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Autore: determamfidd    22/07/2016    0 recensioni
La Dama, la chiamano.
Quando è presente, la chiamano La Principessa.
La Triste Dama di Erebor è per i più romantici. Ci potrebbe essere una recita ispirata a lei, non ne è certa, va raramente alle recite ultimamente.
Senzacuore, è per coloro che non la amano, per coloro che detestano la sua lingua severa e i suoi ancor più severi silenzi.
Genere: Angst, Introspettivo, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Altri, Dìs
Note: Traduzione | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'Le Appendici di Sansukh'
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La storia può contenere spoiler fino al capitolo 19 di Sansûkh, contiene inoltre delle differenze rispetto da Sansûkh a partire dal capitolo 35, in quanto non è stata scritta da Dets ma da Jeza-red (la quale mi ha dato il permesso di pubblicare la traduzione qua) prima che quel capitolo fosse pubblicato. La storia originale può essere trovata qua.

Lei cade.

I suoi piedi sono ancora piantati fermamente sulla pietra, la sua schiena è rigida e le sue spalle dritte, le dita strette attorno alla pergamena che sta stringendo.

Ma i suoi occhi sono ciechi mentre fissano il messaggio. La vista l'ha lasciata e dopo fu seguita dalla sua voce. Lei è cieca e senza voce mentre gli angoli affilati delle rune le tagliano la carne e si infilano nel suo cuore.

La pergamena, stropicciata e sottile, cade in terra e lei cade con essa.

Si aspetta che un braccio appaia dietro di lei, una spalla forte che sopporterebbe il suo peso – come sempre è successo in passato. C'è sempre stata una mano ad afferrarle il gomito e tenerla in piedi quando veniva colpita dal dolore.

Ma non c'è nulla e nulla vi sarebbe stato e nulla poteva cambiarlo ora.

Dopo quel pensiero la voce le torna in un gemito di dolore e angoscia che si fa strada fuori dal suo petto e fluttua per le sale e i corridoi e le camere. Fa voltare teste e poi le fa abbassare, le fa chinare per la tristezza, fa divenire i loro occhi lucidi di lacrime mentre i Nani di Ered Luin condividono il lutto della loro Principessa.

Quando il primo gemito svanisce nell'aria immobile, è saputo che non vi saranno buone notizie quel giorno. Che la Montagna Solitaria ancora una volta ha chiesto un prezzo troppo alto alla Linea di Durin e che, testardi e impossibile da fermare, i figli di Durin l'hanno pagato per intero.


Lei pensa spesso alla Montagna.

Non la chiama “casa” nella sua mente, non può. È crudele e non perdona, e si è presa tutto quello che lei aveva al mondo. Suo padre e sua madre, nonno e nonna, entrambi i suoi fratelli e i suoi amati ragazzi. La Montagna Solitaria non le ha lasciato nulla, se non infinito lutto e dolore più grande di quello che il suo cuore può contenere.

I suoi consiglieri menzionano cautamente il trono, la stirpe dei regnanti. I messaggeri di Dáin arrivano a Ered Luin per aiutarli a organizzare lo spostamento – un'altra migrazione, un'altra terribile camminata per le terre – ma in verità la esaminano. Dís non ha dubbi che questi siano quelli ambiziosi che suo cugino non sopporta – è per questo che li ha mandati dall'altra parte di Arda e lei non gliene dà colpa. Dáin è un Nano onesto, diretto e genuino. Ha avuto una vita di esperienza come re e può delegare per il meglio.

Questi Nani sono abili però, deve ammetterlo, non sono minimamente inutili ed è una vergogna che buone capacità organizzative così raramente siano accoppiate a una gradevole personalità. Dís non ha la pazienza per i loro interessi, per giochi e domande velate, così lo dice esplicitamente al Signore dei Colli Ferrosi un giorno.

