PERSONA
Questo
lavoro è un Crossover, cioè una fanfiction nella quale convivono personaggi
appartenenti a storie e contesti diversi. Due personaggi che comunque amo e ho
voluto far incontrare
Bayeux, Normandia,
Marzo 1788
Il cielo non minacciava pioggia, e il sole freddo di
fine inverno avrebbe asciugato il fango dalle strade, rendendolo duro come e
più della pietra. Aldilà del recinto, i suoi cavalli masticavano rumorosamente
la biada e lui si ritrovò a pensare d’aver percorso invano la strada da Caen a
Bayeux. Sarebbe tornato a casa con le tasche vuote e tutte le sue bestie, ne
era più che certo: quando i tempi si fanno difficili e la voglia di buttar via
il danaro dalla finestra passa, chi li compra, cavalli come questi? Si chiese
da solo, conoscendo già la risposta.
Una puledra dal mantello baio si avvicinò al
recinto, gli annusò la mano tesa. Bell’animale. Come gli altri, del resto.
Tempo prima, qualcuno era stato addirittura acquistato per le scuderie reali…Ma
i tempi non erano più quelli. Meglio sarebbe stato trattare brocchi, muli e
asini vecchi, da vendere a contadini e ortolani, gente che poteva permettersi
di spendere poco, perché li spremessero finché non gli restava in corpo un
soffio di fiato, per poi fare colla delle loro ossa e tamburi delle loro pelli.
Sarebbe dovuto rientrare alla locanda dove aveva
alloggiato, preparare i suo bagagli. Si era proposto di ripartire l’indomani all’alba. Ma la brezza
fredda della sera era meglio del puzzo di chiuso e di fumo che stagnava lì
dentro, delle voci ubriache di vino e di rabbia, perfino degli osceni rumori
corporali di quella marmaglia. E non doveva essere il solo a pensarla in quel
modo, considerò guardando l’uomo uscire a lunghi passi dalla porta della
bettola per dirigersi verso il recinto del cavalli. Era smilzo, non molto più
basso di lui, con una lunga coda bionda che il vento gli spettinava. Un
ragazzo, o poco di più. Ben vestito. Probabilmente ricco. Diverso da quelli che
stavano lì dentro a bere, ruttare e bestemmiare. Un nobile. Uno di quelli che
loro odiavano. Ci voleva un bel coraggio, ad andarsene in giro tutto solo, con
i tempi che correvano.
Il giovane aveva passo leggero, e lunghe mani dalle
dita forti. Lui lo guardò tenderne una verso il recinto, ipnotizzato quasi dai
suoi gesti sicuri. Lo guardò cercar di attirare l’attenzione del più bello fra
i suoi splendidi animali, un arabo dalla testa cesellata e dalla lunga
criniera, nero come una notte senza luna e senza stelle. “State attento. E’
irrequieto, ha sentito l’odore di una cavalla in fregola e come se non bastasse
non è stato ancora domato. Potrebbe mordervi.” Lo pensò. Ma non glielo disse.
-Quanto volete per lo stallone nero?
-Non lo vendo. Ma posso affittare le sue monte, se
disponete d’ una giumenta degna di lui.
L’altro sorrise, senza dirgli nulla. I suoi zigomi
affilati come spade sembravano voler forare la pelle abbronzata del viso su cui
spiccavano denti candidi e un paio d’occhi celesti dal taglio obliquo, acuti
come quelli d’un gatto senza padrone. Le guance sottili, incorniciate da molli
riccioli che sfuggivano ostinati dalla
coda, non recavano ombra alcuna di barba, come quelle di una ragazza. Ma
c’erano i solchi di piccole rughe, agli angoli dei suoi occhi, e potevano essere
solo opera del tempo. Non si trattava di un giovinetto, malgrado, di
prim’acchito, potesse anche sembrarlo. Una strana creatura dalle movenze
eleganti, i tratti ambigui, la voce carezzevole. Un cantante. Pensò l’uomo. Un
cantante castrato.
