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Autore: LaCantastorie    12/07/2016    1 recensioni
[Rosmunda (Sem Benelli)]
Italia, all'incirca 1500 anni fa. Un dramma si consuma nel breve spazio di un lustro: è una storia tra le storie, quella di Rosmunda, e come tale divenne e diviene materia d'arte - e di letteratura. Da Ruccellai ad Alfieri, essa ha avuto molteplici interpreti, voci certo più autorevoli della mia: ma se non si leva alta, a turbare l'armonia, una timida nota in più non fa del male.
Genere: Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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La coppa passava disinvoltamente da commensale a commensale: la corte, oramai, era abituata a quell’artefatto sacrilego, a quel calice ricavato dal teschio di suo padre.
Lei, nonostante fossero passati già cinque anni da quell’evento fatale, non lo era affatto.
«Allora, Rosmunda: non bevi, mia cara?»
Il sorriso beffardo di Alboino la scherniva, ricordandole la vergogna subita: era vero, da principessa dei Gepidi era divenuta regina dei Longobardi, ma nessuno vedeva in lei nulla più che la concubina del re.
La sua schiava.
Si alzò lentamente da tavola, facendo in modo che ogni suo gesto mettesse in risalto la figura snella e flessuosa; in quel corpo modellato da Afrodite, da tempo viveva lo spirito di Nemesi.
Il vino gocciolò silenziosamente dal viso del re, rivolettando sulle sue vesti preziose: strie rosse che richiamavano il colore del sangue che quell’uomo aveva sparso, godendone come un dio della guerra... o degli Inferi.
«Alla tua salute», mormorò la donna, prima di ritirarsi lentamente nelle proprie stanze.
 
-
 
Lo spatharius di Alboino aveva un viso da sempliciotto, candido come l’innocenza: si chiamava Elmichi, e non aveva altri pregi oltre a quelli che il suo ruolo gli conferiva. Si prendeva cura delle armi del re, e tanto bastava perché quel personaggio insignificante le tornasse utile.
Oh. Era anche follemente innamorato di lei.
Rosmunda si toccò una guancia: ancora umida di salsedine, era stata realmente solcata da alcune lacrime, lacrime nate da odio, rabbia e impotenza, lacrime che venivano da una frustrazione vecchia di cinque, interminabili, anni.
Cunimondo è solo un ricordo, ormai, constatò, chiedendosi per un momento, un momento soltanto, come potesse aver del tutto dimenticato l’affetto del genitore: di lui, nonostante fosse passato solamente un lustro, rammentava a stento il viso, poiché ogni volta che tentava di richiamare alla mente i ricordi d’infanzia ecco che un’immagine, sola e prepotente, li oscurava tutti.
Una spada, una testa mozzata, un urlo di vittoria.
«Mia signora, va tutto bene? Che cosa vi è accaduto...?»
La regina lo abbracciò senza pensare, nascondendo il viso nell’incavo della sua spalla: iniziò a singhiozzare, sentendo allentarsi la pressione che fino a quel momento le aveva schiacciato il torace, chiedendosi se quello sfogo avesse qualcosa di vero o fosse soltanto parte dell’eterna recita alla quale si era costretta a partecipare.
«Oggi, deve finire oggi!»
Si staccò repentinamente da Elmichi, guardandolo dritto negli occhi e cercandovi la consapevolezza del significato di quelle semplici parole: la trovò, mista alla titubanza di chi era stato allattato dalla stessa balia di Alboino, da chi era stato scelto per essere il compagno fedele del re longobardo.
Lo farai?, gli chiese, in silenzio.
Finalmente, lo scudiero annuì, distogliendo lo sguardo dalla regina.
 
-
 
La notte gli era amica: non c’era, nel buio, niente di cui avere timore. Il campo di battaglia non gli era meno familiare della sua stanza, dopotutto: non aveva mai dimostrato codardia o viltà di fronte ai suoi soldati, il suo popolo l’ammirava e non l’avrebbe sostituito con un altro re, no, perché mai nessuno l’avrebbe condotto al trionfo con altrettanta rapidità.
Il sonno arrivò presto: non si chiese nemmeno dove fosse sua moglie, dedicando appena un vago pensiero al vino che aveva osato versargli addosso. Non l’aveva scelta come propria consorte anche per questa sua attitudine ribelle?
Non si può conquistare chi s’arrende, sentenziò fra sé e sé. L’avrebbe punita il giorno seguente.
 
