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Autore: Najara    03/07/2016    7 recensioni
Il mondo è diventato un luogo di morte e disperazione, perché continuare a lottare e vivere? Forse solo per il ricordo di una promessa che non può essere dimenticata.
Storia partecipante al contest "Hold my Angst (Flash contest - Edite ed inedite)" indetto da GaiaBessie
Storia partecipante al contest: "Apocalisse: Vivere o Morire [Zombie!AU & Originali]" di ManuFury
Genere: Angst, Drammatico, Horror | Stato: completa
Tipo di coppia: FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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La promessa
 
La sveglia vibrò e lei aprì gli occhi. La stanza le parve subito aliena, si guardò attorno frastornata, fino a quando i suoi occhi non si posarono sull’elegante fucile da caccia.
Chiuse di nuovo gli occhi e prese un profondo respiro, lasciando che l’agitazione passasse, poi si alzò dal letto stiracchiando la schiena e sbadigliando.
Sul comodino vi era il cambio di indumenti che aveva racimolato frugando nei vari armadi della casa. Con soddisfazione poté indossare un paio di jeans e una t-shirt puliti. Su quest’ultima infilò un maglione color pesca che aveva recuperato il giorno prima e che teneva nello zaino. Raccolse i biondi capelli in una comoda coda, afferrò il fucile e si avvicinò alla finestra.
La luce esterna era fioca, il sole era ancora solo una promessa, ma il cielo era di un tenue azzurro e privo di nubi.
Poco lontano dalla casa in cui aveva dormito, sulla strada principale, un gruppetto di loro cincischiava. Non riuscì a impedirsi una smorfia. La mano le andò al fucile che aveva sistemato sulla spalla e la mente le ripropose ancora e ancora la stessa domanda: doveva, poteva? farlo adesso?
Le dita accarezzarono le fredde canne brunite, lei rabbrividì e si fermò. No, non poteva, aveva fatto una promessa: sarebbe tornata a casa.
Lasciò ricadere il fucile sulla spalla e raggiunse la cucina. Frugò tra gli scaffali e con soddisfazione trovò del caffè solubile, mise dell’acqua sul fuoco e attese che bollisse. Si riempì una tazza e mise il caffè restante nel thermos che aveva trovato in una cucina qualche giorno prima.
Mentre sorseggiava la bevanda calda osservò, nel debole chiarore del mattino, le foto appese al frigorifero. Due bambini sorridenti, una madre, un padre, un nonno ancora capace di far volteggiare uno dei bambini e persino un cane. Doveva essere stata una bella famiglia. Notando un foglio caduto a terra si alzò e lo recuperò. Era la lista della spesa, per un attimo fu sul punto di accartocciare e gettare il foglietto, ricordo di un tempo ormai passato, poi, in un ripensamento, lo rimise al suo posto, fissandolo con una calamita di Nonna Papera.
“Grazie.” Mormorò al frigorifero come se si rivolgesse davvero a quella sorridente famiglia, poi scosse la testa e tornò al suo caffè.

 
***
 
Osservò l’orologio e si guardò attorno, non era il miglior posto per una pausa, ma camminava da due ore e non poteva continuare senza fermarsi un po’.
La strada era costeggiata da una fitta vegetazione, stava attraversando una regione contadina, priva di grandi centri urbani, ma punteggiata da piccoli villaggi e ricca di foreste e campi. Ideale per certi aspetti, ma che mancava di punti di osservazione. Guardò di nuovo l’orologio e si arrese. Uscì dalla strada e si sedette ai piedi di un albero. Dallo zaino estrasse il thermos e bevve qualche sorso, non era più bollente, ma le riscaldò piacevolmente lo stomaco. Come era abituata a fare approfittò della pausa per controllare i suoi movimenti sulla carta geografica della regione. Da quando aveva capito come muoversi i suoi progressi erano nettamente aumentati, ora riusciva a percorrere anche venti chilometri in un giorno.
Con le dita misurò approssimativamente quanto le mancava: una decina di giorni, più probabilmente dodici, ma se era fortunata nove. Non che ci contasse troppo.
Controllò l’ora e ripose la carta, bevve ancora un sorso dal thermos e si alzò, sistemò il fucile sulla spalla e tornò sulla strada. Altre due ore di marcia la aspettavano.