Lei non reclamerà il trono. Anche se potrebbe essere suo – perché ironicamente, in quel momento, lei ha un indisputabile vantaggio politico rispetto ad ogni altra casa nobile dei Nani di Arda: lei è del sangue di Durin. L'ultima della sua stirpe, l'ultimo membro della grande famiglia di Thrór, riverita dal suo popolo e rispettata da tutti. Solo per grazia del successo di suo fratello ora viene considerata degna di tutti gli onori che erano stati fuori dalla sua portata per gli ultimi ottanta anni. Anche se ha lasciato la linea di successione per sposare il suo amato, il popolo di Erebor sarebbe al suo fianco e si inchinerebbe facilmente alla sua sovranità il momento in cui decidesse di volerla.

Ma no, non ha desiderio di portare il trono via a suo cugino, non ha desiderio di un altro conflitto. Dáin ha un figlio (lei ancora non riesce a chiamare per nome suo nipote), un figlio forte e testardo pieno della promessa che un giorno lascerà il proprio segno nel mondo. Lei cos'ha?

Nulla.

Guiderà a casa il suo popolo – finirà il compito iniziato da suo padre e continuato da suo fratello. Gli darà una casa, gli darà pace.

Per Dís c'è poco di entrambe a Erebor.


Gimli è una sorpresa.

È una stella luminosa nel mare di oscurità che lei non aveva pensato di vedere nella sua vita. Viene da lei, giovane e timido, ma oh così eloquente, con la sua maglia dalle cuciture tirate e le sue trecce storte. Con la sua accesa barba rossa e il suo spirito acceso che la riscalda – ed è solo allora che lei si rende conto di quanto fredda sia stata. Di come la sua pelle sia divenuta pietra e le sue ossa siano divenute gelide come il ghiaccio.

Dís è scioccata di quanto facile le venga parlare con qualcuno così giovane. Il suo mondo si illumina per le poche brevi ora in cui lui è con lei.

Gimrís è una ragazza tanto allegra, ricorda a Dís se stessa quando era più giovane, prima che calamità dopo calamità facessero a pezzi la sua famiglia. Vede l'affetto fra i figli di Glóin e le ricorda il proprio... non quello per Thorin, no, è ancora troppo doloroso pensare a lui. Ma lei ha avuto un altro fratello, un tempo: un ragazzo testardo e furbo, con una lingua coperta d'argento. Frerin, che a malapena era abbastanza forte per sollevarla, ma provava lo stesso a portarla sulla schiena per i corridoi di Erebor. Frerin, che aveva sempre una canzone pronta da cantare e risposte a ogni domanda ordinatamente sistemate nella sua mente, ad aspettare di essere pronunciate.

Il suo cuore diviene più leggero quando ricorda il suo volto sorridente e i suoi occhi pieni di allegria. Se il suo ricordo del giovane Thorin sarà per sempre sovrastato dal rassegnato dolore e dalla serietà del Re in esilio, almeno lei potrà per sempre ricordarsi Frerin giovane e felice. E ciò le ricorda che anche lei era stata così, un tempo.

Mizim diviene insostituibile quando iniziano davvero le preparazioni. Come suo marito, lei è un'eccellente Nana con una buona testa sulle spalle. È buono, perché ci sono giorni in cui la tristezza la sommerge e Dís non riesce nemmeno a uscire dal letto. Giorni in cui chiude le porte e le finestre, e rimane nelle sue stanze rifiutando cibo e visitatori.

Sospetta sia la stessa malattia in cui cadde suo padre dopo Azanulbizar, ma lei non parla dei suoi sospetti e non va dai guaritori. Non può, perché lei è l'ultima della sua stirpe e deve essere forte ora, più forte che mai, per guidare il suo popolo attraverso le Montagne Nebbiose e tenerli al sicuro. Non dura mai più di un giorno, tre al massimo, in ogni caso.

Mizim non fa domande, quei giorni. Non è una dama d'attesa, perché Dís non ne ha, ma è una signora famosa e imparentata per matrimonio con la Principessa, quindi la gente ascolta le sue parole. La moglie di Glóin organizza e segrega, e pianifica con i messaggeri dei Colli Ferrosi, anni ad essere la moglie di un mercante le vengono comodi e la sua conoscenza e i suoi contatti le facilitano la strada.

