Storie originali > Romantico
Ricorda la storia  |      
Autore: Mary_la scrivistorie    14/07/2016    3 recensioni
Daniel Hewitt è un ragazzino ambizioso che sogna di diventare scrittore. Un giorno, tra gli scaffali della libreria, nota una ragazza che gli cambierà la vita e diventerà la sua Musa ispiratrice. Sarà il suo primo piccolo, grande, amore.
Dal testo: «Fu in quel preciso momento che l’universo di Daniel Hewitt si capovolse. Il cristallo di vetro che aveva protetto le sue iridi fino a quel momento s’infranse e giacque per terra, ormai ridotto ad un rivolo di sogni spezzati. Nessuna barriera avrebbe potuto più impedirgli di Vedere; nessun ostacolo si sarebbe mai più interposto fra lui, personaggio mite e pacato di un’avversa novella, e la Vita, il labirinto che gli si presentava in tutto il suo pericolo, in tutto il suo fascino.»
[Prima classificata al contest “Have you ever been in love?” indetto da Jadis_ sul forum di EFP.]
Genere: Drammatico, Introspettivo, Song-fic | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago, Storico
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
X & Y

 
 
testo
 
 «Trying hard to speak
And fighting with my weak hand
Driven to distraction
It’s all part of the plan

 
Una gelida sferzata di vento lo sopraffece mentre pungolava con lo stilo la pergamena che teneva fra le mani. Era bloccato sulle prime righe e ciò lo devastava. Non aveva mai avuto la sfortuna di essere assalito dal famoso calo d’ispirazione denominato «blocco dello scrittore». Mai.
La sua maestra lo aveva rassicurato, quella mattina, mormorandogli che era assolutamente normale e che prima o poi sarebbe capitato a tutti gli scrittori nati in quel mondo di grigiori. Lui l’aveva osservata con tanto d’occhi, avido di conoscere i dettagli di quella terra inesplorata che si offriva alla sua indagine.
Usciva puntualmente di casa ogni venerdì pomeriggio, nonostante gli impegni scolastici che affollavano il suo diario e il famigerato maltempo londinese. La sua felicità non ne era mai scalfita: assaporava la fredda brezza che gli violava la pelle e la fragranza di nubi perlacee che impregnava i giardini. Camminava contemplando le siepi pittoresche di Hyde Park e l’acqua grigiastra del Tamigi. Osservava la natura risplendere e trasformarsi sotto la rigorosa custodia del Tempo. Girava e girava, smanioso di trovare scorci d’ispirazione nell’edera rampicante, nelle fonti cristalline, nei sampietrini dei marciapiedi.
Gli altri ragazzini lo fissavano con malignità, deridendolo ogni qualvolta passava per quella che loro chiamavano “la loro strada”. In realtà, il quartiere di Tottenham Hale [1] era tutto fuorché quello: zona malfamata da anni, di notte s’animava di demoni umani e giocava brutti scherzi ai visitatori che oltrepassavano i suoi confini maledetti.
Daniel Hewitt, residente all’orfanotrofio di Springfield Road [1], lo sapeva bene. Lui e suo fratello Thomas si erano più volte avventurati in quel quartiere della metropolitana, ammaliati dall’idea di viaggiare e di svanire nell’oblio della notte. Una volta erano stati ad un passo dall’essere pedinati da una banda di malfattori ‒ la signorina Bradley si era davvero infuriata, quella volta.
Daniel lasciava che gli altri bambini lo schernissero senza reagire. Li superava in silenzio, avvolto  nel suo lungo cappotto grigio ‒ unica eredità che il padre gli aveva lasciato ‒, soffocando le parole che gli montavano in gola e lasciando sbollire la cieca rabbia che lo attanagliava in quei momenti. A volte, quando si sentiva particolarmente solo e recluso, lacrime silenti gli rigavano involontariamente gli zigomi. Era un tipo che preferiva soffrire in solitudine.
C’erano tante cose che erano andate storte nel suo piccolo passato: la morte della madre, la scomparsa del padre, i recenti conflitti con il fratello ‒ l’assenza di una famiglia, semplicemente. L’orfanotrofio gli assicurava ottimi pasti, una maestra formidabile ed un letto confortevole. Tuttavia, non poteva offrirgli la compagnia di cui Daniel aveva davvero bisogno.
Aveva un solo amico: un tizio stravagante e bizzarro con un nome così lungo che nessuno si ricordava, e che aveva dunque soprannominato «Z». Z era un uomo canuto sulla cinquantina, con un’incipiente calvizie e le basette dignitosamente rasate. Aveva una corporatura massiccia e robusta, un po’ come un militare pensionato. Nonostante fosse un nomade senzatetto, si atteggiava a nobile aristocratico caduto in disgrazia, ingannando i più stolti e stillando il loro denaro mediante finti ultimatum – lui li imbrogliava ricorrendo a termini e modi d’alto rango; quanto a loro, erano solamente tanto stupidi.
Z incuteva timore nei più: Daniel se ne era sempre chiesto il motivo. Il loro primo incontro era avvenuto due anni prima, quando lui aveva otto anni. Aveva visto un uomo per strada, malinconico ed impietrito, e gli aveva chiesto cosa c’era che non andava. Z aveva dato bella mostra del suo caldo sorriso sdentato e gli aveva risposto: “Ora va tutto bene. Non tutti si sono dimenticati di me.”
Da quel momento erano diventati inseparabili compagni di disavventure. Durante i loro incontri clandestini, Daniel portava sempre alcuni panini d’emergenza per sfamarlo, tuttavia Z si offendeva ed insisteva affinché fosse lui a pagare i pranzi al takeaway con i pochi soldi che era riuscito a racimolare durante il dì. E che non bastavano a procurargli degli indumenti meno sgualciti di quelli che indossava.
Daniel provava pietà per le misere condizioni di Z, tuttavia la signorina Bradley gli aveva suggerito di starsene per conto suo e lasciar vivere ad ognuno la propria vita. Daniel non le credeva e voleva davvero sostenerlo o quantomeno aiutarlo, tuttavia non ce la faceva. Semplicemente, non gli riusciva: ogni sua premeditazione era vanificata dall’avvento delle paure per le conseguenze. In cuor suo, temeva che Z potesse andarsene: preferiva peccare d’egoismo piuttosto che perdere il suo unico amico. La solitudine lo assillava già anche troppo: riecheggiava nei sospiri della brezza, nel lieve fruscio delle foglie d’acanto, nelle scure acque del Tamigi e perfino nell’oblio della nebbia. La solitudine era il demone che non riusciva a sconfiggere.
Ogni tanto, Z gli chiedeva cose bizzarre. Lo fece anche quel venerdì, mentre entrambi assaporavano il dolce tepore del tè della signora Jordan, vicina di casa di Daniel e benefattrice di Z. Erano seduti sul sofà bordeaux della donna, quando il silenzio venne spezzato da una domanda.
«Sei mai stato innamorato, Daniel?». [2]
 
