste cominciò a risalirle una gamba , per poi continuare la risalita fino ad attorcigliarsi intono al suo sottile collo.
Persefone aprì lentamente gli occhi, ritrovandosi la testa del serpente a pochi centimetri da volto. Restarono per alcuni istanti a fissarsi, poi l’essere spalancò le proprie fauci, mostrando una lunga fila di acuminati denti, ancora sporchi del sangue di qualche vittima.
La dea della primavera urlò e serrò nuovamente gli occhi. 


Si sarebbe aspettata dolore, tanto dolore, mentre i denti di quella creatura affondavano nella sua carne, ma non avvenne niente di tutto quello.
Passarono diversi secondi, diversi interminabili secondi in cui tutto sembrava essere ritornato immerso in quel surreale silenzio. 
Persefone, nonostante il terrore che ancora le paralizzava le membra, aprì timidamente gli occhi, ritrovandosi nella più totale oscurità. Le tenebre erano così dense che pareva si potessero quasi tagliare con un coltello.
Si guardò intorno, aguzzando la vista per cercare di scorgere anche la più tenue traccia di luce, ma non c’era niente, solo opprimente buio.
“È quello che accadrà” 

La giovane si voltò nella direzione da cui quella voce proveniva, trovando però solo altra tenebra. Prese un respiro, tentando di farsi coraggio per l’ennesima volta. “Chi c’è?”, chiese con voce tremante.
Dall’oscurità giunse un lieve sogghigno.
“Moriranno tutti”
Persefone fece un paio di timidi passi in avanti. “Chi sei? Mostrati”, disse di nuovo.
“Moriranno tutti, tutti i tuoi amati umani periranno”
Per l’ennesima volta quella misteriosa voce cercava di intimorirla. “Facile parlare nascosto nell’oscurità”, disse la dea della primavera, ostentando un’inusuale sicurezza.
Dalle tenebre provenne una risata.
“Solitamente nel mio regno non permetto che mi si parli in questo modo”, sussurrò la voce, vicinissima al suo orecchio. 

Persefone si voltò di scatto e fece alcuni passi indietro, il respiro corto e il cuore che batteva all’impazzata dalla paura. Si concesse un istante per riprendere fiato e poi alzò lo sguardo: davanti a lei, il Signore dell’Averno la osservava con una punta di ironia ad illuminargli gli occhi color del ghiaccio; indossava la stessa veste di poche ore prima, ma la corona era sparita e i lunghi capelli argentati gli ricadevano liberi sulle ampie spalle.
“Voi...”, commentò la dea, con odio.
“Già..io...”, le fece eco Ade, sarcastico. Provò a fare un passo in direzione di Persefone e le sue labbra assunsero una piega ironica quando la vide arretrare nuovamente.
“Cosa volete da me?”, chiese la dea.
“Mi complimento con te, Persefone: divinità ben più anziane se la sarebbero fatta sotto dopo tutto quello che hai visto, invece tu hai ancora il coraggio di rispondermi a tono” 

Vi ho fatto una domanda, l’educazione impone che mi si risponda”, ribattè lei.
“È quello che sto per fare, infatti”, disse il dio, facendo un altro passo nella direzione della giovane che tentò nuovamente di arretrare, ma che fu bloccata con le spalle muro da un ostacolo che era certa non ci fosse un istante prima. Ade le prese il mento tra le dita, avvicinando il proprio viso al suo; il suo sguardo passò dagli occhi verdi della giovane alle sue labbra vermiglie. “Volevo mostrarti a cosa porterebbero eventuali scelte sbagliate”, continuò, abbassando volutamente il tono di voce. Dopodiché lasciò la presa e diede le spalle alla dea, facendo alcuni passi nell’oscurità.
Persefone prese un paio di lunghi respiri. “Perchè state facendo tutto questo?”, mormorò.
Il Signore dell’Averno alzò le spalle, noncurante. “È solo una questione di potere...e di possedere le armi giuste”
“E io a cosa vi servo, allora?”, chiese la giovane, confusa.

