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Autore: MisterXPaulPollo    08/07/2016    3 recensioni
Sono nato un venerdì.
Il tredici di un venerdì di Maggio, alle ore 17:00.
Ho la sfiga impiantata addosso come Wolverine l'adamantio.
Sono talmente sfigato che stamani, nel tentativo di avvelenare il latte del mio schifoso coinquilino infetto, non mi sono accorto che il figlio di puttana aveva invertito le tazze.
Risultato.
Ho avvelenato il mio latte.
La mia tazza adesso è infetta.
Il latte di riso è finito.
Oggi muoio.
Genere: Commedia, Slice of life, Triste | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
Capitoli:
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Capitolo V
 
17/07/2014 – New York, Greenwich Village – Ore 11:45

C’è sempre questo fastidioso ronzio durante l’ora “X”, nella quale gli stomaci di tutti i comuni mortali si alleano per creare quella fastidiosa melodia chiamata “brontolio”, e diretta in esclusiva dal più grande maestro di tutti i tempi, il solo ed unico Buco Nellostomaco.
Per gli amici Fame.
Un grande personaggio, anche se un po’ egocentrico alle volte. Spesso si fa persino annunciare dall’orologio. C’è da dire però che è anche un gran simpaticone, giusto la scorsa sera mi è capitato di svenire a seguito di un suo morso. Ah, i morsi della Fame sono davvero terribili.
Allungo il collo verso la finestra aperta, e osservo tutti quei sacchi di carne che corrono chissà dove, forse guidati dallo stomaco verso ristoranti o venditori di würstel sudaticci, forse impegnati nel raggiungere in fretta la postazione lavorativa per non rischiare il licenziamento, o forse sono semplicemente indaffarati a non fare niente.
In ogni caso, dal quarto piano di questo appartamento, il marciapiede sembra pullulare di vita.
È la mia occasione, questo è un segno di quel destino in cui non credo.
Oh sì, oggi diventerò il grande uomo che mia madre ha sempre sognato.
Oggi, Mister X comparirà su tutti i telegiornali.
Ritiro il collo come una tartaruga, osservando quella cucina dai pensili bianchi come il latte, seduto sulla sedia di legno rubata al tavolo da pranzo, con l’indice e il pollice della mano destra impegnati a sorreggere tutto il peso di una mente pensante.
Come uccidere qualcuno da questa altezza, senza dover ricorrere all’uso di coltelli da cucina che probabilmente mi si ritorceranno contro come l’ultima volta?
È anche il diciassette.
Meglio evitare.
Mi alzo dalla sedia sulla quale sono stato appollaiato per ben due ore, e mi avvicino alle varie mensole, aprendole una dopo l’altra alla ricerca di una possibile arma da poter lanciare sulla zucca di un qualsiasi passante. I piatti potevano essere una scelta eccellente, peccato che Noah usasse quelli di plastica usa e getta. E che dire dei bicchieri? Perfetti, peccato che avesse rotto l’ultimo stamattina.
Tanto bello quanto imbranato.
Sbuffo mentre chiudo l’ultimo sportello disponibile, contenente roba davvero inutile.
Come poteva Noah bloccarmi le ali così?
Come poteva anche solo pensare di farmi uccidere qualcuno con una scatola di cereali senza zucchero?
Porto entrambe le mani sui capelli, arruffando le ciocche tra le dita con gesti di pura stizza, ma quando riapro gli occhi, dopo aver urlato e pronunciato tutti i nomi dei santi conosciuti in ordine alfabetico, vedo la credenza.
La credenza, quel meraviglioso mobile con le ante in vetro, usato esclusivamente per esporre il servizio buono.
Piatti, piattini, forchette, forchettine, vassoi, ceramiche importanti ed infine loro, le tazzine da caffè.
Quale miglior oggetto delle tazzine da caffè per poter portare a termine quel mio brillante piano?
Se fossi un manga, probabilmente adesso avrei delle stelline al posto delle iridi.
Mi avvicino lentamente alla credenza, come se questa potesse mordermi, come se il senso di colpa potesse assalirmi dopo averle lanciate dal quarto piano e quindi sbriciolate.
Aspetta un attimo.
Io non provo senso di colpa.
Noah capirà, è per una giusta causa.
Apro la credenza con entrambe le mani, prendo tutte e sei le tazzine e mi avvicino di nuovo alla finestra aperta, sentendo nell’aria una bella melodia, pressante, imponente, oserei quasi dire imperiale.
Io DEVO avere una melodia di accompagnamento per un momento tanto trionfale.
Sistemo le tazzine in fila, tutte pericolosamente vicine al baratro, poi prendo il cellulare che tengo celato all’interno della tasca anteriore dei jeans, ed apro YouTube.
Quale di queste melodie fa al caso mio?
Questa no.
Quest’altra neanche.
Il dito scorre tra le varie opzioni, e insieme ad esso scorre anche il tempo.
Sono le 11:58, devo sbrigarmi.
Questa no.
Questa no.
Questa forse… No.
Ah, eccola!
Apro il video, alzo al massimo il volume della prescelta e sono pronto.
Le note di Carmina Burana risuonano debolmente all’interno della stanza, ma il mio cervello basta ad amplificare il tutto e rendere la melodia ancora più potente ed appagante.
Sono le 11:59, ho perso troppo tempo, ora o mai più.
Prendo un bel respiro, riempio i polmoni fino al limite consentito, poi spingo giù la prima tazzina con uno strano sorriso stampato sulle labbra, che si allarga quando l’orologio scocca la mezza. Le tazzine piovono dal cielo come l’acqua durante un temporale estivo, ma qualcosa non quadra affatto.
Il rumore di cocci che si schiantano al suolo non ha subito alcuna variazione.
Perché?
Se si fosse frantumato su un cranio umano, il suono sarebbe stato meno acuto, giusto?
Mi affaccio posando entrambe le mani sul davanzale e abbasso lo sguardo su dei cocci rotti, e su un marciapiede deserto.
L’ora di pranzo.
Ora in cui anche i meno indaffarati spariscono dalla circolazione per non restare soli.
Buco Nellostomaco è stato più veloce delle mie tazzine.
Maledetta Fame, maledetti newyorkesi affamati.
Mi sposto dalla finestra, e trascino lentamente le gambe verso il frigorifero.
Lo apro, prendo una delle tante carote che Noah è stato costretto a comprarmi, chiudo il frigorifero e mi sposto all’acquaio dove la lavo, sebbene io lo abbia già fatto ieri.
Ho fallito ancora, la sfiga ha avuto di nuovo la meglio sul mio debole e malato corpo.
Che tu sia maledetta.
Porto la carota alle labbra e, un attimo prima di morderla, alzo lo sguardo verso la credenza dalla quale adesso mancano sei tazzine da caffè.
Era davvero un bel servizio, forse mi mancheranno.
Mordo la carota e socchiudo gli occhi, sospirando afflitto.
Era davvero un bel servizio.
Un attimo.
Quello non era il servizio buono della nonna di Noah?