«When something is broken
and you try to fix it
trying to repair it anyway you can
 
 
Il ragazzo reagì deglutendo rumorosamente, incapace di metabolizzare il concetto. Aveva dieci anni, una penna a sfera ed una pergamena distesa amorevolmente sulle ginocchia. Fugaci e colorati sogni d’infanzia, e nulla di più.
«Innamorato della scrittura, intendi? La signorina Bradley sostiene che affermare una cosa del genere sia un po’ troppo pretenzioso e che guasti il piacere della lettura.», replicò Daniel, che osservava con un certo languore il piatto di curry accanto alla tazza vuota.
«No, Daniel. Sai che quella robaccia non fa per me. Intendo innamorato, perdutamente, di una fanciulla.»
Le parole di Z, tiepide ed amare come un morbido caffellatte, trafissero Daniel e lo fecero avvampare di colore. Non era il tipo da smancerie sentimentali, figurarsi da cotte adolescenziali. I suoi coetanei avevano da sempre preso le più terribili sbandate per le giovani fanciulle del quartiere, ma lui mai. C’era stata una certa Emily, che aveva soggiornato per breve tempo all’orfanotrofio, che aveva dimostrato interesse nei suoi confronti: nonostante fosse timida e misantropa, gli era girata intorno come fa un’ape con il miele. Lui se ne era vergognato un sacco e non le aveva mai rivolto parola. Era fatto così: tutto poesia e armonia, ma niente amore vero e proprio. I suoi compagni lo ritenevano omosessuale; la sua insegnante concordava; i vicini vociferavano qualcosa in proposito. La verità? Lui non ci capiva nulla.
Poteva benissimo esserlo, per quanto ne sapeva. Tutto ciò che riguardava l’amore lo sconcertava a priori, e ne comportava la conseguente diffidenza.
Daniel era semplicemente diverso: non credeva nel potere dei sentimenti e si concentrava perlopiù sui talenti artistici che possedeva. Era un gran fotografo, ed un ancor migliore scrittore. Gli piaceva scrivere perché poteva sfuggire alle crudeltà di quella realtà e al contempo cercare un modo per tradurla, per teorizzarla.
Senza pensarci, afferrò i lembi della pergamena fra le sue mani e l’accarezzò in superficie, assaporando attraverso il tatto ogni perla di carta che riusciva a sfiorare. Era quello, pensò, il suo grande amore. La sensazione d’infinito che anelava ogni minuto della sua giornata era contenuta lì, in quel tappeto d’inchiostro, in quell’alba di parole. Non vedeva l’ora di sprofondare di nuovo nell’abisso della sua fantasia, per poi non riemergerne mai più.
Mancavano soltanto altre tre ore. Poteva farcela.
Rifletté sulle parole di Z a lungo, nonostante non riuscisse a decifrarle. Rimanevano puro aramaico, qualunque fosse l’interpretazione a cui lui scegliesse di attingere. «Nossignore, ancora no.»
La sua franchezza probabilmente sconvolse Z, che assunse un cipiglio cupo e meditabondo, lontano anni luce da quell’innocente conversazione di quella rovente serata invernale.
«Questione di tempo, piccolo Daniel. Prima o poi capiterà anche a te.», proclamò flebilmente, quasi come se stesse enunciando una condanna a morte.
A Daniel si gelò il sangue nelle vene. Si chiedeva se davvero l’amore potesse riversare quegli effetti catastrofici sulle sue vittime. Si chiedeva se perfino Z ne avesse sofferto, e in quale maniera.
Si chiedeva che cosa fosse l’amore, oltre al soffuso oblio dell’anima. Non saperlo lo infastidì, un po’ come il suo blocco dello scrittore. L’ignoranza gli dava alla testa: gli faceva affluire il sangue al cervello e gli scatenava un cieco e sordido rancore. Si sentiva troppo piccolo di fronte a quel pianeta tanto, troppo imponente, che gli proponeva ogni giorno criptici enigmi.
Dischiuse la bocca e mormorò con sfrontatezza: «Come fa a saperlo, signore?». Il suo tono faceva presagire un po’ dell’irritazione che covava nel suo cuore.
Z accolse la sfida e sfoderò un sorriso rugoso e comprensivo da nonno: «Gli anni, Daniel. La vita.»
Quelle parole, accompagnate dal fruscio del vento che entrava dalla finestra, carezzarono il suo udito. Le cose divennero improvvisamente più nitide e definite, più colorate. Per un bambino come lui, il mondo era tutto carta e rilegatura, vita intellettiva più che effettiva vicenda reale.
Daniel invidiò Z, per la prima volta in assoluto nella sua vita. Lo aveva sempre commiserato per lo strazio che viveva, invece si ritrovò a constatare che quell’uomo aveva imparato molto sulla Vita.
Daniel invidiò Z che La conosceva. Nonostante il crudo risentimento che gli attanagliava lo stomaco, provò a implorare il suo aiuto in quella materia spaventosa ed estranea.
«Mi puoi insegnare un po’ di Vita?», chiese, bramoso di sapere.
Z cominciò a ridere, lasciando trapelare una leggera vena di amarezza. Quella serata si estinse nell’eco delle sue risate, rivelatrici di memorie sanguinarie distanti sette mari e nocive per la fanciullezza di un candido bambino.
 