La folla li venerava, gli impresari teatrali erano
disposti a svenarsi per poter ingaggiare i più famosi. E molti poveracci non
esitavano a storpiare i figlioletti che il Padreterno aveva dotato d’una bella
voce, con la speranza di farne idoli adorati come antichi dei senza sesso,
buffe creature capricciose pagate a peso d’oro per cantare con quelle voci alle
quali una brutale mutilazione aveva permesso di conservare la purezza
dell’infanzia. Non c’è niente che possa più della miseria, si ritrovò a pensare
l’uomo: rischiare la morte del proprio figlioletto per setticemia o
dissanguamento è un gioco che vale la candela anche per un padre e una madre,
se sull’altro piatto della bilancia ci sono prestigio e ricchezze. Anche se,
come in un giro di carte o una partita ai dadi, la fortuna è il destino di pochi.
Anche se una vita infelice e un’identità violata sono in realtà la prospettiva
dei più. Bisogna essere forti per sopravvivere a tutto questo, pensò l’uomo. E
quell’altro doveva esserlo, malgrado l’aspetto diafano da antica divinità
silvana e, soprattutto, malgrado quel che l’avidità degli altri aveva fatto di
lui.
-Seigneur…Oscar…
****
Oscar. Lancia di Odino. Davvero
strano chiamarsi così, per un cantante castrato. Di solito, quelli come lui
adottavano vezzosi nomignoli, vestivano d’oro e d’azzurro, muovevano le mani
con gesti affettati e avevano i tratti del viso imbolsiti dal grasso. L’uomo si
tracannò da solo il suo vino, guardando l’altro allontanarsi senza aver preso
niente, dopo che qualcuno lo aveva chiamato con quello strano nome, rivolgendosi
proprio a lui; posò quindi il boccale sul bancone e lanciò un’ occhiata
interrogativa al locandiere. Lo
conoscete? Gli domandò.
-I parenti di sua madre hanno una grande proprietà,
da queste parti.
La smorfia che torse la bocca dell’oste non poteva essere
fraintesa. Sua madre è una contessa.
Suo padre un generale.
Un generale. Sarà certamente orgoglioso di suo
figlio, pensò l’uomo, mentre il locandiere, richiamato da un avventore, si
allontanava brontolando. Sales aristocrates. Maledetti nobili.
****
Presto sarebbe calata la notte. Si disse da solo, guardando il sole che
tramontava dietro le colline. Brutti tempi, pensò, e non solo per i mercanti di
cavalli come lui. Beh, era vissuto abbastanza da averne conosciuti di migliori,
ma anche di peggiori, se questo poteva servire a consolarlo.
Si domandò, come spesso accadeva, se ci fosse al
mondo qualcuno capace di leggergli dentro il segreto che teneva nascosto da
quando era tornato indietro dall’aldilà per opera di magia, ben mille e
seicento anni prima. Gli zingari, forse. Si diceva che loro lo potessero. Ed
era per quello che la gente li temeva e li odiava, non per i polli che rubavano
e i figlioletti che mandavano in giro coperti di stracci a caritare.
Si leccò le labbra aride, ricacciò indietro con la
mano un ciuffo di capelli che gli era ricaduto
sugli occhi. Ormai da anni si
recava a Bayeux per la fiera del bestiame. Li conosceva bene, quegli zingari,
tre uomini, beccai e cozzoni (domatori, N.d.A.) di buoi, e una donna che
leggeva il futuro nelle carte e sulle linee delle mani. Impossibile non si
fossero domandati, guardandolo, come mai il tempo che incideva di rughe la loro
pelle color cuoio e disseminava d’argento i loro capelli corvini scivolasse
come l’acqua su di lui, lasciandolo indenne e sempre uguale a se stesso. O
avevano smesso di farlo, conoscendo già la risposta. Li guardò con la coda
dell’occhio trascinare di forza fuori dal recinto un grosso toro e rabbrividì.
Stava calando la notte, e faceva freddo.
-Ha un nome, quel vostro bel cavallo che non volete
vendere?
Si voltò, e venne a trovarsi faccia a faccia con il
figlio effeminato della Contessa e del Generale. Ghibli. Sussurrò. Come il
vento che soffia sul deserto. E lo guardò rabbrividire. Ma stava calando la
notte, e faceva freddo.
****
Oscar François de Jarjais saettò una lunga occhiata
indagatrice sull’uomo che gli* stava davanti. Un popolano, pensò, con la
faccia cotta dal sole e le spalle larghe di chi spacca la legna o batte il
ferro arroventato sopra un’incudine. Emanava un’aura di brutale energia a
stento trattenuta che si trovò ad invidiargli. Non era la prima volta che gli
capitava, in presenza di un uomo tanto prestante. Avrebbe voluto la sua forza.