17/04/2014 – New York, linea 2 – Ore 15:26

Delusione.
Si è attaccata addosso peggio delle zanzare d’estate, o come la carta moschicida.
Non ha intenzione di lasciarmi in pace.
Non lo farà.
Deve far pesare il terribile fallimento di poche ore fa.
Per questo sono sceso sottoterra, infilandomi in una pasticca gigante che racchiude ed incuba malattie e germi di ogni genere. Per questo, e per scappare da mio fratello.
Avrà già trovato i sei biglietti in cui ho disegnato sei tazzine?
La metropolitana però non racchiude solo malattie.
Persone di ogni tipologia la attraversano giorno e notte, senza mai stancarsi un attimo, troppo indaffarate o troppo menefreghiste per preoccuparsi dei dettagli, di ciò che li circonda.
Spesso sento dire che noi, persone private dalla natura di uno dei cinque sensi, tendiamo ad amplificare i restanti quattro per compensare la mancanza.
Sono piuttosto scettico riguardo questa teoria, perché le persone “normali”, quelle che dispongono di ogni senso, spesso fingono di non sentire, di non vedere, di non parlare.
Mi fermo spesso a pensare a cosa farei se avessi la parola. Mi comporterei anche io come loro? Fingerei che tutto va bene, quando accanto a me un essere umano sta subendo violenza? Fingerei che tutto va bene, solo per non intaccare in alcun modo la mia ordinaria vita?
E poi ci sono le razze, le religioni, la sessualità, tutti stereotipi con cui modelliamo la nostra vita, con cui cresciamo.
Sono davvero così essenziali?
Formulare determinati pensieri in base alla nazionalità di una persona, etichettarla come un delinquente solo per il colore della sua pelle, chiamarlo feccia solo perché omosessuale.
L’uomo, non è forse un semplice ammasso di carne, ossa e organi come tutti?
Gli stereotipi rovinano l’uomo, lo rendono cieco e stupido.
Chiunque ci abbia creati, ha commesso l’errore di renderci animali pensanti, e facilmente manipolabili.
Sospiro pesantemente, cercando di non toccare niente che non sia il mio stesso corpo, né un sedile, né una sbarra, né tantomeno altri passeggeri.
Non è neanche semplice mantenere una posizione eretta, e il movimento irregolare della metropolitana mi fa sentire come il batacchio di una campana.
Una frenata, il mio corpo viene spinto in avanti a seguito di quel brusco movimento, ma alzo entrambe le mani verso il petto, appellandomi a tutta la forza disponibile sulle gambe per indietreggiare velocemente da quella sbarra che stavo per colpire con la fronte.
Le persone mi fissano, probabilmente pensano che io sia un folle, uno svitato, un pazzo da rinchiudere. O un artista di metropolitana.
In ogni caso devo sfogarmi, sono salito su questa gabbia proprio per questo, e quale miglior modo di sfogare la propria delusione sugli altri, se non offendendoli facendo leva sulla loro ignoranza?
È giusto in questi casi, che trovo divertente il mio non parlare.
Ora però il livello di difficoltà si alza notevolmente.
Usare il linguaggio dei segni, senza toccare nessuno.
L’ho già fatto altre volte, posso farlo.