 
In effetti, non ci volle molto tempo perché Daniel Hewitt imparasse un po’ di Vita. O almeno, un po’ d’Amore. Trascorsero tre anni e sette mesi da quella conversazione. Tutto un susseguirsi di stagioni, che però non concessero a Daniel il ritrovamento della sua Musa ispiratrice. Si distanziò dalla scrittura – che lo aveva brutalmente abbandonato – e crebbe da solo. Z scomparve nel nulla, senza più dare sue notizie.
Erano in due: Daniel e la solitudine. Con il tempo, ci si era abituato. Acconsentiva al sigillo che il languore imprimeva sulle sue membra, acconsentiva al mesto oblio che s’impadroniva di lui durante la notte, acconsentiva al tepore di quella mite e solitaria quotidianità. Viveva con se stesso e gli andava bene.
L’orfanotrofio era diventato il luogo dove provvedeva al proprio sostentamento e soddisfaceva le proprie esigenze vitali. La sua vera vita era in strada, con la sigaretta spenta tra le dita e la cenere ai propri piedi. Pareva che Daniel stesse commemorando l’Ispirazione che era stata bruciata il giorno in cui gli avevano profetizzato un anatema d’amore. Quella stessa Ispirazione era la cenere depositata sull’asfalto, reduce di un incendio molto più maestoso che quello di una semplice sigaretta.
Daniel temeva gli effetti di quella maledizione: sebbene fosse un ragazzino, tentava di sfuggire a quante più persone poteva e di non soffermarsi mai a lungo su qualcuna di esse.
Daniel imparò a sue spese la gravità dell’Amore, la sera in cui uscì con sorprendente anticipo dal pub gestito dalla signora Lockwood ed entrò in libreria senza fumarsi prima la sua abituale sigaretta. Quella sera, non poté aggirare la sua condanna.
 
 
«You and me are floating
on a tidal wave together
you and me are drifting
into outer space
and singing.
»
 
