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Autore: micavangogh    16/07/2016    0 recensioni
《Essere veri è l'unico compromesso.》
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"Là fuori si predica tanto la teoria dell'essere veri.
Del mostrarsi se stessi.
Io l'ho fatto, ed eccomi quà.
Quindi ora dimmi,
ne vale davvero la pena?"
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"E dimmi quindi, ti ricordi di chi eri?
Ricordi niente della persona che eri prima che il mondo ti dicesse chi saresti dovuto essere?"
Genere: Drammatico, Malinconico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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Una luce fioca illumina la mia stanza, simbolo che il sole stamattina è tanto forte da riuscire a sorpassare anche le immense tapparelle con grate che sbarrano la mia finestra.

Ho sempre odiato le giornate solari, ma adesso non sono più un problema. Sono pochi i posti dove, qua dentro, la luce del sole riesce ad intrufolarsi. 

Afferro le pastiglie accatastate su un piattino, in cima al mio comodino e le ingoio con un po' di acqua.

Come al solito, prima di scendere mi fermo a guardare la camera. La mia stanza, la 103.

L'intonaco di un verde spento era visibilmente fresco e le finestre con grate dal metallo scintillante erano simbolo che era una delle camere nuove. Solo il modesto mobilio (un armadio, un letto, un comodino e una sedia), trasudavano un che di antico. Probabilmente erano state "offerte gentilmente" da un qualche perbenista dall' animo puro che era la fuori.

Mi tolsi la vestaglia bianca, gettandola sulla sedia e mi misi la tuta standard per i pazienti.

Ancora non avevo capito il motivo per il quale non ci potessimo mettere un semplice paio di jeans con una maglietta colorata. Temevano forse che qualcuno di noi andasse in giro a strangolare gente con il tessuto in denim? Stronzate, dopo li avremmo dovuti buttare e siamo piuttosto tirchi, noi matti.

Quando scesi alla mensa, poca gente era già giù, erano appena le sei del mattino e la metà dei ricoverati lì o si era appena addormentata, o ancora non aveva chiuso occhio dalla sera precedente. 

La tizia della camera 79 aveva il vassoio pieno di biscotti, come al solito. Certo, per i biscotti che ci rifilavano, c'era da premiarla per il coraggio.

Il ragazzo della 53 era già dietro ad improntare una discussione con quello della 52. Problemi di suddivisione territoriale del corridoio, probabilmente. Ora che quelli della 54 e 55 se n'erano andati e quello della 56 era stato portato in ospedale per overdose, il mini-corridoio, comprensivo di bagno, se lo contendevano loro.

Niente di nuovo. Acciuffai un vassoio e presi il solito toast vuoto con il Thè senza zucchero e limone. 

Trangugiare quel liquido bollente, quasi insapore, mi permetteva di calmarmi, almeno temporaneamente.

Era domenica, la giornata in cui i parenti venivano a far visita ai ricoverati e non c'era giorno migliore per chiudersi in camera a leggere un libro. 

Quando credevo di essere sfigata ero solita a pensare a tutta quella povera gente chiusa lì dentro, cui conoscenti venivano a trovarla, con i loro sorrisi ipocriti e pieni di pietà, e subito ringraziavo per essere rimasta sola.

Quando mi alzai dal tavolo era già passata una buona mezz'ora e la sala si stava riempiendo.
Mi diressi verso le scale, una voglia immensa di chiudermi in camera e non uscire per il resto della giornata.
Passando davanti all'atrio mi accorsi che c'era del movimento, quella mattina, il che era strano, dal momento che le visite erano programmate tra le tre e le cinque del pomeriggio.

Mi avvicinai alla porta di ingresso, i raggi del sole che si facevano strada tra la fessura del portone semi-aperto mi accecarono, ricordandomi da quanto tempo non venissi a contatto con luce che non fosse artificiale.

Ero solita ad uscire nel giardino che circondava l'edificio solo alla sera, quando il lieve bagliore della luna si confondeva con le luci dei lampioni che circondavano la recinzione. 

All'esterno si intravedeva una famigliola, madre, padre e sorella di circa cinque anni, non di più, che cercava di apparire rilassata, nonostante la loro postura rigida tradiva la reale preoccupazione che si celava dietro di loro.