- Stupido. -
- Racchia. -
- Anche tu sei racchia. -
- Tu invece hai la faccia da babbeo. -

Le loro espressioni sono così appaganti, incapaci di tradurre ciò che le mie mani scrivono.
Ne offendo una, poi offendo il tizio laggiù con i mocassini, e anche quello con il riporto. Oh, e anche il tizio muscoloso laggiù in fondo!
Noah ha sempre avuto da ridire su questo mio comportamento, non riesce a trovarlo corretto nei confronti delle altre persone, dice che non dovrei fare agli altri ciò che non vorrei fosse fatto a me, ma come posso smettere? Non posso privarmi di queste espressioni così divertenti!
Volto di nuovo lo sguardo verso il tizio muscoloso, lo guardo dritto negli occhi ed infine scocco una nuova freccia verso il suo petto probabilmente depilato, data la moda del momento.

- Hai anche un cervello, sotto tutte quelle pasticche che prendi per gonfiarti? -

Rido, ma il sorriso dura solo una manciata di secondi, perché l’uomo inaspettatamente alza il braccio mostrandomi il suo pugno chiuso.
Un singolo segno.
Inequivocabile puzzo di guai.

- Sì. -

Merda.
L’uomo si avvicina, aggrappandosi a tutto ciò che trova pur di raggiungere la mia posizione, ma io ho più difficoltà a muovermi, io non posso aggrapparmi a niente.
La porta non si aprirà per altri due minuti, la mia unica salvezza è quella di guadagnare tempo fino a quando le porte non mostreranno una via d’uscita e quindi una fuga strategica, ma lui è veloce e non ha bisogno di mantenere l’equilibrio.
Con mio grande stupore, le porte però si aprono.
Non ho contato una fermata, sono davvero così fortunato?
Mi precipito fuori, corro verso l’uscita della struttura, cerco di raggiungere il sole.
Ci sono quasi, le scale sono proprio di fronte a me.
Ci sarei riuscito, se quel sacchetto di plastica non mi avesse intralciato la corsa.
Maledetto inquinamento, maledetti cestini della spazzatura inesistenti.
Cado, ma non ho il tempo di alzarmi da terra. Quel pallone gonfiato ha posato le sue schifose mani dalle vene sporgenti sulle mie spalle.
Mi alza come se fossi una piuma, mi volta, mi pietrifica con quella sua disgustosa e terrificante presa sulla spalla destra, poi passa all’attacco.
Un montante sulla bocca dello stomaco, talmente forte da farmi crollare in ginocchio, con entrambe le braccia sulla pancia. Sono talmente inutile e patetico per lui, da non meritare altro.
Mi concede addirittura l’onore di uno sputo, adornato da un “figlio di puttana”.
Se non fosse la verità, l’avrei preso come un insulto.
Mi lascia così, in mezzo all’indifferenza di persone che non vedono e non sentono, che non parleranno alle autorità di quanto accaduto.
Mi chiudo su me stesso, come il riccio che vuole difendersi dai mali del mondo, in ginocchio su un pavimento pieno di rifiuti, molti dei quali indossano scarpe di marca e calzini neri come la pece.
Chissà come mi sarei comportato nei loro panni.
Mi sarei voltato dall’altra parte?
Mi sarei gettato in difesa del povero malcapitato, anche se si è scavato la fossa da solo?
Chissà cosa si prova ad essere “normali”.
Già, chissà.
   
 
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