Fu in quel preciso momento che l’universo di Daniel Hewitt si capovolse. Il cristallo di vetro che aveva protetto le sue iridi fino a quel momento s’infranse e giacque per terra, ormai ridotto ad un rivolo di sogni spezzati. Nessuna barriera avrebbe potuto più impedirgli di Vedere; nessun ostacolo si sarebbe mai più interposto fra lui, personaggio mite e pacato di un’avversa novella, e la Vita, il labirinto che gli si presentava in tutto il suo pericolo, in tutto il suo fascino.
Lei.
La contemplò in silenzio mentre camminava con ineccepibile leggiadria di fronte a lui. I suoi deliziosi riccioli screziati di bronzo danzavano sulla sua pelle nivea come se fossero petali  scarmigliati dal vento, le labbra accese di porpora erano dischiuse in un incantevole sorriso d’angelo, la carnagione d’alabastro scintillava sotto gli spiragli del sole, le spalle s’arcuavano soavemente per evitare impatti con i pedoni che s’affollavano tutt’intorno, i polpastrelli affusolati percorrevano con avidità la rilegatura di cuoio del romanzo che teneva fra le mani, lo sguardo era dapprima meditabondo, concentrato sul volume, poi rivolto al cielo – alle stelle diurne che nessun altro eccetto lei poteva vedere – e infine piantato cautamente sul suo.
I suoi occhi erano blu oceano. Daniel se ne sentì inghiottito e constatò che non c’era scampo a quello. Raccontavano da soli le avventure del mare in tempesta, che si nascondeva nei meandri degli abissi e ne riemergeva per acciuffare i marinai caduti nella sua trappola mortale; raccontavano le meraviglie del cielo notturno, attorniato dagli astri fulgidi di splendore divino e da terre sovrannaturali e inesplorate; raccontavano la smaniosa corsa delle fonti, delle sorgenti, delle correnti che percorrevano instancabilmente la Terra; raccontavano sprazzi reali di Vita. Daniel, ormai smarrito nel nuovo portale che aveva individuato, non s’accorse del calore improvviso che gli risaliva le guance, o del pallore disumano che assunsero le sue nocche quando lui le strinse con forza, oppure ancora della sua posizione scomoda che l’avrebbe a breve pure fatto quasi inciampare. Daniel non viveva più in quel mondo.
Quando lei gli s’avvicinò, trattenne il respiro. Era una ragazza sui quattordici anni, flessuosa e soave come una fata. Non l’avrebbe mai degnato di uno sguardo, ne era certo. Eppure si stava realmente incamminando ‒ angelicamente ‒ verso di lui.
«Mi scusi, lavora qui?», gli mormorò sbattendo le palpebre, forse a causa dell’imbarazzo. In effetti, un leggero colorito roseo si notava sui suoi zigomi dapprima nivei.
Daniel, paralizzato dall’inebriante fragranza di lei, non rispose subito. Riusciva soltanto a cogliere sprazzi scollegati del suo volto, registrandoli uno per volta nella propria mente. Lentiggini.
«No», riuscì a malapena a farfugliare, smarrito nell’invitante curva delle sue clavicole sottili.
La ragazza, probabilmente disorientata dal suo comportamento, accennò una risata melodiosa e sussurrò: «Sono davvero una sciocca, scusami. Credevo che tu fossi il figlio del proprietario, o qualcosa di simile. Hai un’aria da divoratore di libri.»
Il suo tono aveva qualcosa di raro, come se fosse accentuato di giovinezza e armonia. Aveva un timbro incantevole.
Daniel era troppo ipnotizzato per formulare un pensiero compiuto. Riusciva soltanto ad associare il colore dei suoi capelli al caramello più intenso che potesse esserci. «Non nego di esserlo. E tu?».
Lei lo sondò con la sua espressione serafica: «Forse “divorare” non è il termine più adeguato per una come me. Sono più il tipo di persona che esamina i libri e cerca la sua storia dentro quelle pagine, forse per rassicurazione o per sostegno.»
I loro occhi s’incrociarono per un istante infinito, prima che entrambi li distogliessero avvampando. Quando Daniel s’azzardò a sbirciarla ‒ senza molta discrezione ‒ notò che si era già ricomposta. No, decisamente lui non le suscitava alcun effetto.
Tentò di balbettare una domanda che non sembrasse stupida, ma le parole gli morirono in gola e non riuscì ad elaborare una frase coerente. La ragazza ‒ langelo ‒ lo squadrò quasi curiosa, poi si aprì in un delizioso sorriso e lo salutò: «Va bene, scusa il disturbo. Vado a chiedere al proprietario. Buona serata.»
Lo sguardo di lei si sottrasse troppo precocemente dal suo. Lui avrebbe voluto afferrarla per i polsi, neanche con tanta delicatezza, e urlarle di non fuggire mai più via da lui, di non cercare rifugio altrove, di restare. Tutto in lui bramava gridarle di soffermarsi ancora su di lui e di rivelargli ancora quel poco di Vita che aveva conosciuto. Ancora.
La sua muta e ininterrotta implorazione suscitò curiosità nella fanciulla che, ormai più avanti di qualche passo, si girò a fissarlo a sua volta. Fu un lampo di luce elettrica che non placò il vergognoso appetito di Daniel. La sua testa vorticò incessantemente mentre tentava di ricostruire ciò a cui aveva appena assistito: brandelli di Vita, sparsi e confusi come se fossero particelle gassose in movimento. Si sentì disorientato e cercò di nuovo le risposte nel languido sguardo di lei.
Purtroppo, l’incantesimo si era spezzato. In un attimo, la ragazza era già sui suoi passi.
Lui continuò a osservarla bramoso – ancora – mentre s’avviava lungo il marciapiede, con il portamento armonioso di un cigno. Non c’erano eccessi nel suo corpo: la sua grazia era ben misurata e lei era posata come la più regale delle principesse. Daniel proseguì a lambirle con gli occhi spalancati le membra lattee che sbucavano dalla gonna e dalla camicetta bianca che indossava. La sua pelle era perfetta, solcata appena da vene bluastre e violata dal dolce invito del vento che  entrava  dall’uscio.
Era estate, e Daniel non l’aveva mai percepita così, in tutto il suo splendore.
Si ritrovò a pregare silenziosamente per un altro bacio di sguardi, per un’altra fusione di anime, ancora, tuttavia non accadde. Daniel rimase lì dov’era, immobile e assuefatto, con gli occhi perduti nello scintillante tremolio della sua sagoma all’orizzonte.
Tutto ciò che riusciva a pensare era «ancora». Si sentiva spaesato, come se stesse galleggiando nello spazio senza alcun tipo di appiglio sulla Terra. Riusciva a percepire soltanto una catena argentea, ormai lontana, che aleggiava intorno a lui senza mai raggiungerlo.
Era un intollerabile supplizio.
Ancora.
La ragazza era ormai già svanita, come un’ombra che si confonde con il buio della notte. Ma no, lei era l’esatto opposto: una luce troppo accecante e vistosa, non adatta ai limiti del terreno, non adatta al mondo. Divina.
Ancora.
Daniel continuava a fissare il punto in cui lei era scomparsa, anelando il suo ritorno. Il bagliore degli occhi di lei l’aveva schiavizzato, rendendolo folle e ossessionato da ciò che lei incarnava. Vita.
Stupefatto, si accorse di essere stato beccato da una delle frecce d’amore di Cupido. Sì.
Daniel Hewitt aveva tredici anni e si era innamorato per la prima volta nella sua vita.
 