 
***
 
Il sole era quasi allo zenit quando davanti a lei sorse un problema. Rallentò fino a fermarsi. La luce del giorno si rifletteva sempre in maniera particolare sulla strada, ma ora c’era un brillio tutto nuovo. Estratto il binocolo capì subito cosa fosse: una fila di macchine. Se la strada non avesse raggiunto quella leggera collina lei non avrebbe avuto quella visuale privilegiata e sarebbe finita in mezzo alle macchine prima ancora di accorgersene. Si era fermata per la sua solita pausa solo cinque minuti prima e loro dovevano essere vicini. Rischiava di essere presa tra due fuochi.
Si girò, osservando la strada che aveva percorso, loro erano lì. Le mani penzoloni lungo il corpo, le teste che scattavano in pose bizzarre e innaturali, la pelle ormai grigia e la puzza, che per ora lei poteva solo immaginare, ma che li seguiva ovunque. Il suo gruppo di inseguitori non era mai troppo lontano.
Senza scomporsi tornò a guardare in avanti. Qualche tipo di incidente aveva bloccato una ventina di autovetture e lei le percorse con lo sguardo. Nulla si muoveva, poi eccolo: un fremito. Ai suoi occhi comparvero uno dopo l’altro decine di loro, quasi immobili in quella curiosa stasi in cui finivano quando erano in attesa di una preda.
La strada era bloccata e presto l’avrebbero sentita, lei, la preda. Doveva decidere in fretta.
La collina sulla quale si trovava era spoglia, ma poche centinaia di metri più in basso cominciava di nuovo il bosco Inoltrarsi lì dentro non era raccomandabile. Eppure, dove poteva andare? Ancora qualche minuto di indecisione e non avrebbe più avuto vie di scampo. Doveva muoversi: ora.
Ruotando le spalle si assicurò che lo zaino fosse ben sistemato poi ne allacciò le fibbie, stringendole sul ventre e sul torace. Correre con il fucile da caccia sarebbe stato scomodo e infilarsi nella folta vegetazione persino pericoloso. Avrebbe potuto perderlo o intrappolarsi in un ramo, quindi lo prese tra le mani e si arrotolò la cinghia attorno al braccio destro. Non si fermò mentre si preparava, scendendo in fretta la collina. Ora poteva vedere a occhio nudo i suoi inseguitori: sette zombi, i piedi che si muovevano senza sosta, incapaci di provare fatica o sonno, ma mossi da un’inesauribile fame. La videro o forse semplicemente la percepirono e i loro movimenti sgraziati si velocizzarono.
Camminò ancora per un centinaio di metri poi, senza esitare, si infilò nel bosco incominciando a correre. In poco tempo il respiro le si fece affannato. Il suo fisico era temprato, ma camminare tra i boschi richiedeva uno sforzo maggiore, gli arbusti la rallentavano, così come il terreno, pieno di insidie: radici, pietre, buche. Dietro di lei però sentiva i rumori inequivocabili dei suoi inseguitori che la spingevano a muoversi ancora. Corse per quelle che le sembravano ore, poi sbucò in una stretta strada asfaltata. Si bloccò sorpresa, il cuore che batteva veloce, i muscoli doloranti e il sudore che le imperlava il volto.
Tese le orecchie, chiedendosi se era riuscita a distanziarli. Non sentì nessun rumore. Con il respiro ancora affannato si guardò attorno e per un momento fu presa dal panico e se si fosse persa? Chiuse gli occhi e prese un profondo respiro, poi scosse la testa calmandosi.
Posò il fucile a terra contenta di poter finalmente rilassare le braccia e lasciò cadere lo zaino. Era in una posizione vulnerabile e ne era consapevole, ma doveva capire dove si trovava. Non fu difficile, nella sua folle corsa nel bosco aveva seguito un percorso perpendicolare alla strada che stava percorrendo quella mattina e ora doveva trovarsi in una piccola via che portava a Hope, una cittadina di appena un migliaio di abitanti, probabilmente una delle più grandi della zona.
L’aria fredda dell’autunno, non più mitigata dal sole, la fece rabbrividire e lei osservò la carta alla ricerca di un luogo dove dormire. Un rumore di rami spezzati la avvisò che i suoi inseguitori non si erano persi nel bosco, ma, come segugi, seguivano ancora il suo odore. Di nuovo il tempo per decidere non c’era.
Hope era precisamente sulla sua strada, doveva evitarla, ma la cittadina si trovava a una quarantina di chilometri, quindi per il momento poteva scegliere di andare comunque verso quella direzione e non perdere tempo tornando indietro.
Prima che il sole tramontasse completamente trovò tre case isolate. Non aveva tempo di perlustrarle tutte, ma ne scelse una, quella con la finestra del secondo piano socchiusa. Facendo attenzione a ogni rumore risalì la parete della casa sfruttando la rigogliosa edera, strisciò sul tettuccio del patio e si infilò nella casa. Il buio non era ancora completo, ma lei aveva bisogno di luce, così accese una torcia e la puntò davanti a lei, tenendo, nella mano libera, una pistola.
Mentre camminava, passando da una stanza all’altra, tutti i suoi sensi erano all’erta. L’olfatto le diceva che non c’era nessuno, ma non si sarebbe chiusa in una casa sconosciuta fidandosi solo del naso.
Poté rilassarsi quando, dopo aver percorso l’intera casa, la trovò deserta. Non era insolito, la maggior parte degli abitanti dei piccoli centri si era mosso verso le città, nella speranza di ottenere il vaccino: pessima idea.
Dopo aver verificato che tutte le porte e le finestre fossero chiuse si appostò, con il fucile da caccia appoggiato sulle gambe, alla finestra della cucina che permetteva di osservare la strada da cui era arrivata. Quando, venti minuti dopo, notò il primo movimento si tese. L’avrebbero sentita anche questa volta? Gli inseguitori proseguirono la loro scomposta marcia, superarono la casa e uscirono dalla sua visuale. Nel silenzio più assoluto lei entrò in un piccolo ripostiglio e alzò delicatamente il vasistas. Da lì poteva vedere la schiera muoversi in direzione di Hope: Se ne stavano andando.
Mentre l’emozione la sommergeva uno di loro si fermò. Lei sentì il cuore accelerare mentre uno dopo l’altro si giravano tornando indietro.
Come ogni volta l’avevano sentita. Chiuse la finestrella e tornò in cucina. Sapeva che se ne sarebbero stati lì, confusi, per almeno una decina di ore prima di riuscire a localizzarla all’interno della casa e a tentare di entrare. Aveva tutto il tempo di dormire e mangiare.
Con un sospiro si guardò attorno: era il momento di scoprire cosa quel posto poteva offrirle.