Dís è grata di quell'aiuto. Ultimamente ha problemi a trovare le parole giuste per mantenere le conversazioni civili e i Consigli tranquilli. Ha l'irritabilità Durin, l'ha sempre avuta, ma ora più che mai si fa viva senza essere stata invitata e le esce dalle labbra in parole che sono sciocche e taglienti. Scusarsi diventa lentamente la sua seconda natura, anche se i Nani attorno a lei sembrano avere qualche stupida illusione sul fatto che dovrebbero perdonare ogni suo sbaglio, visto che è una madre in lutto.

Lei è sempre la loro Principessa, però, e sa fin nelle ossa che essere una madre e una sorella dovrà aspettare il proprio turno.

Ogni giorno capisce di più Thorin – una cosa che prima aveva pensato impossibile. Ora capisce da dove venissero i suoi giorni silenziosi, i suoi sguardi tetri sopra alle labbra sorridenti, quelle sere in cui poteva sedersi silenziosamente nell'angolo della stanza e guardare i figli di lei che dormivano nelle loro culle. Lei aveva provato a condividere i suoi obblighi per quanto poteva, allora, ma è solo ora che capisce che partecipare ai Consigli era l'ultima cosa di cui lui aveva bisogno da lei.

Così lei permette ai figli di Glóin di visitarla, dà il benvenuto a Mizim nelle sue stanze come una sorella, e lascia che loro le parlino. Ascolta le loro voci e guarda i loro giovani, felici volti, e pensa che può farcela. Può superare un altro giorno, due, due settimane.

Può camminare lungo questa strada impervia verso il luogo che le ha portato via tutto.


La prima volta che Dís vede Gimli in una delle vecchie maglie di Thorin, quasi scoppia a piangere.

È quella blu, con le decorazioni attorno al collare su cui lei aveva lavorato per notte dopo notte per un mese prima di presentarla a suo fratello con le notizie della sua seconda gravidanza. Era un periodo duro per loro, per il loro popolo, gli inverni erano rigidi e Ered Luin era un pessimo riparo con le sue mura cadenti e miniere quasi esaurite. Lei aveva aspettato un mese in più di quanto non fosse tradizionale per dirlo a Víli, e un altro ancora prima di dirlo a Thorin; per essere assolutamente certa che il suo bambino avesse buone possibilità.

Aveva tinto la tunica del blu più scuro che avesse trovato per nascondere la pessima qualità del tessuto e si era assicurata che ogni punto fosse pari. Non poteva dare a suo fratello nulla che potesse segnalare ricchezza e prestigio, ma poteva assicurarsi che avrebbe mostrato arte del massimo grado a ogni Nano che l'avesse vista.

Poteva giurare di aver veduto lacrime negli occhi di Thorin quando lui osservò il suo lavoro. E ancora, quando lui la strinse (ma piano, piano, considerando il suo stato) e le fece le congratulazioni per la seconda benedizione che Mahal avesse deciso di dare a lei e Víli. Era sempre così stoico quando si trattava di qualsiasi cosa che non fossero i figli di lei, ma quella volta aveva guardato un semplice pezzo di cotone come se fosse il mithril più puro.

E ora quella stessa tunica si sta tirando per riuscire a tenere un ragazzo in crescita decente e coperto (Thorin era magro quando lei gliel'aveva fatta, col cibo troppo scarso per nutrire tutti) e le spezza il cuore vederla finalmente indossata come si deve, non che dondola su una figura allampanata o che ricade sopra la cintura.

Lei ingoia le lacrime e chiama il ragazzo, per raddrizzargli il colletto. Gli mostra dove ha aggiunto del tessuto sotto le cuciture, sperando sempre che Thorin riuscisse a riguadagnare il peso che aveva perduto, e come Gimrís può ricucirgliela per rendergli le maniche più larghe e le ascelle meno aderenti.

Vedere quella maglia usata dopo più di metà era è strano; ed è ancora un indumento eccellente, lontano dall'essere consunto. Potrebbe giovare dall'essere ritinto, ma il lavoro è meraviglioso ed è bello ricordarsi di essere stata in grado di creare cose simili un tempo.

Anche se, aveva sempre pensato (sperato) che sarebbe stato Kíli che avrebbe visto indossarla.