 
 
«I dive in at the deep end
You become my best friend
I wanna love you but I don’t know if I can

 
L’adolescenza di Daniel Hewitt si svolse prevalentemente negli alvei della sua fantasia. Quella stessa notte di luglio, ricominciò a scrivere. Con suo sommo stupore, afferrò la sua penna stilografica e buttò giù incessanti fiumi di parole, più che altro aggettivi che descrivessero le sensazioni che lo avevano intorpidito poche ore prima. La rivide ogni settimana, per un anno, sempre al solito scaffale, alla ricerca di vite spettrali fra i romanzi in esposizione: non ebbe mai il coraggio di salutarla. La osservava morbosamente dal suo angolo, carpendo ogni dettaglio di lei che riusciva ad imprimere nella mente, temendo che potesse sparire da un momento all’altro. Lei notava i suoi sguardi e gli sorrideva radiosa, come se sapesse esattamente ciò che gli passava per la testa: l’avrebbe fatto impazzire, prima o poi. In effetti, non si sbagliava più di tanto: la ragazza iniziò a presentarsi sempre con meno frequenza nel negozio fino a scomparire misteriosamente nel nulla. Daniel ne restò spiazzato, le sue illusioni andarono in frantumi e mutò con il tempo in uno scrittore algido e spietato.
Rammentava ogni centimetro dell’aspetto della sua antica amata, e lo riportò con metodica minuziosità sui suoi scritti, dove annotava ogni dettaglio di quelle serate in libreria e degli ammalianti occhi di lei. Blu oceano.
La sua diventò, con il passare del tempo, un’ossessione perpetua, quasi alla pari con quella per le sigarette. Non si staccava un attimo dal suo taccuino, che divenne la sua principale fonte di vita.
Per Daniel, scrivere era tutto. Lì sfogava i suoi timori, le sue frustrazioni, la sua ira: non aveva più rivisto la misteriosa fanciulla che gli aveva rubato il cuore, e ciò lo straziava.
Si chiedeva se i poeti romantici si sentissero così con le proprie Muse. Probabile.
Una sera, Emily si recò da lui alle nove. Tipico. Quella ragazza era sempre maledettamente puntuale, quasi come se fosse una maniaca.
Quando lei entrò in casa, Daniel accese automaticamente una sigaretta. Non avrebbe tollerato più di dieci minuti la sua presenza senza un po’ di sana nicotina. Anche se i termini «sana» e «nicotina» discostavano parecchio fra loro. Per uno scrittore, questi erano dettagli: bastava farcire il discorso di aggettivi ampollosi e fare ricorrente utilizzo delle più stravaganti figure retoriche, ed era fatta. La signorina Bradley ‒ santa donna ‒ gliel’aveva insegnato a tempo debito. Da bambino, non avrebbe mai accettato di raggirare così disonestamente la concorrenza, ma Daniel era cresciuto. La sua esperienza di Vita gli aveva aperto gli occhi.
«Ho saputo che hai scritto un brillante articolo sul The Guardian.[3]», sussurrò lei, con il suo tono fragile e remissivo e con il capo chino.
Daniel si divertiva troppo a stuzzicare la sua pudicizia, perciò le lanciò un’occhiata maliziosa. «Mai quanto le belle forme di Audrey Hepburn in copertina.»
Lei avvampò di colore e si zittì, probabilmente mordendosi la lingua per tacere e non inveire contro le oscenità che aveva appena ascoltato. «Hai venticinque anni, Daniel. Cambierai mai?», optò infine, con un’insopportabile mestizia nella voce. Quasi come se ci tenesse, a lui. Quasi come se aspettasse una mossa da parte sua.
Sarebbe mai cambiato?
No, niente da fare. Era diventato un’anima corrosa da troppi veleni, da troppo risentimento. Era diventato una tenebra vagante nell’oblio. Non poteva farci nulla.
Non scriveva più con la speranza che alimentava i suoi neuroni un tempo; scriveva con la malata assuefazione di un drogato, ormai fatalmente dipendente da quelle passioni e dannato a una vita di ‒ “orgoglio e pregiudizio”. Quello, ormai, era il suo destino, inciso nelle stelle del creato.
Ognuno dei suoi compagni aveva chiaramente affermato che si sarebbe volentieri portato a letto Emily: era bionda, carina, gentile e stava al posto che spettava a una donna. Praticamente perfetta, secondo loro. Inoltre, era terribilmente infatuata di lui: perfetta con bonus, osavano dire.
Daniel non la pensava in quella maniera: gli dispiaceva ferire i sentimenti di Emily con tanta brutalità. Il suo cuore era ormai andato quella sera d’estate di tanti anni prima: era stata una disgiunzione irrecuperabile. E doveva farglielo capire, con le buone o con le cattive.
Nulla, in Daniel, era rimasto come prima: ogni traccia di lui era attratto ancora da quella figura sconosciuta e indelebile che dimorava nella sua memoria. Lei era l’unica realtà che riusciva a distinguere: era presente nelle sue poesie, nei suoi articoli, nei suoi discorsi. Si era ridotta ad un’entità divina e irraggiungibile che ispirava le centinaia di opere che lui riusciva a produrre nella promessa dei ricordi di lei, che ogni volta animava il suo stilo conducendolo alla sua meta predestinata, che incitava i fluidi movimenti del suo polso sulla carta tiepida, che lo sospingeva quasi spontaneamente verso quei fogli scarmigliati. Nei suoi poemi cartacei, per nominarla aveva utilizzato una lettera piuttosto che un nome inventato come Beatrice o Silvia [4] ‒ non gradiva l’idea di rielaborarla come mero frutto della sua creatività, preferiva pensarla così com’era: l’elegante estranea che gli aveva abilmente estratto il cuore dal petto ‒ : l’aveva denominata semplicemente “X”, che nelle equazioni matematiche era la variabile indipendente, quella fine a se stessa. Lei. Per quanto riguardava lui, invece, s’era autoproclamato “Y”, poiché incarnava la variabile dipendente, inevitabilmente stregata da X e perciò obbligata a seguirla. Era uno schiavo d’Amore e ne era consapevole.