 
***
 
Si destò quando la sveglia vibrò accanto a lei. Mentre i suoi occhi mettevano a fuoco il fucile il cuore le tremò: non era a casa. Ci sarebbe mai tornata? Era stanca. Di tutto.
Resistendo al dolore che le stringeva il petto si alzò, si vestì e raggiunse la finestra della cucina: nulla.
Sorpresa raggiunse il ripostiglio dall’altra parte della casa, anche quella parte della strada era vuota. Con un sussulto corse al piano superiore e guardò nel piccolo giardino retrostante la casa.
Erano lì ed erano nove. Strinse i denti e con la mano cercò il fucile rendendosi conto, con un brivido, che lo aveva lasciato di sotto. Scese le scale correndo, ignorando i muscoli ancora indolenziti dopo la corsa del giorno prima, e lo trovò dove lo aveva lasciato: accanto al letto.
Lo prese tra le braccia e si lasciò scivolare a terra. Le sue dita percorsero i delicati intarsi floreali che correvano sul metallo decorando persino i due cani esterni, poi accarezzarono il calcio all’inglese in rovere di noce. Sentì una lacrima scenderle lungo il viso e poi cadere sulle canne nere. Con un singhiozzo strinse l’arma contro il petto lasciando che le lacrime scivolassero libere.
Rimase così a lungo, scossa da silenziosi singhiozzi, il dolore che la sommergeva a onde impedendole di riscuotersi, impedendole di muoversi.
Quando infine si calmò il sole era alto nel cielo e lei rabbrividì sentendo il freddo pavimento sotto i piedi nudi. Accarezzò la doppietta e per l’ennesima volta si chiese perché lo facesse. Tornare a casa: che senso aveva?
Un rumore la fece sobbalzare, aveva atteso troppo e loro l’avevano sentita. La porta fu scossa di nuovo, come se un corpo premesse contro di essa, no, esattamente come se un corpo premesse per aprirla. Il suo tempo era scaduto, di nuovo.
Indossò una giacca a vento nera e si sistemò lo zaino sulla schiena. Non avrebbe avuto tempo per la colazione, era stata sciocca a lasciarsi andare in quello sfogo infantile. Aveva fatto una promessa e l’avrebbe portata a compimento.
Normalmente avrebbe lasciato un suo indumento sul lato opposto della casa rispetto agli zombi, ma questa volta lasciò il maglione color pesca sul divano. Mentre si dirigeva verso l’atrio sentì la porta sussultare sotto l’ennesimo assalto, pochi minuti e avrebbe ceduto. Non le serviva di più. Con la solita attenzione per i rumori uscì dalla casa e con passo deciso si allontanò.
Presto si sarebbero messi sulle sue tracce, ma per un po’, il tempo necessario a creare un distacco ragionevole, sarebbero stati occupati a cercarla nella casa, confusi dal suo odore persistente.
Per lei iniziava un nuovo giorno di marcia.

