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Autore: Kira Eyler    17/07/2016    8 recensioni
[Storia scritta in collaborazione con l'autrice felinala!]
"Emi non era mai stata una persona che si spaventava facilmente. Dopo gli orrori a cui era abituata, provati sia dentro, sia fuori l'orfanotrofio, non bastavano un film Horror o una storiella di paura sul posto in cui viveva a spaventarla.
Eppure, le storie che raccontava la sua compagna di stanza,[...], Sakura, sul nuovo bambino che era arrivato in orfanotrofio la spaventavano eccome: tutti i bambini dicevano che spesso lo si poteva trovare a parlare con qualcuno di invisibile e altri, addirittura, dicevano che lo vedevano parlare con un'ombra nera molto alta e magra.[...]
[...] Si vocifera però che nelle notti di luna piena, si vede un ombra scura, allampanata, allontanarsi dalla stanza del delitto, cercando chissà cosa."
Genere: Demenziale, Horror | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
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La stanza

Emi non era mai stata una persona che si spaventava facilmente. Dopo gli orrori a cui era abituata, provati sia dentro, sia fuori l'orfanotrofio, non bastavano un film Horror o una storiella di paura sul posto in cui viveva a spaventarla. 
Eppure, le storie che raccontava la sua compagna di stanza, che oramai era diventata come una sorella minore per lei, Sakura, sul nuovo bambino che era arrivato in orfanotrofio la spaventavano eccome: tutti i bambini dicevano che spesso lo si poteva trovare a parlare con qualcuno di invisibile e altri, addirittura, dicevano che lo vedevano parlare con un'ombra nera molto alta e magra. Chi dormiva con lui, parlava di strani fenomeni che avvenivano nel cuore della notte: spesso si svegliavano e lo trovavano a scrivere sui muri frasi senza senso oppure rannicchiato ai piedi del letto di un altro bambino, sempre lo stesso: Akihiko, soprannominato da tutti Aki. 
Lei, da ragazza più grande, doveva cercare di far cadere quelle leggende sul bambino, anche perché era stanca di trovarsi ogni notte moltissimi bambini radunati nella sua stanza. Organizzò allora una serata dove, in camera sua, tutti i bambini, compreso ‘quello nuovo’, dovevano raccontarsi delle storielle inventate sul momento a turno.
Qualcuno raccontò di fate, molti bambini maschi di draghi e altre cose infantili; tutto normale, pensò Emi. Normale rimase fino a quando non toccò al ‘bambino strano’, che spaventò tutti i suoi ‘amichetti’, seppur senza volerlo.
“Il signore che sta sempre con me dice che mi porterà via da questo posto insieme a lui. Per farlo, però, io devo uccidere qualcuno di voi in un modo particolare e strano” 
Queste furono le sue parole, pronunciate con il solito tono ingenuo da bambino. 
Alle grida spaventate dei bambini, Emi gli urlò impulsivamente di tornarsene in camera sua e di dormire da solo: non aveva mai fatto la sorella maggiore, ma quel bambino le metteva addosso una paura tremenda, aumentata dal fatto che il direttore dell'orfanotrofio potesse scoprirla insieme agli altri bambini. Il bambino obbedì dopo aver gettato un'inquietante occhiata su Aki, il quale rabbrividì all'istante; tutti, dopo essersi calmati, decisero di dormire nella stanza di Emi; lei quella volta non rifiutò, perché il bambino aveva spaventato anche lei. 
Il giorno dopo, Emi fu svegliata dalle grida dei bambini e da Sakura che la scuoteva violentemente per svegliarla; la ragazza si coprì la testa col cuscino, serrando gli occhi azzurri, mentre Sakura continuava a chiamare il suo nome urlando, così come tutti gli altri bambini. Un forte odore di sangue le arrivò alle narici e alzò di scatto la testa, facendo ondeggiare i numerosi boccoli biondi. Mise una mano davanti al naso e si mise a sedere, osservando gli altri bambini tutti ai piedi del suo letto. 
Confusa alzò gli occhi sul soffitto, meta principale degli sguardi di tutti gli altri, e solo grazie al suo orgoglio riuscì a trattenere un grido di orrore.
Aki era appeso al grande lampadario del soffitto con il suo intestino legato intorno al collo. La pancia era completamente aperta e una grande cascata di sangue cadeva sul pavimento bianco, sul quale vi erano anche il resto dei suoi organi dell'apparato digerente; a contornare il tutto, sul viso paffuto vi era un'espressione di puro terrore. 