In mezzo a loro c'era un ragazzo, gracile, la carnagione pallida e i capelli folti e neri ricadevano in ciuffi disordinati sulla fronte, coprendone quasi completamente gli occhi. La maglietta, che era a maniche lunghe nonostante la temperatura di quel giorno, gli ricadeva grande sulle spalle, senza lasciare alcuna traccia definita del suo fisico. Anche i Jeans, evidentemente troppo grandi per la sua corporatura, non lasciavano dedurre altro oltre che la fragilità di quel corpo.

Un'infermiera, la dottoressa Sallivan, dedussi dalla postura un po' curva e goffa, congedò la famiglia e condusse verso l'ingresso il ragazzo.

La famigliola rimase ancora un po' sulla soglia del cancelletto, fino a che il ragazzo non sparì tra le mura dell'edificio, ma lui non sembrò prestarne attenzione. Non disse una parola. Seguì la dottoressa ed andò a posare telefono e un coltellino svizzero, che estrasse dalla tasca, nella scatola degli oggetti vietati alla reception. 

Nel frattempo mi ero spostata verso le scale che conducevano al piano di sopra, per dare meno nell'occhio, ma il mio piano fallì miseramente dal momento che, mentre feci per prendere le scale e tornarmene in camera, la dottoressa Sallivan mi immobilizzò con il suo vocione 

"Courtney, dato che, da quanto vedo, stamattina non hai molto da fare, non ti dispiacerà accompagnare il signor Barklin alla sua camera"

Con riluttanza girai gli occhi al cielo e dopo di che mi diressi verso di lei, che mi posò in mano le chiavi

"certo, nessun problema"

"immaginavo" disse trattenendo un ghigno "camera 106, posso sperare che tu lo porti dove devi senza fare altri casini, vero?"

"ci può giurare" dissi, senza troppa convinzione. 

"Andiamo matricola" dissi al ragazzo, che nel frattempo non aveva dato il minimo cenno di aver ascoltato minimamente i nostri discorso.

Ci dirigemmo alla sua stanza, che stava esattamente tre porte più avanti della mia.

Posò i pochi oggetti che aveva portato e dopo di che si girò a fissarmi.

Aveva spostato con un gesto svogliato il ciuffo che prima gli si posava sul viso, scoprendo così i suoi occhi marroni intensi.

Sentivo il suo sguardo spostarsi sul mio corpo, simile a dita gelide che tracciavano le mie curve.

All'improvviso fui colpita da uno strano senso di disagio, il senso di strafottenza che avevo verso di tutti mi abbandonò in quel preciso istante, facendomi sentire nuda davanti a quello strano ragazzo.

"io.. sono Courtney comunque" dissi spezzando il silenzio che si era calato in quella camera.

"Sono nella camera 103 se hai bisogno di qualcosa... io...ora vado, buona permanenza"

E mi diressi in camera. La mente dominata da quel viso scarno e avorio e quegli occhi marroni che non trasmettevano calore.

Il pomeriggio sembrò non terminare più. Tentai di leggere un libro, ma non ci riuscii. I brusii delle voci che si diradavano per l'edificio e quello sommesso dei miei pensieri non mi permettevano di concentrarmi nella lettura.

Alle sette ero pronta per scendere per la cena, nonostante non avessi fame, era un altro il motivo per cui mi stavo indirizzando giù. Quel giorno, quando accompagnai quello strano ragazzo in camera, lessi il foglio su cui erano appuntati gli orari delle medicine.

Ore 19.00, infermeria, da dirigersi prima della cena.

Io stessa non conoscevo precisamente il motivo per il quale mi stessi ostinando così tanto al rivederlo. 

Provavo per quel ragazzo un senso di curiosità e, il fatto che fosse così riservato, incentivava ancora di più il mio desiderio di scoprire di più sul suo riguardo.

Prima di varcare la soglia della porta che divideva la mia camera dal buio corridoio mi specchiai.

Non lo facevo da tempo, quasi non riconobbi il riflesso che vidi all'interno dello specchio che posai dietro l'armadio tanto tempo prima.