Lo Hobbit le spezza nuovamente il cuore.

L'enorme possibilità che rappresenta è abbastanza per rendere la sua esistenza tragica per Dís.

Una possibilità che suo fratello avrebbe potuto non essere nato per essere solo, che Thorin avrebbe potuto avere una chance di trovare la sua felicità...

Non sopporta il pensiero, quindi lei dice addio alla piccola creatura e desidera nel suo cuore di non doverlo mai più rivedere. Troppi ricordi, troppo dolore.

Troppi Nani che l'hanno vista perdere miseramente a tira-castagna perché il suo orgoglio si riprenda mai.


Ad Erebor viene salutata come una regina.

Dáin in persona viene a salutarla e la aiuta a scendere dal carro su cui viaggiava. La vecchia canaglia è esattamente come lei se lo ricordava, a parte forse qualche ruga e qualche libbra in più. La corona sulla sua testa la scuote (i suoi ricordi sono confusi di quel passato lontano, ma lei ricorda un Nano enorme con la voce profonda che la lasciava arrampicare sul suo grembo durante le riunioni del Consiglio e le dava la sua corona con cui giocare), ma lei è vecchia ormai a sa come nascondere le sue emozioni sotto finta allegria.

In effetti, non può salutare la sua supposta casa con null'altro che rassegnazione e una sorta di dolore sordo. Dáin sembra capirla, quindi si impegna a darle compiti da svolgere finché lei non ritrova un suo equilibrio. La moglie del Re ha poco interesse nella politica e la gente di Ered Luin si sente come estranei nella propria casa. C'è una divisone fra loro e quelli dei Colli Ferrosi venuti con Dáin, e per un po' ci sono quasi due regni sotto la Montagna che devono essere gestiti separatamente.

Dís si prende la responsabilità, di nuovo, di guidare il suo popolo. È meno complicato ora che non devono temere la fame e il freddo, ma non più facile quando le pazienze finiscono e la testardaggine dei Nani si fa spazio. Per fortuna, lei è una Durin, quindi ci sono pochi ad est delle Montagna Nebbiose che possono essere più testardi e scorbutici di lei. Ha imparato dal migliore, dopotutto.

Volti familiari la aspettano ad Erebor e ciò la rallegra un poco. Balin e Dwalin sono i suoi più vecchi amici, ma con loro ve ne sono di nuovi, coloro che seguirono suo fratello nel suo ultimo viaggio. La Compagnia di Thorin Scudodiquercia. Quando lasciarono Ered Luin anni prima lei pensava che non fossero altro che un gruppo senza pretese di fiammiferai e minatori, ma ora davanti a lei sono eroi e per la prima volta – la vera prima volta – lei è davanti a qualcuno che comprende pienamente il suo dolore. Dolore per la perdita di un amico, un fratello, un idolo e un Re.

Gimli conosceva i suoi figli e suo fratello, vero, ma Balin e Dwalin conoscevano la sua famiglia e condividono le sue lacrime senza vergogna.

La Compagnia ama la Montagna, ma come lei la darebbero via in un battito di ciglia se ciò ridesse loro i loro compagni perduti.

Sono tutti spezzati in un certo senso, pensa Dís. Ci sono buchi nei loro cuori, a forma di sorrisi e scherzi, e di un Re a cui non serviva una corona per essere grande.


Lei vede per la prima volta il Re Elfico durante un'incoronazione del nuovo Re di Esgaroth, e vorrebbe strappargli gli occhi. Desidera avvolgere quei suoi sottili capelli argento attorno al pugno e strappargli i denti uno a uno finché lui non affoga nel suo stesso sangue. Come la sua gente è affogata nella notte dell'attacco degli Orchi, quando stavano cercando di attraversare le Montagne Nebbiose, lasciandosi dietro una casa in fiamme. Come Frerin è annegato nei campi di Azanulbizar. Come i suoi figli...

Nel modo che si sarebbe potuto evitare se il maledetto codardo avesse mantenuto la sua parola e li avesse aiutati dopo l'attacco di Smaug.