-
 
 
«Sai chi sono, non è così?»
Il lenzuolo giaceva in terra, accartocciato ai piedi del letto. Il petto di Peredeo brillava di sudore alla luce di una torcia, mentre nei suoi occhi si leggeva un solo, totalizzante sentimento: il terrore.
«A te la scelta, ora...»
Rosmunda, nuda, si allontanò dalla fonte di luce, dirigendosi verso la finestra stretta e alta: il chiaro di luna le si addiceva di più, anche perché, quella notte, il satellite aveva la forma di una falce d’argento.
«... Ucciderai il re, o ne sarai ucciso?»
Rosmunda sorrise, conoscendo in anticipo la risposta; era stato facile convincere la propria ancella ad accondiscendere alle brame di Peredeo, così com’era stato sin troppo facile sostituirsi a lei nel suo letto, quella notte. Bluma le era stata sempre fedele: era stata la sola presenza amica che avesse avuto accanto in seguito alla morte del padre, eppure l’avrebbe abbandonata di lì a poco...
L’aria di mezzanotte le sferzò il viso, ricordandole il presente:
«Se rifiuterai di compiere quanto ti ho chiesto, responsabile del tentato omicidio sarai tu solo: hai disertato la guardia della stanza da letto del re per seguire un’ancella procace, lasciando ad Elmichi il campo libero per manomettere le armi di Alboino... Subito dopo, hai addirittura osato prendere possesso della sua donna, pensando avrebbe appoggiato e legittimato il tuo operato: ho io la chiave del monetiere regio, anche solo per questo la mia presenza nella tua stanza non sarebbe tollerata dal re!».
Tenendo tra indice e pollice un’esile catenella, mostrò la chiave d’oro che pendeva dal gioiello, ammiccando: «La mia dama di compagnia ti s’era quasi affezionata, lo sai? E credo anche di sapere perché... Rivestiti, ora: la notte passa in fretta», suggerì, uscendo dalla camera da letto dopo aver indossato nuovamente la veste da serva.
La verginità le era stata tolta con la forza; quell’atto non aveva valore alcuno, per lei. Scese la scalinata con il passo leggero che deve avere l’Angelo della Morte: accanto allo scranno di Alboino, incustodito, giaceva ancora lo scrigno con il tesoro personale del re.
«Mia signora, ho fatto quanto mi avete ordinato: mi considererete degno del vostro favore, ora?»
La voce tremante di Elmichi, unica guardia del piccolo forziere, la raggiunse dall’altro capo della sala: le era bastato servirsi di due uomini, di due soli membri della corte...
Basta un solo anello debole per spezzare una catena.
«Molto bene», rispose, indicandogli il contenitore intarsiato: «Appena Peredeo sarà di ritorno, fuggiremo insieme alla volta di Ravenna!»
Un’ombra passò sul viso di Elmichi: sarebbero stati in tre?
La regina fece violenza a se stessa per non ridere in faccia a quell’uomo, mentre si apprestava a sollevare il baule: come poteva anche solo pensare che qualcosa, oltre al calcolo e alla speranza di guadagno, l’avessero spinta ad avvicinarsi a lui?
«Ricorda che sei stato tu a rifiutare di compiere l’assassinio, Elmichi. Non mi guardare in quel modo mai più, siamo intesi?»
Il tono bonario e la carezza lieve che depose su quel viso dai tratti di bambino contribuirono a dissipare i dubbi di colui che aveva reso inutilizzabili le armi del re, sigillando per sempre nel suo fodero la spada con cui Alboino aveva mozzato il capo di Cunimondo: si diressero all’aperto, dove li attendeva un carro predisposto alla fuga.
Ravenna è già Bisanzio, si disse.
-
 
Non l’aveva svegliato un rumore preciso: c’era qualcosa, nell’aria immota della stanza... Qualcosa di estraneo, e di minaccioso.
Si alzò dal letto, dirigendosi a tentoni verso la sua fida spada: impugnò l’elsa, tentando di aguzzare la vista nel buio e chiedendosi come mai la sensazione sgradevole non scemasse, ma spingesse il suo cuore a battere più forte, più forte...
Il pugnale non emise un singolo bagliore, quando si abbatté sulla sua schiena: Alboino cercò di estrarre la lama dal fodero solo per scoprirla irrimediabilmente bloccata all’interno della guaina, inutilizzabile, inutile come tutto ciò che aveva compiuto in vita, ora che si trovava a faccia a faccia con la morte.
So già a chi la devo, ebbe il tempo di pensare dopo che, disarmato, fu trafitto una seconda volta, mentre sollevava uno sgabello per difendersi da un terzo colpo: il banchetto veronese era stato la sua ultima cena, il troppo vino era complice dell’assassino, che aveva gioco facile nello strappargli di mano quello scudo improvvisato, nel ferirlo ancora, ancora, ancora...
Da un ripiano, il teschio di Cunimondo osservava la scena, ghignante.
   
 
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