I capelli neri lunghi mi ricadevano sulle spalle, seguendo poi le curve del mio corpo. Erano crespi, disordinati e pieni di doppie punte, ma non me n'era mai importato fino a quel giorno. Decisi che il prima possibile avrei chiesto di farmi accompagnare dalla parrucchiera per sistemarmeli.

Ero dimagrita abbastanza, nonostante non mi mancassero le curve e il viso non fosse per niente scavato, a differenza di molta della gente che era ricoverata li.

Gli occhi marroni grandi avevano sempre la stessa padronanza che avevano una volta sul mio viso, che aveva però perso quella carnagione rosata, che se n'era andata lasciando il posto ad una biancastra, quasi malata.

La maglietta che indossavo, troppo lunga e larga per me, mi ricadeva sulle ginocchia, facendomi sembrare più grossa di quello che ero. Nonostante da quando ero entrata in quel luogo, fino a quel momento io non mi fossi mai preoccupata di come potessi apparire agli altri, l'incontro di quel pomeriggio aveva cambiato qualcosa.

Mi feci un nodo con un'estremità della maglietta in vita, misi un poco di lucida labbra rosa, unico trucco che possedevo, sulle labbra violacee e finalmente, scesi.

Contai i passi che feci prima di arrivare davanti alla mensa, come mi era d'abitudine.

345. Come ieri, ma meno della settimana prima, meglio così.

Accanto all'immensa sala che era la mensa dell'istituto, c'era un piccolo corridoio che collegava il resto dell'edificio a due sole stanze. L'infermeria e una strana stanza il cui ingresso era ammesso esclusivamente al personale.

Non vedendo nessuno, mi sporsi un po' di più per vedere se c'era qualcuno, quando vidi uscire il ragazzo dall'infermeria. Si era cambiato, mettendosi la solita tuta monotona che indossavamo tutti, lì dentro.

Notando che ormai mi aveva visto fissarlo, per non sembrare più psicopatica di quando effettivamente fossi e fargli notare che un po' il controllo delle mie facoltà ancora lo avevo, mi avvicinai a lui 

"ehi ciao" cercai di mostrare un minimo di disinvoltura, apparendo così, probabilmente, più goffa di quanto già realmente fossi

Fu solo un piccolo cenno del capo a rispondermi. I suoi occhi puntati sui miei. Quegli occhi così comuni, che non lasciavano trasparire alcuna emozione, ma al contempo unici.

"Courtney, cosa ci fai qua? Non è il tuo turno delle medicine"

Fu la voce severa e autorevole della signora Martin, invece, a sorprendermi e a farmi uscire dal mondo confuso dei miei pensieri, questa volta.

"ehm..si...no...cioè, volevo dire, ho un forte mal di testa e avrei bisogno di una pastiglia"

"mm...non sarà uno dei vostri soliti trucchetti per prendere una qualche pasticca, vero?" mi guardò con uno sguardo canzonatorio, che per un attimo mi fece pensare di lasciar perdere e filarmene a cena.

Ma volevo evitare di passare per una stalker, dato che matta già effettivamente la ero.

"nono la assicuro. Mi sarò ammalata con il cambio di stagione. Sa com'è, caldo, freddo, caldo, freddo, è un attimo beccare un raffreddore" feci finta di starnutire, apparendo probabilmente ancora più ridicola.
Mi sembrò di sentire da dietro l'inizio di una risata, ma non ne fui sicura.

"ma se non esci mai, a parte che la sera una volta alla settimana come massimo.
Su su, vai a mangiare che gli spaventa passeri non piacciono a nessuno" mi disse ammiccando verso il ragazzo, che nel frattempo non si era spostato da dove l'avevo visto l'ultima volta.
In quel momento ero sicura di aver preso la colorazione di un pomodoro in piena estate "se proprio vedi che non passa, questo tuo "mal di testa", vieni qua mezz'oretta prima del tuo turno. Ora fila, che si sta formando la coda".

Così mi voltai, una ventina di persone si stava recando al banchetto per il loro turno di impasticcamento.

Il ragazzo, di cui ancora non sapevo il nome e di cui il cognome che aveva pronunciato al suo arrivo la Sallivan mi ero scordata completamente, era andato via.

Dopo essermi guardata un'ultima volta attorno, mi diressi finalmente alla mensa.
   
 
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