Il ‘bambino strano’ era seduto sotto la finestra, con le ginocchia strette al petto e un broncio sul volto; accanto a lui vi era un coltello da cucina insanguinato. Guardò tutti i bambini, Emi, e infine il bambino appeso al soffitto, poi parlò: 
“Non voleva portarmi con lui, voleva portare Aki” disse, senza un briciolo di dispiacere nelle voce. 
Emi scosse la testa incredula, mentre Sakura corse a chiamare il direttore dell'orfanotrofio. La bionda guardò il bambino appeso al soffitto;  proprio allora l'intestino, che lo teneva sospeso come un cappio, non resistette ancora al peso del cadavere e si ruppe, facendo cadere Aki sul suo sangue e sui suoi organi con un rumore terribile.
Il silenzio si protrasse a lungo dopo la caduta del cadavere; perdurò in effetti fino a che il direttore, un pingue omino sulla cinquantina, calvo, non fece il suo rumoroso, trionfante ingresso nella stanza del delitto.
Ci mise solo cinque secondi l’uomo per fare il punto della situazione.
Dopodiché… svenne platealmente.
Basita, Emi lo osservò andare giù come un pero e, se è vero che di certo una parte di lei non lo biasimava per tale reazione, parte di lei continuava a meditare con sarcasmo pensieri non esattamente comprensivi; “ma guardalo il borioso tipastro: è bastato un po’ di sangue per farlo cadere come una femminuccia!” pensava il secondo prima e poi: “e che non lo ha visto quando era appeso! Lì si che faceva il suo bell’effetto… cadaverico! A testa in giù il grosso del danno non si nota nemmeno visto che la pancia squartata è coperta…” pensava l’attimo dopo la donzella dai folti capelli d’oro.
Ma le decisioni importanti dell’orfanotrofio non spettavano a lei che ne era una semplice ospite, bensì al borioso e svenevole direttore; e così fu presa la decisione più sbagliata in assoluto: “Sgomberate la stanza! La farò ripulire in seguito, ora tutti fuori, e che la stanza resti chiusa a chiave finché non arriveranno gli addetti alle pulizie!” affermò vossignoria asciugandosi la pelata con un fazzoletto.
E così fu.
La stanza venne sgomberata, le tre ragazze che dividevano la camera incriminata furono spostate con i loro averi in altre stanze e il cadavere aspettò solo soletto il suo destino.
Nel mentre, lo strano ragazzino che aveva compiuto il gesto efferato, se ne stava alla finestra, osservando il tempo e la gente che scorrevano sotto di lui; tutti erano troppo impauriti da quel piccolo, freddo essere che aveva ancora l’arma del delitto, quel coltellaccio sporco di sangue e pezzi di intestino, ancora accanto. Così lasciarono anche lui dentro alla stanza, in modo che tenesse compagnia al cadavere, e chiusero a chiave l’orribile inquietante luogo.
Ora, come ogni buon assassino, ma soprattutto come ogni buon schizzinoso assoldatore di imprese di pulizia dovrebbe sapere, le citate imprese di pulizia, mal accolgono una chiamata, se dentro alla richiesta di accorrere, vi è specificata la presenza di un cadavere e delle sue interiora ancora fresche di uscita; fu infatti l’increscioso ritardo, dovuto all’oggettiva difficoltà nel trovare qualcuno che raccogliesse i poveri resti, che provocò la scena che resterà nella memoria di chi è sopravvissuto per il resto dei suoi giorni.
Tre giorni occorsero al disperato pingue direttore per trovare delle persone che, seppure riluttanti, si occupassero della stanza del delitto; tre giorni in cui, per il volere della legge dell’orfanotrofio, ovvero del suddetto pingue direttore, la stanza rimase chiusa e inaccessibile, immota.
Il quarto giorno, una soleggiata mattina di luglio, l’impresa di pulizie suonò il campanello del grande palazzo, sede dell’orfanotrofio; tre persone con vari attrezzi del mestiere sotto mano, chiesero ad una sollevata portinaia dove fosse la stanza da pulire ed ella, accampando la scusa di essere ormai in là con l’età e che quindi le scale le risultassero fastidiose, consegnò allegramente le chiavi a quello che sembrava il capo, dando precise indicazioni su quale fosse la porta da aprire. Poi, accertatasi che i tre avessero capito tutto, lasciò loro lo spinoso compito e tornò a svolgere la sua mansione.