Se l’avesse avuta, la vita gli sarebbe stata più facile pensò,
mordendosi le labbra. Aveva notato, lo sconosciuto, quanto erano morbide e
sinuose? Aveva notato l’arco delle sopracciglia, la tonalità quasi d’argento
delle iridi, la linea elegante del profilo, allo stesso modo in cui lui
aveva notato la sua virile bellezza? Voce grave, mascella forte, occhi né verdi
né azzurri, capelli castani che gli ruscellavano ondulati lungo una logora
giacca di daino, mani grandi e callose,
abituate a maneggiare la vanga, l’accetta…O la spada. Chi sei? Avrebbe voluto
domandargli. Una divinità barbarica, un eroe tornato dall’aldilà, dal passato e
dalle leggende? No. Semplicemente un bifolco che aveva avuto in dono dalla
sorte un aspetto fisico che non passava inosservato. E che, con ogni
probabilità, considerava imbarazzante se non insolente il modo in cui un altro uomo
continuava a fissarlo.
****
-Monsieur le Colonel?
-Sono venuto a saperne di lui.
-S’è agitato nel sonno, ma la caduta non dovrebbe aver fatto danni gravi, è solo un po’ ammaccato. Ha avuto fortuna, quel toro avrebbe potuto ammazzarlo.
O avrebbe potuto ammazzare me, si ritrovò a
pensare Oscar François de Jarjais. Avrebbe fatto una brutta fine se quel
bifolco che sembrava la reincarnazione di Sigfrido non l’avesse spinto via
dalla traiettoria della massa nera, scalpitante e furente che, sfuggita al
controllo degli zingari, si era precipitata contro di lui a testa bassa, le
narici che fumavano, le micidiali corna acuminate pronte a colpire e a
trafiggere. Invece, grazie al Cielo, se l’era cavata con qualche livido e i
vestiti impolverati.
-Vorrei vederlo.
Il locandiere non avrebbe potuto fermarlo, neanche
volendo. Lui non era nessuno, quell’altro il figlio del Generale, Le Comte
de Jarjais. Capitava che ogni tanto
qualcuno degli avventori della bettola, magari dopo un bicchiere di
troppo, sproloquiasse a proposito di tempi nuovi e di un mondo migliore. Ma
quel mondo e quei tempi erano ancora di là da venire.
-Andate, Monsieur Le Colonel. Ma forse lo
troverete ancora addormentato.
****
Colonnello. L’aveva chiamato così, pensò l’uomo
rivoltandosi tra la veglia e il sonno,
ben difeso dal freddo grazie alle coperte che quell’altro, perché sicuramente
doveva essere stato lui, gli aveva fatto portare. Ufficiale, e d’alto rango,
altro che cantante castrato. Anche se, a guardarlo, non ci avrebbe scommesso un
soldo. Era bello, ma non come può esserlo un uomo: come una donna.
-Chi debbo ringraziare per avermi salvato?
I modi semplici e decisi smentivano quella prima
impressione e anche il fatto che avesse trovato strana la faccenda, quando il
locandiere gli si era rivolto chiamandolo colonnello. E le pelli che lo avvolgevano con il loro caldo
abbraccio dovevano essere appartenute ad orsi e lupi che egli stesso aveva ucciso.
-Maximus.
Maximus. Un nome latino. Semplice indovinare che un
figlio del genere doveva averlo deluso, suo padre. Esattamente come lui aveva deluso il suo, nel momento
stesso in cui era venuto al mondo.
-Un nome impegnativo, il vostro.
-Un nome latino. Mio padre era di quelli che amano
il passato perché detestano il presente e temono il futuro.
-Non credo sia il solo.
-E voi siete…
-Oscar François de Jarjais, colonnello della Guardia
Reale.
La luce della lanterna illuminava incerta la stanza.
Eppure, lui avrebbe giurato che quell’altro fosse arrossito, mentre gli
rispondeva. Come arrossirebbe una ragazza, se un bell’uomo sconosciuto le rivolgesse la parola
porgendole magari un fiore, o
semplicemente sorridendole. Suo padre era un generale, così gli aveva detto il
locandiere. Chissà se aveva motivo d’essere orgoglioso di quello strano figlio.
O, più probabilmente, di vergognarsene.