 
***
 
Hope era stranamente vuota. Aveva voluto darle un’occhiata anche se non contava entrarci e ora era sorpresa da quello che vedeva, o meglio, non vedeva. Anche considerando l’esodo degli zombi verso le zone bombardate, la cittadina avrebbe dovuto grondare di non morti. Magari non centinaia, ma almeno decine di essi avrebbero dovuto muoversi per le sue strade. Invece nulla.
Controllò l’orologio, il problema era che aveva finito le scorte e aveva fame, se avesse trovato il coraggio di entrare in quella cittadina avrebbe potuto rifornirsi di cibo sufficiente per l’ultima settimana di tragitto che le rimaneva. Eppure, quelle strade vuote e ripulite dagli zombi erano inquietanti, come se fossero sbagliate.
Rimase in osservazione ancora qualche minuto, ma non aveva tempo per le indecisioni. Il suo seguito affamato non era in vista, ma se li conosceva e ormai era così, non dovevano essere lontani.
Bene, sarebbe entrata.
Con il fucile sulle spalle e la pistola tra le mani raggiunse i primi edifici e si inoltrò nella cittadina. Le prime case bianche ornate da alberi la fecero tentennare, invece di raggiungere il centro commerciale avrebbe potuto entrare in una di quelle e vedere cosa poteva trovarci. Titubò per qualche secondo poi proseguì, aveva bisogno di fare in fretta e doveva andare a colpo sicuro. Con passo deciso raggiunse l’edificio che desiderava. La porta era spalancata e vi erano chiare tracce di saccheggio, era normale, non c’era un solo negozio in tutto il paese che non fosse stato depredato nei primi folli giorni del contagio.
Si mosse tra i reparti del supermercato con attenzione, la pistola puntata davanti a sé, pronta a fare fuoco. Improvvisamente si rese conto di un altro dettaglio, niente puzza, non solo non c’erano zombi, ma non c’erano neanche cadaveri.
Fece un passo indietro, incerta sul da farsi. L’istinto le suggeriva di andarsene e lei aveva imparato ad ascoltarlo. Un secondo passo e si bloccò: un piccolo rumore aveva attratto la sua attenzione.
Il cuore iniziò a batterle veloce nel petto, malgrado le settimane passate in quel folle modo, non aveva ancora appreso come controllare la paura. Con due silenziosi passi si nascose dietro uno scaffale di detersivi. La pistola iniziò a pesarle nel pugno, ma lei non smise di puntarla davanti a sé.
Una goccia di sudore scivolò dalla sua fronte e le fece sbattere le palpebre. Fu un istante e davanti a lei apparve un uomo. Il dito le si contrasse sul grilletto, una minima pressione e il colpo sarebbe partito facendo esplodere la testa del suo aggressore. L’uomo però non si mosse. La guardava con gli occhi sgranati: occhi nocciola, occhi vivi.
Abbassò lentamente l’arma, la testa che le girava a causa del mix di adrenalina, paura e sorpresa.
Sul volto dell’uomo davanti a lei scivolò una lacrima.
“Non… non sono più solo…” Mormorò, la voce rotta dall’emozione. Face un passo avanti e lei d’istinto alzò di nuovo la pistola, questa volta la canna puntò dritta verso il torace dello sconosciuto.
Lui alzò le mani, un sorriso sciocco sulle labbra.
“Non ti farò del male, solo, volevo accertarmi che tu non fossi un’allucinazione. Sono settimane che spero di incontrare un sopravvissuto, ma…” Si bloccò, la sua voce era roca, come se non fosse più abituato a usarla. Sorrise e si strinse nelle spalle. Lei si morse un labbro, incapace di decidere, poi lentamente abbassò la pistola. “Io sono David.” Tese la mano guardandola con quel misto di emozioni e paura che non lo aveva ancora abbandonato.
“Edith.” Mormorò allora, sorprendendosi nell’udire la sua stessa voce. L’uomo sorrise ancora e le loro mani si strinsero. Pelle calda, rugosa sì, ma viva. Per un istante le emozioni furono sul punto di sommergere la ragazza che però strinse i denti e ritirò la mano.
“Vieni, ti faccio vedere la mia città.” Le disse allora David.
La portò all’esterno indicandole dove abitasse, mostrandole i panelli solari che gli davano energia, il serbatoio di acqua piovana a cui attingeva e il muro di filo spinato con cui proteggeva casa sua.
“Dove sono loro?” Gli chiese fermandolo a metà di una frase.
“Loro?” Chiese perplesso lui.
“Gli zombi.” David sorrise.