Effettivamente, i tre, che casualmente si chiamavano tutti e tre con l’iniziale E, non sbagliarono porta dato che essa era, come ogni buona scena del delitto classico vuole, l’ultima di un angusto corridoio ed era quindi impossibile da confondere; arrivati nelle vicinanze della porta, che era inoltre distinguibile anche all’essere più tonto dell’universo per l’enorme puzza che da essa fuoriusciva, però, udirono preoccupanti suoni provenienti dall’interno.
“Che sarà mai?” si domandarono i tre E. 
Decisero di entrare non già perché coraggiosi, ma perché pensavano non ci fosse pericolo visto che la stanza era presumibilmente occupata da un innocuo cadavere.
Illusi.
La scena che si trovarono davanti i tre E. aveva dell’irreale assai.
Il bianco pavimento era cosparso di formiche rosse e nere che sembravano una scacchiera formato mignon; ogni formica, notarono guardando attentamente, cercava di scavalcare e mangiare l’altra, dove l’altra, per casualità destino o forse puro antagonismo di specie, era del colore opposto alla prima.
Sopra questa scia interminabile di corpicini che occupava gran parte del pavimento, volteggiavano allegre, nugoli su nugoli di mosche, le quali sembravano ora un altalenante e zigzagante maelstrom, ora un solido, invalicabile muro nero.
Tutte queste vivaci bestiole erano più o meno dirette verso un unico particolare che stava al centro circa della stanza, proprio vicino ad uno dei letti; i tre non riuscivano ovviamente a vedere che cosa fosse così interessante per le creature ammassate lì, dedussero però senza alcuna fatica che si trattasse del cadavere che dovevano ripulire.
“Secondo te c’è ancora qualcosa lì sotto?” mormorò E. (uno a caso) ad un altro E.
“No per me non c’è niente, qui non serve il mocio ma il DDT” disse E. per tutti e tre.
“Ma noi non abbiamo il DDT! Che facciamo?” chiese il terzo E. che parlava solo se era sicuro di quel che diceva ed era sicuro di non avere DDT.
“Ce ne andiamo ovvio!” disse il primo dei tre E.
“Scherzi? Ci hanno dato il doppio del solito per venire a fare ‘sto lavoraccio!” fu la gentile replica dell’E di mezzo.
“Ma che vuoi? Che abbattiamo le formiche col mocio?” fece mister ovvio.
“Certo! Le affoghiamo!” fu la replica convinta del geniaccio di quell’E di mezzo, evidentemente il capo del gruppetto.
“Ma… “ provò ad opporsi l’E. certo, venendo scavalcato con altrettanta certezza dal capo suddetto, che infatti disse annoiato:
“Muovetevi! Serve acqua acqua! Muovete le budella peste e corna!” i due non replicarono a quel tono ed obbedirono veloci quanto il sergente Tips*.
Trovarono il bagno tre rampe di scale dopo, e mentre si affannavano a riempire i secchi del mocio targati Vileda, E., quel tontolone, disse ad E.:
“Ma tu pensi funzionerà? Ma soprattutto pensi davvero che lì sotto ci sia ancora qualcosa?” 
“Sai com’è il capo no? Vuole i soldi per cui farà finta che sia tutto normale e dovremo ripulire tutto in ogni caso, che siano cadaveri di insetti o umani…” replicò E., per poi assestare un bello scappellotto al compare che aveva tirato fuori da chissà dove una bottiglia gigante di whiskey, cominciando a scolarsela allegramente.
Ovviamente la magistrale botta in testa ebbe un doppio effetto: E. poveraccio, cominciò a tossire come un pazzo, chiaramente sul punto di soffocare; la bottiglia, sfuggita dalle mani del proprietario, fece invece un bel tuffo nell’acqua del mocio, spandendovi dentro il goloso, prezioso contenuto.
“Ma che hai fatto idiota!?” ululò E…. quando ebbe finito di contorcersi e soffocare, ovviamente.
“Siamo già in ritardo e poi non devi bere in servizio! Andiamo che i secchi sono pieni!” fu la replica serafica di E., l’altro E., ovvio.
“Mi devi una bottiglia però! E poi… sicuro che dovremmo usare questa col whiskey dentro?” fece E., in un raro stadio di dubbio amletico.
“Ma si! Che vuoi che sia? Chi se ne accorge?dai andiamo!” erano. In. Ritardo… No?

E così i due E. rifecero le scale a tre scalini per tre, arrivando di nuovo sulla soglia della misteriosa stanza delittuosa, ora trasformata in stanza insettosa, dove li attendeva impaziente quel genio di E.
“Era ora! Forza! Giù i primi secchi, che la morte sia con noi**!” diede ordine l’arcigno capo alzando il braccio vuoto come fanno i generali che sempre comandano ma materialmente un piffero fanno.
