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Autore: Emily Darcy    04/07/2016    1 recensioni
La paura però, non riuscivo a reprimerla ed era lei che mi teneva ancorata alla realtà crudele. Lei che mi impediva di dormire, lei che mi impediva di tranquillizzarmi e che mi impediva di dimenticare.
Genere: Introspettivo, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Non-con
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Crudele
Ho incontrato per la prima volta J. ad una festa. Io conoscevo solo le mie amiche, con le quali ero venuta, però poi mi si è avvicinato lui e abbiamo cominciato a parlare. Lui era gentile e sembrava davvero interessato a quello che dicevo. Quando ho scoperto che era più grande di me – aveva sedici anni, ma ne avrebbe compiuti diciassette tra due mesi – ero contenta, perché significava che sarebbe stato più maturo dei miei coetanei quattordicenni.
Già fantasticavo su come saremmo stati una bella coppia, eppure lo conoscevo da un quarto d’ora. Pensavo a noi due mano per la mano, mentre ci baciavamo o ci abbracciavamo, lui che mi diceva delle parole dolci: questo fanno i fidanzati, pensavo e io lo farò con lui. Avrei cominciato il liceo con un ragazzo.
Lui mi ha anche invitata a ballare, e anche se altre ragazze più grandi di me gli chiedevano se voleva andare con loro, lui diceva che preferiva stare con me. Ho pensato di piacergli davvero molto, perciò quando mi ha chiesto di seguirlo, l’ho fatto. Mi fidavo.
Ci stavamo allontanando molto dalla casa, perciò ho pensato di dirgli che forse era il caso di tornare. Ma lui disse: “Perché mai? Non ti stai divertendo con me?”
“Sì.”
Lui mi prese per mano e mi sorrise, io provai a tranquillizzarmi anche se sentivo che sarebbe stato meglio tornare indietro. “Le mie amiche si staranno chiedendo dove sono.”
“Oh, non preoccuparti. Tra poco torniamo.”
Lui cominciò a baciarmi e io sperai che quel bacio sarebbe stato come l’avevo immaginato: di una bellezza idealizzata. Lui mi teneva le mani sui fianchi e mentre muoveva la lingua nella mia bocca, le sue mani mi accarezzavano e poi mi afferrarono i glutei. Provai a dargli una spinta, perché non gli avevo dato il permesso di toccarmi il sedere. Mi ritrovai però stretta nel suo abbraccio.
“Non ti agitare. Andrà tutto bene.”
Continuò a baciarmi e poi mi toccò il seno sopra la maglietta. Io mi sentivo a disagio e provai a spostarmi ma lui continuava a baciarmi e ad accarezzarmi. In realtà non era una carezza, era stringere forte e rudemente, come se io non fossi importante.
Mi fece distendere per terra
mi tirò su la gonna e mi levò le mutandine
io provai a coprirmi le parti intime
lui mi fece allargare oscenamente le gambe
io dissi “no, non voglio”
lui mi disse che sapeva che mi sarebbe piaciuto
lui ha tirato fuori il pene dai suoi pantaloni e mi ha fatto male
così male che non sono riuscita a trattenere le lacrime perché questo dolore si prolungava ogni volta che lui spingeva dentro di me
io piangevo e gli ho detto più volte “ora basta. Ora basta” e anche “no, ti prego”
lui però diceva “lo so che ti piace” oppure “No, dai, ancora”
ho chiuso gli occhi
ho cercato di non pensare a niente
speravo che tutto finisse
poi lui ha tirato fuori il pene e ho sentito la mia gonna bagnarsi di qualcosa; ha fatto uno strano verso, come se fosse soddisfatto di qualcosa
si è sistemato i pantaloni, ha sorriso e mi ha chiesto se volevo una sigaretta
ho fatto di no con la testa e lui è andato via.