“L’arma sei tu, Persefone”, disse il dio, girandosi nella sua direzione e tornando ad avvicinarsi a lei. “Ma questo non è il luogo adatto per parlarne”
La dea della primavera lo guardò spiazzata; fece per aprire bocca ma Ade riprese a parlare.
“Ci rivedremo tra qualche ora, nel bosco appena fuori la vostra amata città di umani. Risponderò alle vostre domande e, chissà, magari potremo anche trattare i termini della resa”
Osservò Persefone con un ghigno sprezzante, poi schioccò le dita. 

“A più tardi” 

Persefone aprì di scatto gli occhi. La fronte madida di sudore e il cuore che batteva ad un ritmo insolitamente sospetto. Aprì la bocca, cercando di prendere aria, ma per quanto si sforzasse, l’ossigeno le sembrava sempre troppo poco.
“Calmati, Persefone”, disse una voce famigliare con dolcezza materna. Iphigenia le strinse una mano e con l’altra prese ad accarezzarle i capelli. “Va tutto bene, bambina mia”, aggiunse.
La giovane la osservò con gli occhioni verdi velati di lacrime, ancora incapace di parlare. Il suo sguardo prese a vagare per la stanza, fermandosi infine sul proprio maestro, appoggiato alla porta, che fissava il vuoto con aria torva.
Iphigenia seguì lo sguardo della giovane fino al marito; sospirò, come se cercasse di scacciare così il nervosismo. “Vi lascio soli”, disse. Diede un buffetto sulla guancia di Persefone e lasciò la stanza.
Nel piccolo camera dove la giovane era stata messa a riposare calò il silenzio.
“Prendi questo”, disse Fidia dopo alcuni minuti, lanciandole un mantello. 
La dea osservò il proprio maestro perplessa.
“Andiamo a fare una camminata”, aggiunse l’uomo, voltandosi ed avviandosi verso l’uscita.
 