Ed i primi secchi vennero così scaraventati al suolo, inondando il grande formicaio che stava inghiottendo il cadavere; a quel punto le prime centinaia di formiche che si trovavano al margine della marea, investite dalla fumante acqua del mocio Vileda, diventarono esse stesse cadavere, in una splendida parodia del decantato cerchio della vita.
Successe però uno strano fenomeno a quelle sopravvissute simpatiche formichine rosse e nere che sopravvissero alla prima ondata di acqua, fenomeno che presto si ripercosse su vasta scala, a mano a mano che ogni piccola formica, accorgendosi del cadavere di una collega deceduta, le dava un simpatico morso di commiato.
I tre simpatici E. si ritrovarono, loro malgrado, ad osservare il fenomeno bizzarro della formica pazza, o meglio della formica ubriaca!
Le piccole bestie presero ad agitarsi ancor di più.
Sembravano ballare, stringendosi ed allargandosi come ventagli impazziti.
Formavano, agli occhi dei tre che guardavano la scena con occhi spiritati, strane forme, ora geometriche, ora fantasiose, E. (uno a caso) fu certo che parte delle formiche ballerine avesse assunto la forma di Dumbo in persona; un altro E. era invece nello stesso istante convinto che quello non fosse Dumbo in formicaio ma una gigantesca teiera da cui colava il thè; E., quel furbacchione di E. che era il capo indiscusso, pensava invece che quello fosse… uno spettacolo orrendo, e quindi se la diede di soppiatto a gambe. 
E fece bene E. a darsela a gambe, davvero bene.
Perché il formicaio, seppure pazzo e ubriaco, notò presto che altre possibili vittime erano nelle vicinanze: i due malcapitati E., poverini, si accorsero tardi, troppo tardi, delle intenzioni malevole delle scatenate formiche ballerine; esse, avanzando danzando in cerchio, come strane ballerine di danza del ventre, ipnotizzarono il duo finché, avvicinatesi abbastanza da poter colpire, li assalirono, muovendosi come un sol corpo.
Morirono soffocati dalla moltitudine i poveri E., morirono pensando alla maledetta bottiglia di whiskey e al potente DDT. Morirono maledicendo il cerchio della vita ed il loro capo che, per un pugno di dollari, li aveva sacrificati e se l’era data a gambe.
Solo il giorno dopo venne dato l’allarme: la portinaia non aveva visto scendere nessuno, e nessuno aveva più visto i tre E.; Emi, che di notte gironzolava per il buio corridoio perché sonnambula, di certo non vide nulla; tutti gli altri, semplicemente, obbedendo agli ordini del direttore, ovvero la legge, si tennero lontani dalla stanza.
Solo il mattino dopo quindi, andando a controllare la stanza per verificare che effettivamente fosse stato tutto pulito a dovere, un soddisfatto direttore tornò nel suo ufficio e versò via conto corrente la somma pattuita alla ditta di pulizie: la stanza era immacolata.
Nessuno mai sospettò che l’impresa di pulizie poco c’entrava con la pulizia della stanza; pochi sentirono la mancanza dei due E. dato che non avevano famiglia, di loro si pensò semplicemente fossero andati chissà dove dopo aver finito il lavoro.
Solo una persona conosceva il segreto della strana stanza del delitto e di chi aveva in realtà sgomberato il cadavere: E. se ne andò all’estero e lì cambiò vita; visse a lungo ma mai dimenticò lo strano inquietante spettacolo a cui aveva assistito, solo a novant’anni suonati, andando fuori di testa, rivelò la storia delle formiche ballerine, ma nessuno gli credette.
Che fine fece invece lo strano bambino che uccise Aki?
Nessuno lo seppe mai e nessuno lo saprà mai.
L’ipotesi più probabile è che venne anch’esso inghiottito dallo strano esercito che si mangiò la vittima del delitto.
Si vocifera però che nelle notti di luna piena, si vede un ombra scura, allampanata, allontanarsi dalla stanza del delitto, cercando chissà cosa. 
 
* Dalla "Carica dei 101"
** Parodia di "Guerre Stellari"
 
Angolo di Kira: 
Come avete letto dall'introduzione, questa è una storia scritta in collaborazione con l'autrice felinala. Io ho scritto la parte horror-splatter e lei quella demenziale ^_^ 
Speriamo che la storia vi sia piaciuta! Ringraziamo entrambe chi ha letto e chi avrà voglia di lasciare una recensione. Alla prossima! <3

 
   
 
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