“Ho ripulito la città, da solo. Uno dopo l’altro li ho uccisi e bruciati. Non è stato un lavoro facile, ma ora sto molto più tranquillo.” Le indicò l’arco che teneva sulla schiena. “Rapido, letale e soprattutto silenzioso.” Edith annuì, mentre gli occhi correvano verso la strada da dove era entrata in città. “Ho del cibo, immagino che tu abbia fame.” Le propose l’uomo e lei annuì, lo stomaco che le si contorceva dal desiderio.
David era un chiacchierone, non smise di parlare per tutta la durata della cena. Le espose tutti gli aspetti positivi della sua città e le raccontò dei suoi piani per il futuro: un campo di patate e uno di mais per incominciare, poi chissà, magari un frutteto. Edith però lo ascoltava solo con un orecchio.
Aveva promesso, aveva promesso.
“Resterai?” Le chiese David a bruciapelo e lei si voltò a guardarlo. “Non ti chiedo nulla, giuro che non voglio da te nulla se non la compagnia di un altro essere vivente.” Arrossì un poco nel dirlo ed Edith si morse un labbro, incapace di rispondergli. “Ho riflettuto,” continuò lui “gli zombi sono carne, carne che marcisce: presto si decomporranno. Magari l’inverno li aiuterà a resistere, ma in primavera saranno solo più dei cumuli informi. Possiamo resistere fino ad allora e possiamo ricominciare a vivere. Questo mondo può essere di nuovo nostro.” Gli occhi gli brillavano ed Edith sentì il cuore stringersi, il desiderio di dare ascolto a quelle parole era forte, talmente forte da toglierle il respiro. Poteva cedere?
Un rumore all’esterno fece balzare in aria il suo ospite. David afferrò il pugnale che teneva alla cintura e spense la luce, poi si diresse alla finestra e con delicatezza scostò la tenda osservando l’esterno. Edith sentì il cuore cercare di balzarle in gola.
“Sono una decina, probabilmente ti hanno seguita. Hanno un naso incredibile.”
“Mi dispiace.” L’uomo si voltò verso di lei che aveva sussurrato. La delicata luce della luna le permise di vedere che sorrideva.
“Non importa, domani mattina li avrò sistemati prima ancora che tu abbia avuto il tempo di dire: colazione.” Edith annuì, poi, mentre lui tornava a sedersi, si avvicinò alla finestra per osservare.
Tra le ombre della notte notò subito i movimenti sconclusionati ma lenti degli zombi, per il momento avevano perso la traccia e privi di un obiettivo rimanevano lì, incapaci di decidere dove andare. Erano nove, ma solo uno attrasse il suo sguardo: una donna i cui capelli erano stati lunghi e ordinati, la pelle morbida, gli occhi sorridenti e gentili, le labbra dolci.
Nella luce incerta e soffusa della luna poteva quasi credere che fosse ancora viva, che la sua bocca potesse ancora sorridere e le sue braccia stringerla in un abbraccio innamorato, osservando il suo ventre rigonfio poteva quasi sperare che il loro bambino crescesse sano e forte. Una singola lacrima le scese lungo il viso. Non poteva: aveva promesso.
Le sue mani si strinsero attorno al fucile che non aveva abbandonato nemmeno per un attimo.
“Edith, non ti preoccupare, qua dentro siamo al sicuro.”
“Lo so.” Rispose lei, senza distogliere lo sguardo dalla donna che aveva amato, neppure quando lo zombi si voltò e lei poté vederne i denti, esposti dalla guancia strappata, neppure quando la testa della donna scattò in un modo innaturale, neppure quando vide il moncone che era tutto ciò che rimaneva del suo braccio destro. L’aveva amata e la amava ancora.
Con uno scatto violento si avventò su David sbattendogli il calcio in radica contro la fronte. L’uomo non ebbe il tempo di reagire, troppo sorpreso cadde a terra, tentò di rialzarsi, ma Edith lo raggiunse abbattendo una seconda volta il fucile sulla sua testa. L’uomo scalciò lottando per sfuggirle, ma era indebolito dai colpi, dalla fronte il sangue fuoriusciva copioso. Lo colpì ancora e con un ultimo sussulto l’uomo morì. L’orrore di quello che aveva fatto la trafisse violentemente ed Edith si accasciò sull’uomo piangendo. Stringendo a sé quello sconosciuto, che aveva pianto dalla commozione nel trovarla, gli mormorò quanto le dispiaceva:
“Mi dispiace, ma non potevo lasciartelo fare, ho promesso… ho promesso. Mi dispiace tanto, ho promesso…”
 
