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Autore: Tary Prince    15/07/2016    0 recensioni
Un caso di stregoneria degenera in un processo di massa e un uomo viene scelto per giudicare quale sia la verità. Sul suo cammino troverà una donna e la sua storia che lo porteranno a riflettere.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Il corridoio che il magistrato stava percorrendo era lungo e poco illuminato ed era capace di incutergli un lieve disagio ogni volta che vi si recava, nonostante ciò avvenisse spesso. In aggiunta a quella spiacevole sensazione c’era la stanchezza accumulata in quella particolare giornata: l’intera città era in subbuglio da qualche tempo ovvero da quando un gruppo di donne erano state arrestate con l’accusa di stregoneria. Mai in tutta la sua vita l’uomo aveva visto tanta gente affollata davanti la prigione ad urlare all’unisono come se avessero dovuto lacerarsi i polmoni, chiedendo che il male fosse scacciato lontano dalle loro case. Sembrava quasi che fossero ubriachi o che una specie di isteria li avesse contagiati tutti, come un morbo infettivo. Ed era stata la loro voce che aveva costretto il magistrato a svegliarsi e a uscire presto di casa quella mattina, essendo stato convocato a interrogare alcune delle accusate. Fino a quel momento, molte di loro erano già state scagionate dopo aver fatto pubblica ammenda delle proprie colpe, ma ancora ve ne erano quattro o cinque che continuavano a rifiutarsi di confessare. E così, dopo aver passato diverse ore a studiare i capi d’accusa, l’uomo si era diretto nella prigione dove erano state rinchiuse. Il sole fuori era vicino al tramonto, quando aveva finito il giro di tre prigioniere che avevano particolarmente frustrato la pazienza del magistrato dato che si erano rifiutate di aprire bocca e ora si stava recando dalla quarta. Il suo umore era reso ancora più fosco dal presentimento che anche quest’ultima sarebbe stata un buco nell’acqua. Finalmente si trovò davanti alla porta di legno massiccio dietro la quale si trovava l’imputata e aspettò che la guardia tirasse fuori la chiave e la spalancasse, lasciandolo passare. Il magistrato mise lentamente un piede dentro la cella. Per quanto sembrasse impossibile, quei pochi metri quadrati erano persino più bui del corridoio, ma non era quell’aspetto che colpì inizialmente il nuovo visitatore. Prima che gli occhi si fossero abituati all’oscurità, era stato il naso a captare segni di una presenza all’interno della stanza dove aleggiava un odore pungente di sporco e urina.
“Porta qui un lume” ordinò alla guardia che eseguì prontamente, mettendogli in mano una piccola lanterna di ferro.
Potendo finalmente vedere, il magistrato avanzò all’interno della cella, si congedò dalla guardia e chiuse dietro di se la porta. Cominciò ad osservare lo squallore di quelle pareti completamente spoglie, così uguali a quelle delle altre celle, e vide che il pagliericcio che fungeva da letto era completamente vuoto. Proprio quando si stava chiedendo dove fosse finita la prigioniera, sentì alla sua destra il suono di movimenti e un mugolio. Si voltò lentamente, dirigendo il raggio di luce della lanterna in quella direzione e finalmente vide la donna.
Ad un primo sguardo poco attento, si sarebbe detto che in quell’angolo ci fosse solo un mucchio di stracci sudici, ma in quel momento una vita si stava muovendo sotto di essi. A poco a poco, un volto cominciò a mostrarsi, anche se poco di esso era rimasto integro. I capelli erano sudici e sbiaditi, bocca e naso erano brutalmente tumefatti, ma a colpire l’uomo furono gli occhi della donna che apparivano vuoti e inespressivi. C’era qualcosa di animalesco in quello sguardo, come se non fosse guidato dal pensiero, ma dall’istinto.
“Koch Anna?” esordì l’uomo. La donna non gli diede alcuna risposta, ma continuò ad osservarlo, come se il suo nome fosse stato detto in una lingua a lei sconosciuta.
Il magistrato proseguì: “La pregherei di spostarsi da lì e di rispondere alle mie domande”. Stavolta le parole sortirono un effetto perché la donna scivolò con lentezza verso il pagliericcio e si accomodò lì, senza però guardare più l’uomo, quasi avesse perso ogni interesse verso il nuovo arrivato. Dai movimenti fiacchi e incerti, il magistrato comprese che non solo il viso, ma anche il corpo doveva presentare segni di altre percosse.
“Vorrei che adesso lei collaborasse con me, in modo che io possa concludere subito il mio dovere. So che è già stata interrogata, ma che fino a ora si è rifiutata di confessare, quindi io le riproporrò le stesse domande dei miei colleghi e la pregherei di non prolungare ancora la sua sofferenza. Lei è Anna Koch, di anni 27, vedova di Gustav Koch e madre di tre bambini?” La donna assentì lievemente con il capo.