***
Poco dopo... 

In quel momento la giovane si trovava seduta nell’esatto punto in cui nell’incubo quel serpente le si era attorcigliato intorno al corpo; sotto di lei, la città si stava poco a poco svegliando e il Sole mostrava i suoi primi timidi raggi. Dopo quello che aveva visto, che Ade le aveva fatto vedere, era stata sollevata nel constatare che Atene era ancora la stessa, che aveva passato la notte illesa. Prese in mano alcuni sassolini, cominciando a lanciarli distrattamente sul sentiero. La mente che non ne voleva sapere di essere lì con lei ora, ma che continuamente tornava a ciò che Ade le aveva detto.
“L’arma sei tu, Persefone” 
Quella frase non voleva saperne di lasciarla in pace.
Un’arma? Lei?
La giovane dea della primavera scosse la testa: il Signore dell’Averno doveva averla scambiata per qualcun’altra, lei era innocua. Completamente innocua...e inutile. Non aveva nessun potere, non era come suo padre, che sapeva controllare i fulmini, o sua madre, che riusciva a cambiare le stagioni solo con uno schiocco di dita, lei era poco più che un umana; aveva solo l’immortalità in più di loro.
Talmente presa dai suoi pensieri, non si accorse nemmeno che il proprio maestro le si era seduto affianco, mettendosi a studiarla attentamente.
“Dovresti parlarne con qualcuno di questi tuoi problemi”, disse, interrompendo così il prolungato silenzio che era regnato tra loro per tutto quel tempo.
Persefone si voltò verso di lui: in quel momento i suoi occhi colore dei verdi prati primaverili apparivano simili a quelli di un cucciolo smarrito.
“Non so come funzioni dalle tue parti, ma qui ad Atene quando qualcuno si offre di ascoltare i tuoi problemi, si inizia a parlare”, continuò Fidia, riuscendo a strappare un debole sorriso alla sua pupilla.
“Non...non saprei da dove iniziare”, mormorò lei, con un filo di voce.
L’anziano le prese una mano tra le proprie, in un rarissimo gesto d’affetto. “Potresti dirmi chi sei veramente, tanto per incominciare”
La giovane chiuse un attimo gli occhi e prese un lungo respiro. “Qui...voi mi conoscete con un altro nome. Persefone è il mio vero nome ma...ma voi mi conoscete con il nomignolo che mi ha dato mia madre”
Fidia aggrottò le sopracciglia, perplesso.
“Kore”, mormorò lei. “Kore, la dea della primavera, figlia di Zeus e Demetra”
L’espressione del maestro si fece da prima pensierosa, poi stupita ed infine preoccupata; portò una mano alla fronte dell’allieva, per controllarne la temperatura.
Persefone non potè fare a meno di ridere. “Ero certa che mi avreste presa per matta, ma posso assicurarvi che è tutto vero”
“Non hai la febbre”, commentò Fidia tra sè e sè. Stava per dire che sì, la credeva impazzita, ma poi gli tornò alla mente il discorso della notte prima, circa il modo in cui era agghindata: la parte meno razionale del proprio cervello aveva incominciato a credere alle sue parole.
“Ti credo”, disse dopo alcuni secondi passati a pensare.
Persefone tirò un sospiro di sollievo. “Grazie”, mormorò.
“Non c’è niente di cui ringraziarmi. Sappi solo che non ti riserverò un trattamento d’eccezione solo perchè sei una dea, bambina”, ironizzò.
“Voglio essere trattata come tutti gli altri, infatti”, ribattè la dea, con un ampio sorriso.
“Ottimo. Ora continua pure con il tuo racconto”
L’espressione della giovane tornò a rabbuiarsi. “Andava tutto bene prima...prima che quel...quel vortice si formasse”, disse, non potendo fare a meno di rivolere il suo sguardo all’oscuro cono che dominava l’orizzonte.
“Hai detto che è stato il Signore dell’Averno a crearlo...ti è sfuggita un’informazione riguardo ad un esercito ieri”
Persefone annuì. “C’è...c’è stata una specie di trattativa, la notte scorsa...Ade...lui...lui è stato molto chiaro sulla condizioni per la pace”.  Si costrinse a fare una pausa, per ricacciare indietro le lacrime che premevano con troppa forza per uscire. “Mio...mio padre ha una settimana per decidere. Se...se decidesse di non accettare le conseguenze potrebbero essere terribili: le...le vostre città sarebbero rase al suolo e...e di voi umani non resterebbe più nulla”
“Quali sono le condizioni per la pace?”, chiese Fidia, il volto ancora più serio ed austero del solito.
“Io...”, mormorò con un filo di voce la giovane, lasciandosi alla fine sfuggire un singhiozzo. 
L’anziano non ci pensò due volte e la strinse forte a sè, permettendole di piangere le proprie lacrime sulla sua tunica. Quando non sentì più la giovane tremare tra le proprie braccia, le prese il viso tra le mani, per poterla guardare negli occhi. “Persefone, ascoltami: il futuro è il tuo, non quello di tuo padre. Devi essere tu a decidere, non devi permettere a nessun altro di farlo”
La ragazza annuì, asciugandosi poi le ultime lacrime con il dorso della mano. “Lui...Ade..stanotte abbiamo parlato”
“L’incubo...”, la interruppe il maestro, soprappensiero. 
“Esatto. Ma non era solo un sogno era...era qualcos’altro. Mi...mi ha detto di incontrarci poco lontano da qui...lui...ha detto che risponderà a qualsiasi mia domanda”
“Ci andrai?”
Persefone annuì nuovamente.
Fidia le appoggiò una mano sulla spalla, in un gesto di incoraggiamento. “So che qualsiasi decisione prenderai, sarà quella giusta”.     
   
 
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