Non era concepibile tradire la propria Musa ispiratrice. Emily non poteva comprendere quel concetto ed era per quel motivo che ogni sera si rintanava mezza nuda nel suo appartamento con la prima scusa plausibile. Daniel la cacciava via o la lasciava dormire sul suo letto se si sentiva particolarmente generoso: dipendeva dal suo umore ‒ e da quanto era riuscito a scrivere nelle ore precedenti.
Quella non era una serata buona.
«Emily, onestamente ho tanto da fare, stasera. Non ho tempo per parlare con te.», mormorò, rivolgendo lo sguardo agli appunti sulla scrivania e riordinandoli a casaccio. Ci teneva a presentarsi dignitosamente, lui. Pensò all’impaccio che lo aveva bloccato durante il breve incontro con Lei: se lo avesse saputo, si sarebbe comportato diversamente in quel frangente. Magari avrebbe potuto apprendere frammenti di Lei. Magari non sarebbe scomparsa.
Le sue illusioni da pavido ragazzino si erano spezzate gradualmente, dopo anni di lenta meditazione riguardo al suo innocente Amore. Aveva presto capito che non l’avrebbe più rivista e non avrebbe potuto coronare il suo idillio immaginario: era una conclusione inevitabile. Di lei non sapeva né nome, né nient’altro. Sapeva soltanto che leggeva i libri per trovare un conforto verso le estraneità del mondo. E questo era bastato a conquistarlo.
Emily gli s’avvicinò di soppiatto, aggraziata come Daniel non l’aveva mai vista. «E chi ti dice che io voglia parlare?», sibilò lei, sfiorandogli con la mano nivea l’arco delle spalle e risalendo fino alla nuca. Il suo sguardo era caldo, invitante, come per incitarlo a sciogliersi nel suo.
Daniel la fissò, stupefatto: quella era la dolce, timida, pura Emily. Quella che tanti anni prima non aveva avuto il fegato di rivolgergli neanche mezzo saluto. Quella che era sempre stata pudica sino all’incredibile, avvolta nella sua aura di candore e d’innocenza. Quella che aveva la voce tremula e insicura, quasi come se fosse la creatura più vulnerabile del pianeta.
Quando Daniel si voltò, rimase sconvolto: la ragazza si stava spogliando. Indossava biancheria intima di pizzo vermiglio, che celava appena le grazie del suo corpo così giovane e florido che s’offriva languidamente ai suoi occhi. Tentò di non concederle la soddisfazione di soffermarsi a guardarla, ma non gli riuscì.
I suoi occhi ispezionarono senza discrezione le morbide curve dei suoi fianchi a clessidra, del suo seno candido e pronunciato, del collo sobrio da cigno, dei capelli biondi raccolti deliziosamente sotto la nuca, delle labbra piene corrugate in attesa di una sua reazione, delle gambe sinuose che scivolavano sul letto e che si riversavano sul materasso senza fretta e senza esigenze, del ventre piatto che si contrasse quando lei si abbandonò finalmente sulle lenzuola e le accartocciò tra le mani. Il messaggio era chiaro: aspettava solo lui.
Daniel constatò che Emily era davvero attraente come sostenevano i suoi coetanei, e di certo era perdutamente innamorata di lui e disposta a concederglisi anche subito. Lei lo voleva. Forse quanto lui voleva X.
Emily lo fissava vittoriosa poiché aveva compreso che lui aveva ampiamente apprezzato la sua esibizione, ma non le bastava. Aveva intuito che per imprigionarlo le serviva ben più che una semplice attrazione a livello fisico: doveva spingerlo a marchiarla del suo contatto, a imprimerla a fuoco nella mente, a sostituirla alla misteriosa fanciulla a cui lui aveva giurato assoluta fedeltà intellettiva. Doveva frantumare quella barriera mentale.
Daniel esitò, pensando a X e alle sue emozioni di un tempo, che le erano appartenute dalla prima all’ultima. Pensò a Lei, la meravigliosa donna di cui non conosceva nome o indirizzo. Pensò a Lei, che gli era apparsa davanti in un baleno ed era svanita altrettanto repentinamente. Pensò che aveva preteso per troppo tempo la realizzazione dei suoi sogni proibiti; pensò che fosse il tempo di seppellire in un cassetto il ricordo di quell’infantile ossessione e di concentrarsi sul presente.
Emily era molto diversa: non aveva la stessa leggiadria nei movimenti, né gli stessi occhi espressivi. Non era Lei.
Daniel rifletté sui suoi vecchi sogni di bambino e su ciò che era divenuto con il trascorrere degli anni: semplicemente, era stato a contatto con l’intollerabile pesantezza delle disillusioni, che lo avevano gradualmente sopraffatto e trasformato in un uomo avaro, superbo ed egoista. Si ricordava ancora del grande imbarazzo quando Le aveva parlato per la prima volta: si era sentito ingenuo, piccolo, inopportuno. Innamorato. Aveva sperato che Lei tornasse da lui in quegli anni, giusto per conversarci o per chiedergli consigli sui libri. Non era mai accaduto. L’incanto infantile si era spezzato sotto il suggello di quelle illusioni infrante. 
La magia del primo amore ‒ dopotutto ‒ consiste nel non sapere che esso può sempre finire [5].
Daniel sentì il suo cuore saltare qualche battito e strinse i pugni con ferocia. Oh, al diavolo!
Si buttò sul letto con arroganza e provò a ignorare ‒ da quel momento ‒ lo spettro demoniaco di X che lo fissava mentre cercava di ritrovare se stesso nel bel mezzo delle fiamme di passione che divampavano intorno a Emily.
 