****
L’uomo dei cavalli strinse gli occhi, cercando nel
buio lo strano volto del suo interlocutore, sottile come quello di un giovane
fauno. Gli avrebbe chiesto chi siete, e lui avrebbe fatto bene ad escogitare
per tempo qualche bugia credibile che soddisfacesse la sua curiosità. Un padre
colto ed istruito, per esempio. Che si sarebbe vergognato se avesse saputo che
ne era stato di suo figlio, non fosse morto, in circostanze tragiche, quando
lui aveva solo otto anni. Era un uomo discreto, e non gli avrebbe domandato
altro. Del resto, i cavalli erano una buona compagnia. Loro e la solitudine.
Quella solitudine che lo proteggeva da qualcosa, da qualcuno…forse
semplicemente da se stesso.
Si tirò su a sedere sul letto, e una smorfia di
dolore gli torse la bocca. L’incidente di poco prima non era trascorso senza
conseguenze. Aveva un grosso livido sul petto, notò il Colonnello, forse
addirittura qualche costola rotta. Ed era pieno di cicatrici, proprio come un vecchio soldato. Un soldato, già. Le
sue non erano le mani di un contadino, ma quelle di un guerriero. Le mani che
avrebbe voluto in luogo delle sue, troppo sottili e delicate per essere
credibili quando si stringevano intorno all’elsa di una spada. Le mani da cui
avrebbe voluto sentirsi sfiorare.
Un ermafrodito che si chiamava come un eroe delle
saghe nordiche. Un sensale di cavalli che si portava appresso un solenne nome
latino. La vita non segue schemi razionali, il più delle volte. Maximus strinse
i denti, per evitare che l’altro gli leggesse in faccia il dolore che sentiva.
-Domani vi manderò un medico. Temo proprio che
abbiate qualche costola rotta.
-Non datevi pena…Colonnello. Non ne ho bisogno.
****
Gli occhi di quell’uomo selvaggio gli
ricordarono le pietre che scintillavano sul diadema della Regina. Strinse le labbra fra i denti, per
ricacciare indietro i pensieri molesti
che facevano a pugni dentro la sua testa. Valeva la pena di continuare a
fingere? Gli sarebbe piaciuto gettare via la sua maschera e la sua
corazza, raccontargli quella verità che
forse aveva intuito da solo, anche se non aveva spiegazioni che ne
giustificassero il perché. La sua vita sarebbe stata diversa, non fosse nato
nel palazzo di un nobile generale, ma nella casa modesta dove l’altro doveva
aver visto la luce. Se così fosse stato, sarebbe vissuto nella pienezza
della verità piuttosto che nel compromesso e nella menzogna. Non sarebbe stato costretto
ad accettare l’identità fittizia che gli era stata imposta, sarebbe
stato libero di amare…E di odiare: gli aristocratici arroganti di cui sapeva le colpe, il sovrano imbelle e la regina
fatua e leggera che le circostanze lo costringevano a servire…Sarebbe
stato libero di essere se stesso. Nel
bene e nel male.
Il tempo gli scorreva addosso, inesorabile.
Aveva capito che non gliene restava molto, quando aveva scoperto quelle chiazze
di sangue sul fazzoletto con cui aveva cercato di soffocare un accesso violento
di tosse. Un male che non conosceva misericordia, il suo. Lo sapeva.
Esattamente come sapeva che anche al
suo mondo malato e corrotto non restava molto da vivere. Eppure, gli
sarebbe piaciuto che quell’uomo vigoroso con
la pelle segnata dalle cicatrici
e la schiena marchiata come un delinquente la stringesse tra le braccia e le facesse conoscere l’amore. Prima che fosse
troppo tardi.
Avrebbe avuto voglia di raccontargli tutto quanto.
Sono una donna, monsieur. Questa mascherata mi è stata imposta da un
padre che non accettava la realtà, dopo quattro bambine un’altra figlia
femmina. In casa di un nobile, c’è bisogno di un figlio maschio. E a chi un
generale potrebbe assegnare la sua eredità di onore e di gloria? Non certo ad
una donna.
****
Le Amazzoni. Qualcuno gli aveva parlato di loro,
tanto tempo prima. Vivevano ai limiti orientali del mondo e avevano fatto della
guerra l’unica ragione della loro vita.