Come aveva potuto Thorin essere accanto a quell'essere senz'anima in battaglia senza colpirlo è qualcosa che lei non capisce.

L'unica consolazione è che la sua presenza sembra renderlo a disagio – per quanto un bastardo insopportabile possa essere a disagio. Lei ha sempre saputo che vista da un certo angolo è il riflesso di suo fratello e spera che qualsiasi cosa sia che il Re di Bosco Atro ha al posto della coscienza stia tremando dalla vergogna alla sua vista.

Può solo sperarlo.


Non visita nemmeno una volta le loro tombe. Dís non vuole che quello sia l'ultimo ricordo che ha dei suoi figli.


La Dama, la chiamano.

Quando è presente, la chiamano la Principessa.

La Triste Dama di Erebor è per più romantici. Ci potrebbe essere una recita ispirata a lei, non ne è certa, va raramente alle recite ultimamente.

Senzacuore, è per coloro che non la amano, per coloro che detestano la sua lingua severa e i suoi ancor più severi silenzi.

Lei lo sa, le mura hanno le orecchie ad Erebor e i corvi sono tipi ciarlieri, ma a lei non importa abbastanza per farli smettere.

I giorni vuoti arrivano con spaventosa regolarità e lei non riesce a trovare la forza di mostrare “cuore” a coloro che la circondano. La rabbia è stancante, ma facile. Il calore richiede carburante e ne rimane poco in lei per bruciare con forza. Non puoi sostenere un falò con solo delle ceneri.

Gimli non veste più le maglie di suo fratello, è il figlio di un Lord ora, e sua madre si può permettere di obbligarlo a mettersi cotone raffinato e pellicce spesse ogni volta che ne ha voglia. Gimrís porta oro e gioielli nei suoi bellissimi capelli e nelle sue orecchie, e le teste si voltano per seguirla ovunque lei vada. La ragazza è brava con il vetro, e per un po' ciò sveglia l'interesse nel cuore di sua zia.

Lei era una gioielliera, vero? Era la sua chiamata, le teneva le mani occupate e la mente acuta. Era qualcosa che faceva quando il mondo attorno a lei diveniva crudele e le serviva un posto per nascondersi.

Lei non ha creato nulla in anni e improvvisamente la disturba.

Il primo tentativo nel fare un fermaglio viene buttato fra gli scarti prima ancora di prendere forma.

Anche il secondo.

Il terzo lo scioglie e ne fa una spilla per barba, perché lei è una Durin e la sua pazienza non è infinita.

Un paio di pesanti orecchini seguono e sono quasi, quasi all'altezza dei suoi vecchi standard.

Poi fa trenta perline dell'oro più puro, nessuna più grande di una goccia d'acqua, ognuna adornata dalla più luminosa scheggia di zaffiro. Lei le infila in un filo d'oro e... ed è quando Dís prende le misure per un cerchietto dorato che si rende conto di cosa stia facendo.

Stava facendo il diadema di sua madre.

Il pensiero è come una freccia nel cuore e Dís barcolla per allontanarsi dalla sua panca con gambe tremule.

Si ricorda a malapena il volto di sua madre, solo un'impressione del suo sorriso e quegli occhi incredibilmente blu che ereditarono i suoi fratelli e suo figlio maggiore. Ricorda cascate di capelli dorati intrecciati in dozzine di piccole trecce che cadevano come tende di luce attorno alle guance di sua madre e lungo la sua schiena, legate strettamente eppure quasi che toccavano il terreno. Mani dolci che le avevano mostrato come tenere un'arpa, che le intrecciavano i capelli e le accarezzavano le corte basette con un tocco morbido e affettuoso. Null'altro. Lei non ha null'altro.

Il pensiero le mette forza nel corpo e la spinge avanti. Dís barcolla, e poi cammina, e poi corre attraverso Erebor come un Nana posseduta. Ignora saluti e urla sorprese che le passano accanto, non ha tempo per risposte. Tenendosi le gonne nei pugni serrati, Dís scende due scalini alla volta finché gli enormi cancelli di ferro fermano la sua folle corsa.

La Tesoreria.