“Preferirei che rispondesse ad alta voce” disse il magistrato, ma stavolta senza risultato. Decise di non insistere e andò avanti.
“Lei è stata accusata da fonti che preferiscono rimanere anonime di aver messo in pratica atti stregoneschi, di fornicazione con il demonio e di aver volontariamente provocato la morte di uno dei suoi vicini, se non addirittura quella del suo stesso marito. Come risponde a questi capi di imputazione?”
Anna Koch rimase impassibile.                                                          
“Mi ha sentita?”
La donna annuì.
“Può parlare?”
Secondo sì.
Spazientito da quello che avvertiva come un gesto oltraggioso nei suoi confronti, il magistrato strizzò gli occhi e strinse convulsamente le mani, prima di esplodere.
“Sarò chiaro, non ho intenzione di perdere altro tempo con lei, dopo che la mia pazienza si è completamente esaurita con le sue compagne, e sono pronto a ridarla in pasto ai miei colleghi se non si deciderà a rispondere alle mie domande!”
Il silenzio che seguì le sue parole lo esasperò.
“Bene” proseguì, controllando la rabbia che c’era nella sua voce “allora io qui non ho niente da fare”. E senza aggiungere altro, si voltò e aprì la porta per uscire.
“Aspetti”.
Quella singola parola era stata pronunciata piano e con voce strozzata, ma era comunque arrivata all’orecchio dell’uomo. Con calma, il magistrato richiuse la porta e tornò a guardare Anna Koch.
“Adesso ha intenzione di parlare con me?”
“Si… Lei come si chiama, signore?”
Ogni sillaba sembrava costarle un grande sforzo e dava l’impressione che non parlasse con un altro essere umano da diverso tempo. La domanda spiazzò il magistrato che rispose bruscamente: “Non sono obbligato a dirle il mio nome”.
“Perché no? Pensa che quando lo saprò, lo userò per lanciarle qualche maleficio?”
Adesso non sembrava più la creatura vuota e spaventata di pochi istanti prima, ma gli occhi le si erano dilatati e mostravano una scintilla di vitalità.
Il magistrato non gradì quell’esplicita ironia, ma preferiva continuare a discutere con lei, piuttosto che farla chiudere di nuovo nel suo mutismo.
“Se io le dicessi il mio nome, lei sarebbe in grado di farmi del male con l’aiuto del demonio?”
“Lei non mi sembra il tipo di persona che crede in queste cose o sbaglio?”
“Non ha alcuna importanza quello in cui io credo o non credo… E cosa le fa pensare che io non creda nella stregoneria?”
La donna abbozzò un mezzo sorriso, privo di gioia. “Perché lei è il primo che viene in questa cella senza essere accompagnato da un prete e che mi parla senza timore. Perché io l’ho capito, sa? Facevano la voce grossa e mi picchiavano fino a farmi svenire, ma avevano paura. Per quanto lo nascondessero avevano tutti paura di me”.
“Ha ragione” disse il magistrato “io non ho paura”.
“Allora mi dica il suo nome”.
Decise di cedere: “Frederik Thyghesen”.
“Lei ha figli?” insisté Anna Koch.
“Basta così. Non sono venuto a fare conversazione, sono venuto ad interrogarla”.
Il magistrato inasprì il tono, per ristabilire la sua autorità, ma Anna Koch non parve particolarmente impressionata.
“Lei confessa di essere una strega o di aver comunque avuto a che fare con le forze del diavolo? E lo ha fatto in maniera consapevole o inconsapevole?”
La donna soppesò la risposta per un po’ e disse: “Io sono una buona cristiana, glielo posso giurare”.
“Questa non è la risposta più giusta alla mia domanda. Anche i bravi fedeli possono essere irretiti dalle lusinghe delle forze oscure. Lei, quindi, afferma di aver lavorato con Satana contro la propria volontà?”
“Perché deve dare per scontato il fatto che io sia colpevole? Non potrei essere semplicemente innocente?”
La domanda era sferzante, anche se era stata pronunciata con stanchezza.
“No, perché abbiamo molti testimoni che giurano di averla vista nell’atto di evocare forze sovrannaturali” ribatté Thyghesen.
“Ma certo” assentì Anna Koch, senza alcun sarcasmo.
L’atmosfera era cambiata, il magistrato adesso non sentiva più la stanchezza, ma provava solo una certa curiosità verso quella donna che parlava così bene.
Il magistrato si avvicinò per osservarla meglio e le chiese: “Chi è lei? Che cosa mai ha combinato per arrivare fin qui?”
La donna emise un sospiro afflitto e poi iniziò a parlare.