 
 
 
«I know something is broken
And I’m trying to fix it
Trying to repair it
Anyway I can

 
Daniel Hewitt sposò Emily Singleton all’età di trent’anni. Il loro fu un matrimonio d’amore, sereno come in un idillio fiabesco. Negli anni a venire, ebbero tre figli di cui si occuparono con dedizione e affetto.
La loro figlia Amber, la primogenita, si sposò molto giovane ed ebbe la bellezza di cinque figli. Purtroppo, la nonna morì prima di veder nascere il terzo. Fu alla morte della moglie che Daniel posò per sempre la sua penna stilografica e ripose i suoi scritti in una cassaforte. Certi eventi ti strappano via quel poco di Vita che ti resta.
Solo com’era stato in gioventù, continuò a prendersi cura dei nipoti come meglio poteva.
 
La radio portatile trasmetteva vecchie canzoni italiane degli anni Settanta. Daniel non ne conosceva i titoli, ma rammentava che l’autore era Claudio Baglioni.
Suo nipote Terence stava scorrazzando allegramente per il viale, sorridente come sempre quando si trattava di andare in libreria con il nonno.
Daniel sfoderò un sorrisetto compiaciuto quando Terence lo attese per porgergli la manina. La strinse senza esitare, attingendo ad ogni briciolo di forza che gli restava – nonostante fosse ormai una pianta arborea appassita – , ed entrò.
Il luogo era lo stesso di cinquanta anni prima: regnava lo stesso odore di polvere e muffa, la stessa luce calda e ambrata, la stessa brezza che rendeva l’ambiente più piacevole e accogliente ‒ soprattutto in estate.
 
«Quella sua maglietta fina
tanto stretta al punto che mimmaginavo tutto
e quellaria da bambina
che non glielho detto mai ma io ci andavo matto.
E chiare sere destate, il mare, i giochi, le fate
e la paura e la voglia di essere nudi
un bacio a labbra salate, un fuoco, quattro risate
e far l’ amore giù al faro...
ti amo davvero, ti amo lo giuro, ti amo, ti amo davvero!» [6]
 
 
Daniel inspirò l’aroma frizzante delle pagine dei libri e lo comparò a quella serata di tante epoche prima. Gli sembrò di esser tornato all’ora di quell’incantesimo, quando lei gli era dolcemente apparsa davanti mostrandogli tutto il suo irresistibile fascino e ammaliandolo con le sue incredibili stregonerie.
Daniel rammentò lo scaffale presso cui lei gli aveva chiesto informazioni, e in cui lui, avvolto nella sua piccola bolla di fanciullezza, era stato rapito dall’avvento di quei brividi e di quei battiti implacabili.
Si smarrì nella memoria di quella calda serata in cui aveva scoperto l’Amore per la prima volta nella sua vita. Si sentì anche disgustoso a profanare così il ricordo di Emily, che gli aveva donato così tanto, che l’aveva amato così tanto. Quasi quanto lui aveva amato X.
 
«Quella camminata strana
pure in mezzo a chissacché lavrei riconosciuta
mi diceva sei una frana
ma io questa cosa qui mica lho mai creduta.
Le lunghe corse affannate
incontro a stelle cadute
e mani sempre più ansiose
di cose proibite
e le canzoni stonate
urlate al cielo lassù
Chi arriva prima a quel muro...
Non sono sicuro se ti amo davvero
Non sono... non sono sicuro...»
 