Sono rimasta seduta per diversi minuti. A distanza di anni, non posso dire di ricordare a cosa stessi pensando. Sentivo di essere confusa e inizialmente mi sentivo immersa in un sogno. Avevo l’impressione di aver vissuto tutto dall’esterno da un certo momento in poi: era come se avessi deciso che io non potevo essere la persona che stava distesa per terra, mi trovavo in un altro luogo. Avevo chiuso gli occhi e immaginato di essere altrove.
Fui riportata alla realtà dall’ansia crescente che lui potesse ritornare da un momento all’altro. Non riuscivo a muovermi, era come se avessi le gambe e le braccia intorpidite. Sentivo il bisogno di dovermi nascondere e non farmi trovare. Chiamai mia madre e le dissi che doveva venire subito a prendermi. Mi rimisi le mutande e guardandomi cercai di capire se le persone che mi avessero osservato avrebbero capito cosa mi era successo. C’era questa macchia sulla mia gonna e venendomi incontro la mamma avrebbe potuto vederla. Mi girai la gonna in modo tale che la macchia fosse sul sedere, poi cercai di darmi un contegno. La mamma non doveva sapere niente. Per tutta la durata del viaggio in macchina, lei sembrò inquieta. Appena mi vide, mi chiese: “Va tutto bene? Hai una faccia sconvolta…” Le ho detto che la festa era noiosa.
Quando arrivai a casa, la prima cosa che feci fu nascondere le mutande e i miei vestiti, perché ero convinta che la mamma, vedendoli, avrebbe capito tutto quello che mi era successo. Non so come ho fatto a comportarmi in modo più o meno normale quella sera. Pensavo che se qualcuno avesse scoperto che cosa mi era successo, non sarei sopravvissuta a questa vergogna. E poi, mi sentivo così spaventata. Persino avvolta nelle coperte, continuavo ad avere paura che lui potesse trovarmi. Pensavo che sarebbe entrato dalla finestra della mia camera o dalla porta di ingresso. Me lo immaginavo mentre entrava senza problemi, perché le finestre e la porta non erano chiuse a chiave e che succedesse di nuovo. Mi si ripresentavano alla mente immagini e ricordi ossessivi e disgustosi: lui che tirava fuori il suo pene, che lo avvicinava a me e il primo forte dolore, poi il secondo.
Mi giravo e rigiravo nel letto, cercando di scacciare tutti i miei ricordi. Provavo a impormi di scordare tutto e di convincermi che niente di male era successo. La paura però, non riuscivo a reprimerla ed era lei che mi teneva ancorata alla realtà crudele. Lei che mi impediva di dormire, lei che mi impediva di tranquillizzarmi e che mi impediva di dimenticare.
Il mattino dopo, mia madre venne da me e mi chiese cosa era successo la sera prima. Non so se avesse intuito qualcosa o se me lo avesse chiesto solo per sapere come si era svolta la serata pensando che fosse andato tutto bene, in ogni caso io scoppiai a piangere. Non so se ho cominciato a raccontare o se è stata lei a farmi la prima domanda, però le ho raccontato tutto.
Lei mi ha abbracciato e tra le lacrime trattenute a stento, mi ha detto: “Quello che ti è successo non è colpa tua. Non è in alcun modo colpa tua.” È stato questo il primo passo di un lungo percorso verso il superamento di quello che mi è successo.
Ho difficoltà a usare il termine vero e proprio con cui si indica questo fatto: pronunciare la parola stupro o violenza sessuale, mi fa un effetto che non riesco a spiegare. È come se non usando queste parole, io non ammettessi appieno quello che mi è successo. Se dicessi “sono stata violentata”, la crudele realtà diventerebbe un macigno troppo pesante da portare e ancora non sono in grado di sopportarla. Quando ho parlato con mia madre e poi con la polizia, non ho mai usato quella frase. A volte però, penso a questa frase e mi immagino mentre la dico a voce alta. Mi chiedo se dirlo a voce alta possa farmi sentire peggio o meglio di quanto sto adesso.
   
 
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