“Sono stata la prima di quattro figlie e mio padre, per l’affetto che aveva per me, mi insegnò a leggere, a scrivere e mi diede qualche nozione di matematica. Mia madre non era d’accordo, diceva che non erano cose adatte ad una ragazzina, che mi avrebbero portato alla perdizione e se potesse vedermi oggi, probabilmente ne avrebbe avuto la conferma. Eppure, all’epoca, io non le credevo: come potevano essere pericolosi quei libri pieni di parole? Ho sempre adorato le storie. Qualche anno dopo, a sedici anni, sposai Gustav e a ventitré ero già vedova”.
Sospirò nuovamente, ma la sua voce si riempì di rabbia.
“Lei cosa pensa che avrei dovuto fare a quel punto?” disse, con un’aria di sfida.
“Suo marito non le aveva lasciato nulla? Nessuna rendita?”
“Mio marito era un commerciante, il denaro andava e veniva in casa nostra. Il tempo necessario per vendere la merce, che già il guadagno andava via per comprarne dell’altra”.
“Capisco”.
“No, non può capire, invece, perché lei è una persona che ha avuto la possibilità di studiare e non sa che vita è quella. E non può nemmeno capire cosa significhi vedere la propria sopravvivenza nelle mani di qualcun altro, qualcuno che un giorno può morire, lasciandosi alle spalle una scia di dolore e disperazione. È una colpa la mia se ho cercato di salvare me e i miei figli dalla miseria?”
Il magistrato si mostrò confuso: “Ma questo cosa dovrebbe centrare con l’accusa di stregoneria?”
“Ora arriverò a spiegarle anche questo. Scommetto che nessuno le ha detto che prima di essere imprigionata avevo preso le redini dell’attività di mio marito e che ero riuscita a trasformarla in una piccola fortuna…”
“Effettivamente, lo ignoravo” ammise Thyghesen.
“Immaginavo, altrimenti una persona come lei avrebbe già compreso il finale del mio racconto”.
“E le altre donne?”
“Finché il mio lavoro bastava semplicemente a sfamare la mia famiglia, a nessuno importava nulla, ma quando iniziai ad espandermi, allora molti nasi cominciarono a fiutare il pericolo. La corda si spezzò quando ebbi l’idea di creare una corporazione di sole donne, vedove per lo più, per i commerci. Era qualcosa che molti non potevano assolutamente accettare”.
“Quindi lei pensa che le accuse vengano dai suoi rivali nel lavoro?”
“Io non lo penso, lo affermo con tutta me stessa!”
“No! A questo punto non posso continuare a credere alle sue parole!”
“Perché no?”
“Avrebbero cercato di ucciderla solo perché ha un’attività sua?”
Anna Koch scosse la testa in segno di diniego. “Lei non sta focalizzando il problema fondamentale”.
“Che sarebbe?”
“Io sono una donna. È questo il mio vero crimine, l’unico atto di cui sono veramente colpevole”.
Thyghesen ebbe il pudore di restare in silenzio. Adesso capiva e riusciva a “focalizzare il problema” come diceva Anna Koch. Era vero, nessuno uomo tra i suoi concittadini, né tra quelli della nazione o del mondo poteva accettare quel fatto, ovvero che una donna potesse non tanto superarli, ma eguagliarli. Un gruppo di donne che si mettono in affari in proprio era una preoccupante minaccia, più spaventosa e concreta del diavolo stesso.
“Perché sta raccontando a me questa storia?” le chiese.
“Lei è il primo che mi sta ascoltando”.
“Lo sa che io non posso fare niente, vero? Aver convinto me non significa che lei abbia conquistato la libertà. I miei superiori mi hanno mandato qui con l’ordine di strapparle una confessione a tutti i costi”.
“Sapevo già che sarei morta nel momento in cui vennero a prendermi a casa per rinchiudermi qui”.
Il magistrato abbassò lo sguardo, incapace a fissare ancora i suoi occhi.
“È così, no? Hanno già deciso che morirò”.
“Potrebbe conservare la sua vita se farà come le altr…”
Anna Koch lo bloccò prima che potesse finire: “Non mi inginocchierò più, non dopo tutto quello che ho passato”.
Thyghesen comprese che non c’era più nulla da dire per far cambiare idea a quella donna. Da parte sua poteva solo cercare di rispettare quella scelta.
“Mi dispiace” le disse.
“Lei ha figli?” domandò Anna Koch per la seconda volta da quando avevano iniziato a parlare.
“Ne ho due, due maschi”.
“Bene” proseguì la donna “allora, invece che dispiacersi, mi prometta che un giorno parlerà di me e delle mie compagne ai suoi bambini e lasci che siano loro a giudicare”.
  
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