Il sorriso emozionato della donna le scaldò il cuore, teneva le sue dita tra le mani, gli occhi pieni di lacrime di gioia, mentre guardavano il piccolo cuore del loro bambino battere.
“Vi lascio un attimo da sole, va bene?” Disse la dottoressa sorridendo mentre usciva dalla stanza.
“Ti amo.” Le disse Edith, lasciando che le emozioni di quel momento si riflettessero nel suo bacio.
“Anche io ti amo…” Sentì che qualcosa la turbava e si separò quanto bastava per guardarla negli occhi e chiedere:
“Cosa succede?”
“Ho paura.”
“Non devi.”
“Stanno succedendo delle cose strane e…”
“Non permetterò a nessuno di farvi del male.”
“Lo so.” Le sorrise dolcemente accarezzandole il volto. “Ma chi proteggerà te?”
“Tu.” La donna scosse la testa.
“Se io non dovessi…” Edith le premette un dito sulle labbra delicatamente, ma fermamente.
“Tua madre è morta di parto, ma a te non succederà la stessa cosa, andrà tutto bene vedrai.”
“Se dovesse succedermi qualcosa, ti prenderai cura del nostro bambino?”
“Mi prenderò cura di entrambi, sempre.” Le sorrise. “Ma non ce ne sarà bisogno.” La baciò dolcemente un attimo prima che la dottoressa rientrasse con la cartella.
 