Daniel contemplò nella propria mente l’immagine di X. Una dea. Mentre era perduto fra i ricordi di quelle scene così brevi quanto significative, suo nipote lo raggiunse correndo.
«Nonno, laggiù c’è una signorina davvero graziosa, guarda!», strillò, giocoso come al suo solito, indicando una sagoma sbiadita in lontananza.
Daniel controllò mettendo a fuoco ‒ la vecchiaia si faceva ben sentire ‒ e rimase senza fiato. La sua X era lì, immortale nei suoi quattordici anni e vestita sempre con gonna e camicetta bianca, scintillante di splendore ultraterreno e di oltre.
Com’era possibile? Si sporse per osservare meglio, ma la sua identità era indubbia. Un’allucinazione? Si era forse immerso troppo nell’oasi del ricordo? Squadrò la fanciulla che gli sorrise con tutta la disponibilità del mondo. Aveva gli occhi blu oceano, gli stessi in cui Daniel, nel momento della necessità, aveva trovato l’Ispirazione.
Suo nipote la fissò con la stessa aria stregata che aveva colto il nonno in quella stessa libreria, cinquant’anni prima. Daniel, con autentico orrore nel volto, scosse la spalla del bambino, ma ormai era troppo tardi: era scoccata la magia, la solita che aveva lambito la sua stessa pelle e da cui non si era mai più risvegliato. La maledizione dellAmore.
La canzone di Claudio Baglioni accompagnò il tragitto della ragazza fra gli scaffali: era sempre all’affannosa e disperata ricerca di storie come la sua.
 
«Solamente adesso me ne sto rendendo conto
che lei era
un piccolo grande amore,
solo un piccolo grande amore
niente più di questo, niente più.»
 
La ragazza li raggiunse con passo armonioso e rivolse il suo riso divino soprattutto a Terence, che era ormai annegato nel dolce oblio dei sentimenti. Non gli parlò: si limitò a osservarlo con la sua espressione serafica, invitandolo ad addentrarsi nell’abisso di Vita che gli proponeva.
Terence, proprio come il nonno, non s’azzardò a rifiutarlo.
 
 
«Mi manca da morire
quel suo piccolo grande amore.
Adesso che saprei cosa dire,
adesso che saprei cosa fare,
adesso che voglio un piccolo grande amore...»
 
 
X, la Musa che Daniel aveva rimpianto per così tanto tempo, gli lanciò una piccola, rapida occhiata guardinga, prima di continuare la sua danzante malia per Terence. Gli stava probabilmente mostrando tutta la Vita che possedeva dentro di sé, sottoforma di fattezze d’angelo e aura fulgida di stelle.
Fu in quello spaccato di secondo che Daniel Hewitt capì.
Lo spirito dell’Ispirazione aveva inevitabilmente, mortalmente mietuto un’altra delle sue innocenti vittime.

 
 
 
 
 
Note dal testo (molto brevi):
[1] Springfield Road e Tottenham Hale sono due quartieri di Londra. Il secondo è particolarmente noto per essere la zona che conta la maggior criminalità di Londra.
[2] Citazione dal titolo del contest a cui la storia concorre: “Have you ever been in love?”.
[3] Il The Guardian è un quotidiano londinese.
[4] Beatrice e Silvia sono rispettivamente le donne celebrate da Dante Alighieri e Giacomo Leopardi nelle proprie opere.
[5] Citazione di Benjamin Disraeli.
[6] La canzone è “Questo piccolo grande amore” di Claudio Baglioni, del 1972.

 
Note dautrice:
Ave, lettori! Questa storia, scritta per il contest soprascritto, è stata sfornata in fretta e furia dopo un’assenza di una settimana causa vacanze. Perciò, non sono particolarmente sicura del risultato finale.
Mi è piaciuto molto scrivere su questo personaggio-scrittore, Daniel Hewitt: mi ha rammentato, almeno, un po’ di me stessa. X&Y è indubbiamente una canzone dalla musica ipnotica, e mi è sembrata senz’altro perfetta per celebrare questo primo amore. X è lei; Y, che dipende da X, è lui. La cosa interessante è che possiamo associare la X anche al cromosoma femminile e Y a quello maschile.
Il nome del protagonista è un po’ un mix: Daniel come il mio adorato Daniel Sempere, uscito dalla divina penna di Carlos Ruìz Zafón; Hewitt ispirato da Rose Dewitt Bukater, di Titanic. Destinato all’amore sin dall’origine, insomma.
Mi aspettavo tutt’altro risultato dall’ispirazione che mi era sopraggiunta, devo ammetterlo. Speriamo che non sia così tanto orribile, dai.
Credo proprio che a breve riprenderò questo personaggio e scriverò ancora su di lui ‒ o forse sarà uno spin-off di qualche parente, chi lo sa. Inoltre, v’informo che riprenderò l’altra mia Long interrotta da anni, Amethyst Over Time, poiché avevo perso tutto il materiale sul PC: mi sono armata di tanta, tanta pazienza e sto riscrivendo tutto. In tema Coldplay, back to the start.
Ringrazio la giudiciA per il bel contest che ha indetto [e per il pacchetto che mi ha seriamente stregata] e tutti coloro che leggeranno questo piccolo brano e si fermeranno a recensire.
Il banner è ad opera della giudiciA, Jadis_, perciò la ringrazio anche sotto questo punto di vista. Sta provvedendo pure a ridimensionarlo! ^^
Ringrazio segretamente perfino il mio fidanzato, che si è comportato con me proprio come Daniel con la sua X ‒ e ancora m’interrogo su come sia possibile. Sono fortunata ad averti ‒ so che prima o poi leggerai ‒ t.a.
A presto,
Mary
   
 
Leggi le 3 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Romantico / Vai alla pagina dell'autore: Mary_la scrivistorie