Non credevano nell’amore, vi avevano rinunciato, consapevolmente, perché ne
temevano le conseguenze? Amando, si può concepire un figlio. Amando si può
perdere la libertà e diventare schiavi. Ne valeva la pena?
Il Colonnello aveva gli occhi incredibilmente
chiari. Più di quanto lo fossero i suoi. Occhi duri e tristi al tempo stesso,
segnati agli angoli da un ventaglio di piccole rughe. E il sole aveva bruciato
la pelle delicata della sua fronte, asciugato le linee morbide delle sue
guance. Si domandò quanti anni potesse avere. Abbastanza da temere quel che il
tempo, prima o poi, avrebbe fatto di lei. Le donne hanno paura d’invecchiare.
Ma lei non era come tutte le altre. Chissà se aveva mai amato. Chissà se
provava rimpianti.
****
Oscar François de
Jarjais ripensò al Conte di Fersen. Strinse forte i pugni, nonostante fosse acqua
passata. Aveva faticato a controllare
la gelosia feroce nei confronti di quella Regina a cui aveva giurato una
fedeltà che non meritava, l’odio per quel padre che Dio, gli uomini e la
consuetudine le imponevano di amare,rispettare e onorare…Non era stato
facile.
Acqua passata. Lui le voleva bene come a un
fratello, come a un amico. Le parole feriscono, ma non possono uccidere. E
l’amore non è un’arma, né un male che non conosce cura. Sarebbe sopravissuta
anche a quello, si era detta stringendo i denti. Avrebbe deciso di vivere come
un uomo.
Come un uomo, aveva
gustato la carne calda e profumata di certe damigelle impudiche ignare,
o il più delle volte consapevoli della sua reale natura. Uomo in mezzo ai suoi
uomini, dura con gli altri, implacabile con se stessa, spietata con che si
struggeva di tenerezza guardandola negli occhi. Con André, il fratello che non
era un fratello, colui che l’amava e non avrebbe potuto amare.
Il Colonnello si vergognò del suo passato, del suo
presente e dei suoi pensieri. Guardò ancora una volta l’uomo disteso sul letto,
che non parlava e aveva capito tutto quanto, perché sicuramente anch’egli
nascondeva segreti impossibili da condividere con qualcuno. Non era raffinato
ed elegante come il conte di Fersen, ma lui pure splendido nella sua rude,
maschia avvenenza di popolano che mai aveva conosciuto seta, profumi e
parrucche incipriate. Perché non sorridi, perché non mi domandi di sdraiarmi
accanto a te? Saresti il primo, lo sai? A trentacinque anni, sono ancora
intatta come una bambina, ma ho trascorso una vita nelle caserme, e conosco gli
uomini, ho ascoltato i loro discorsi impudichi, conosco i loro desideri
segreti…Potrei farti felice…Maximus.
****
L’uomo dei cavalli la guardò arrossire, intuire i
suoi pensieri segreti e vergognarsene. Se ne sarebbe andata, ne era sicuro.
Sarebbe scivolata, la schiena eretta, gli occhi seri e imperturbabili, le mani
dietro la schiena e il buio e il niente l’avrebbero inghiottita, con la
maschera della sua identità fittizia.
Persona. Come l’antica maschera etrusca che copriva
il volto di chi, reo dei crimini più abominevoli, veniva condannato ad essere
sbranato da un cane. Phersu. Ognuno di noi è maschera e persona, pensò
guardando allontanarsi quell’enigmatico ermafrodito, quella donna misteriosa che
vestiva come un uomo e portava il nome di un antico guerriero vikingo.
Maschera, come quella che non aveva gettato per raccontargli la verità, anche
se il suo sguardo e il suo rossore lasciavano intendere quanto dovesse averlo
desiderato. Maschera, come quella che
lui era costretto ad indossare per nascondere il mistero della sua eterna
giovinezza, della sua vita senza fine. Cambiare identità allo stesso modo in
cui un serpente cambia la sua pelle era più
semplice che rivelare una verità che sembrava una menzogna, pensò
Massimo Decimo Meridio, contadino, soldato, generale, schiavo, gladiatore e
regicida, richiamato indietro dall’aldilà per opera di magia fino alla fine dei
secoli. E si avvolse nelle coperte, aspettando il sonno.
*I pronomi personali maschili che ho usato riferendomi ad Oscar non sono un errore grammaticale, ma una scelta stilistica voluta.
Fine
Lalla, 18 novembre 2004