Il mattino dopo Edith si rimise in marcia, lo zaino pieno delle provviste di David, sulle spalle il fucile il cui calcio aveva dovuto ripulire dal sangue dell’uomo.
Camminò muovendosi attenta e furtiva come sempre, tirandosi dietro il suo macabro seguito e infine giunse a casa.
L’abitazione era piccola, ma elegante, il tempo non aveva ancora avuto modo di marcare il suo passaggio e anche dalla strada Edith poteva vedere che nessuno vi era entrato da quando un mese prima lei e sua moglie si erano allontanate per raggiungere il miglior centro prenatale del paese. Poteva vedere con la forza della mente gli oggetti delicati e preziosi che sua moglie aveva accumulato nel tempo. Oggetti curiosi, ma dotati di un’innegabile bellezza.
La donna scosse la testa allontanando i ricordi: era arrivata, tutto finiva quel giorno.
Preparò con cura ogni cosa, poi attese.
Gli zombi non si fecero aspettare e tra di essi: lei. L’inclemente luce del sole ne mostrava tutta la mostruosità, ma a Edith non importava: l’aveva riportata a casa.
Iniziò a sparare, la pistola sussultava nella sua mano, ma gli zombi erano vicini e pochi colpi andarono sprecati. Di certo il rumore avrebbe attirato tutti i non morti della zona, ma non importava, per una volta aveva tutto il tempo che le serviva, si era preparata per quel momento, non aveva bisogno di riflettere.
Quando ebbe finito, sua moglie, l’unica ancora in piedi, non era ancora arrivata al vialetto d’entrata, malgrado la furia che il rumore degli spari aveva provocato in lei.
“Sei a casa.” Le mormorò lei mentre dall’alto le apriva la porta, tirando la corda che aveva fissato alla maniglia.
 
“Cosa sta succedendo?”
“Il bambino è in sofferenza, dobbiamo intervenire subito.”
“Avevate detto che c’era tempo!”
“Ora non ce n’è più. Firma il consenso all’operazione?”
“Sì, va bene…”
“Edith!” Chiamò sua moglie e lei scarabocchiò qualcosa sul foglio per poi tornare a prenderle la mano.
“Andrà tutto bene.”
“Edith, promettimi che torneremo a casa. Tutti e tre.” Il dolore le aveva imporporato le guance e imperlato la fronte. I suoi occhi erano pieni di paura, ma anche di coraggio e di decisione. Aveva visto la madre morire di parto dando alla luce il suo fratellino eppure aveva deciso di portare il loro bambino visto che lei era incapace di averne. Sua moglie era una donna coraggiosa e lei la amava anche per quello.
“Sì, te lo prometto: torneremo tutti a casa.” Un forte rumore proveniente dal corridoio attirò lo sguardo dei medici presenti. Poi la porta si spalancò e fu l’orrore. Edith spinta da un infermiere cadde a terra e batté la testa, sprofondando nel buio.
 
Edith osservò sua moglie digrignare i denti e sbavare nel futile tentativo di afferrarla.
“Andrà tutto bene.” Aveva gettato la pistola e ora impugnava saldamente il fucile, ne appoggiò il calcio alla spalla e sparò. Un singolo colpo e la testa di sua moglie fu rovesciata indietro. Il corpo cadde a terra senza più muoversi.
Edith si avvicinò, un sorriso folle sulle labbra, i chiarissimi occhi azzurri vacui e lontani, rivolti a visioni di un passato felice.
“Ho scelto questo fucile apposta per te: è così elegante e bello. L’ho trovato per caso, ma ho capito subito che ti sarebbe piaciuto, un attrezzo di morte, ma non per questo meno bello.” Con delicatezza sollevò la moglie fino al loro letto poi faticando leggermente la depose al suo posto. Si stese accanto a lei e incastrò il fucile tra le gambe. Non era comodo, ma riusciva comunque a raggiungere il grilletto, sistemò le canne, ancora calde dopo aver sparato, sotto il mento e prese la mano della donna che amava.
“Andrà tutto bene. Ho mantenuto la promessa.”
 
Un ultimo colpo risuonò nella casa lasciando dietro di sé solo il silenzio.


Note: Questa storia partecipa al contest "Hold my Angst (Flash contest - Edite ed inedite)" indetto da GaiaBessie sul forum di EFP.

 
 


  
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