Le guardie alle porte notano il suo stato affannato e i suoi occhi freddi, e non fanno nemmeno domande, aprono il cancello e la fanno passare.

La Tesoreria è grandiosa e incredibilmente grande. Passa tre ore a lanciarsi avanti e indietro prima che una mano le atterri sulla spalla, fermandola.

«Calma, ragazza» la voce gentile di Balin la riporta al presente. Il Consigliere del Re la guarda con tristezza, anche se le sue labbra sorridono.

«Balin!» Dís balbetta «Balin, sai dove sono? Devi dirmelo! Non possono essere andati perduti! Devo trovarli!»

Il vecchio Nano sospira e ridacchia. «Ah, voi Durin» scuote la testa «Non un verso per anni e anni e poi improvvisamente è come se il cielo dovesse cadere se non avete quello che volete.»

«Balin!» lei sta quasi piangendo «Dimmi che gli Uomini non li hanno avuti! Ti prego, devi...»

«Non li hanno avuti» e ora c'è un'altra espressione su quel volto amichevole, feroce e seria «Perderei la barba pelo dopo pelo prima di separarmi con anche solo un decimo del tuo tesoro. Vieni con me.»

Lei lo segue per le enormi stanze piene di oro, su e giù per le scale, attraverso porte e archi; e Dís è meravigliata da quanta ricchezza ha ora il suo popolo. Non era mai stata laggiù prima, non davvero, ed è una vista terrificante, ad essere onesti. Tutto quell'oro e ricchezze, può immaginare che perdervi la propria strada dentro non sia per nulla difficile.

Ma prima che il suo cuore possa ricominciare a soffrire Balin si ferma e le fa segno di venire avanti, attraverso l'arco che porta a una camera più piccola. E non la lascia.

Lei rimane lì per il resto della giornata, e lui non la lascia. Si siede su un cesto pieno di corallo, le sue vecchie ossa chiedono una certa considerazione dopo un po', e fuma la sua pipa mentre Dís piange contro il morbido velluto degli abiti di sua madre.


Il diadema è finito tre settimane dopo.

Dís prendeva spesso in giro Thorin per la sua totale noncuranza per le decorazioni, ma alla fine lei non è tanto diversa. Le piace creare meravigliose forme da fili e gioielli, ma incidere nell'oro è il flagello della sua esistenza. È noioso e le confonde la vista.

Ma vale la pena di ogni ora e ogni strizzata d'occhi quando infine presenta il suo pezzo terminato e vede la meraviglia nei volti dei suoi amici. Gli occhi di Balin divengono umidi per i ricordi e Dwalin impreca ad alta voce, colpito. Mizim fa oh e ah e non osa toccarlo.

Ma è la figlia di Glóin che lascia perdere tutto il resto nella sua ammirazione per l'arte di sua zia. Con gli amabili occhi larghi e le robuste mani che tremano mentre tocca le perle, esclamando quando guarda meglio e nota le minuscole decorazioni che si avvolgono attorno alle schegge di zaffiro più piccole della testa di una formica.

«Vedi ragazza?» la voce di Balin suona un po' strozzata quando infine parla, ma c'è un sorriso sul suo volto quando guarda Dís con la coda dell'occhio «Questo è il risultato quando c'è un Maestro al lavoro. Se tu potessi vedere anche solo un pezzo dei lavori della defunta Regina Hrera, oh! La sua argenteria era senza pari in bellezza e forma... finora.»

«Aye» conferma Dwalin «È un buon lavoro, degno di una Regina.»

Dís accoglie con grazia il complimento, ma non sorride. È compiaciuta, però, e loro lo sanno e non insistono. Ogni tanto lei abbassa lo sguardo, osserva gli anelli di sua madre attorno alle sue dita, e la vista le porta un poco di conforto.


Dwalin si sposa. Uh.

Con la severa Orla.

Uh.


Chiama il suo primogenito Thorin.

Dís gli molla un pugno in faccia alla prima occasione che ha.

Per qualche motivo, sa che suo fratello sarebbe felice di lei se l'avesse visto.


Gli anni passano e lei a malapena se ne accorge. Erebor cresce, diviene nuovamente forte e lavoratrice. Dís cerca di trovarvi il suo cuore. Ci sono così tanti Nani attorno a lei ora, suoi amici e cugini, e i loro figli, persone che aspettano le sue parole anche se hanno già un Re.

E la fa sentire meglio, la riempie fino all'orlo e certi giorni riesce quasi a obbligare le sue labbra a incurvarsi in un sorriso.

Ha una buona amica nella silenziosa Orla e una inaspettata nella moglie di Dáin, Thira, che era sempre sembrata troppo innamorata del suo lavoro per preoccuparsi di fare amicizie. Lentamente, anche Dáin le diviene più vicino; hanno legato per la loro miseria condivisa e la loro incapacità di lasciare che li distrugga. Lui è resistente, più di chiunque altro lei conosca, rapido con la mente, ma lento alla rabbia. Sa cosa dire per far bollire il sangue agli altri, ma anche come farlo raffreddare in pochi minuti. Lei è felice, così felice, che Erebor abbia un Re simile.

Ma a volte, nei suoi giorni peggiori, lei desidera che ci fosse qualcuno con cui litigare. E non per quelle piccole discussioni alle quali indulge durante gli incontri del Concilio a cui la trascina Dáin. Non le “parole” che ha per Dwalin che finiscono sempre con silenzio imbarazzato e ancor più imbarazzato conforto reciproco.

Dís vuole qualcuno che la attacchi con abbastanza forza per far sì che le sue proprie emozioni la colpiscano con tutta la loro energia e scivolino in terra. Le serve un muro contro cui lanciare tutta la rabbia che lentamente le è cresciuta nelle vene per così tanto, così che sbollisca e la lasci più leggera. Le serve qualcuno che abbia la sua stessa furia, la sua stessa lingua maligna e voce crudele.

Le serve Thorin. Le serve più che mai.

Perché Thorin sarebbe quel muro inamovibile, come lo era stato tante volte in passato. Avrebbe tenuto il passo con lei quando i suoi ragazzi non erano a casa, quando lei poteva lasciare andare la sua ferrea eleganza, guardare suo fratello che faceva lo stesso, e lasciare che il dolore e la rabbia e la paura le cadessero dalle labbra in un torrente di veleno e fuoco.

Così tante volte avevano quasi strappato barbe o trecce all'altro, così tante volte Thorin era uscito di casa in una nube di rabbia e per una notte e mezza tutto quello che lei avrebbe udito sarebbe stato il suono di un martello che colpiva il metallo nella forgia mentre lei metteva a dormire i suoi figli ed entrava nel proprio letto freddo.

Ma poi il secondo giorno sarebbe finito e Thorin sarebbe tornato, silenzioso e pieno di rimorso, e lei gli avrebbe cautamente messo un piatto davanti e gli avrebbe sistemato le trecce così che non gli cadessero nel cibo. Si sarebbero guardati con occhi limpidi e un sorriso timido, perché il loro amore era più grande del dolore e nessuna semplice lite l'avrebbe mai potuto anche solo scalfire.

Avrebbero parlato allora, trovando soluzioni e pianificando per il futuro che non era meno cupo, ma almeno non era in solitudine...

Per la barba di Mahal, lei ne ha bisogno ora.

«Mi manchi» sussurra a volte di notte, quando l'oscurità copre i corridoi di silenzio e lei può muoversi senza essere notata. Erebor non è mai davvero buia ormai, con le vite e le luci che la riempiono sino all'orlo, ma fuori, suoi bastioni, è ancora buio.

A una parte di lei manca la vera oscurità su Ered Luin, a volte. Qua vi sono fuochi nelle guardiole accanto al cancello e più avanti Esgaroth brilla come una manciata di gioielli, e su e ancora più lontano, vi sono le stelle, piccole e fredde, impassibili alla miseria e alla lotta che devono guardare sin dall'esistenza stessa del tempo.

Ma sui bastioni... lei è sola, e la Montagna la nasconde nel silenzio e nelle ombre morbide, e Dís può quasi, quasi sentirlo.

«Mi manchi» sussurra al vento e al silenzio attorno a lei «Mi serve la tua spalla per reggermi, nadad, perché divento sempre più debole ogni giorno.»

Si guarda le mani, rovinate dal lavoro e segnate dall'età, e stringe le dita e alza lo sguardo, verso il fiume, verso il luogo dove ha perso tutto.

«Perché è così crudele, il fato della nostra famiglia?» chiede all'oscurità. Chiede ai fantasmi. Chiede al suo amato Creatore e quello insensibile di tutto questo mondo disgraziato. «Perché è tanto doloroso per noi vivere... Qual'è il crimine che abbiamo commesso per meritarci ciò, che atto crudele abbiamo ignorato, quando i nostri occhi sono rimasti chiusi per un attimo di troppo...?»

La Montagna è silenziosa, le piane sono silenziose, il fiume è silenzioso all'orizzonte. Ma c'è il battito del suo cuore nelle sue orecchie, un suono solo di un cuore vuoto che continua a battere. Nonostante tutto, continua a battere.

«Mi servi...» sussurra «Oh, Thorin, quanto mi servi...»

A volte, quando il silenzio diventa quasi assordante, le sue orecchie pensano di poter udire un suono – un mormorio basso, un respiro contro il suo orecchio, un movimento d'aria vicino al suo volto, un altro cuore così vicino, così tanto vicino...

Ma ogni volta che alza la testa e si asciuga le lacrime dagli occhi, non c'è nessuno lì. Lei è sola.


Gli anni passano. Con sorpresa Dís si rende conto di quanti le sono girati attorno così rapidamente che non li ha nemmeno visti. C'era così tanto da fare in fondo, non un solo attimo per riposare. Lei cerca di mantenere le cose in quel modo.

Dís cerca di scappare alla disperazione come un Nano che corre da una miniera che crolla. Insensibilità e dolore le piovono addosso come ghiaia malferma, eppure lei riesce a scuotersela di dosso e continuare. Deve continuare – non ha altra scelta.

In genere non ci pensa nemmeno, ma il centenario di Gimli la prende di sorpresa.

Gimli ha cento anni.

È un adulto.

È un concetto strano e lei fa fatica ad accettarlo. Che suo nipote non sia più uno spelacchiato, irritabile ragazzino, ma un Nano robusto, benedetto dall'altezza della sua famiglia e dai capelli infuocati di sua nonna e da una sostanziale larghezza. È un bel tipo, non c'è nulla da dire, con un sorriso sulle labbra e una scintilla negli occhi, completamente versato nell'orgogliosa camminata Durin. Ed è gentile, anche, rapido con un'ascia tanto quanto con la lingua.

La colpisce come un martello colpisce ferro caldo – è un adulto.

C'è una disperazione attaccata a quella comprensione, come sempre. La conoscenza che lei non ha mai e mai vedrà i suoi ragazzi raggiungere quella stessa età, vederli diventare adulti. Il suo dorato, gentile Fíli e il suo dolce Kíli – né lei né il suo Uno li guarderanno mai con orgoglio mentre i loro amici e la loro famiglia alzano i boccali in un brindisi. Lei aveva avuto tanti piani per il centenario di Fíli, un tempo, così tante idee e doni, e... e le fu strappata via, come tutto il resto, quella vista gioiosa.

Potrebbero essere i suoi desideri che la aiutano a scegliere il dono giusto per la sua stella. Il desiderio di riavere almeno una briciola di ciò che andò perduto. Se il suo ragazzo, se il suo Fíli non potrà più usare le sue asce, almeno lei potrà vederle utilizzate da un altro brillante giovane.

Lei ha tenuto tutte le cose lasciate dai suoi figli; abiti e armi, fermagli e perline. I primi tentativi goffi di Kíli a fare una freccia, una catenina d'argento sottile come un capello che Fíli le aveva portato con i primi soldi che aveva guadagnato lavorando alla forgia. Coperte, piccole e rappezzate, nelle quali i suoi bambini dormivano da infanti, i loro pochi giocattoli in legno. Tutto.

Ma quei tesori non le portarono gioia, solo un nuovo genere di dolore. Forse è per quello che non tenne mai nulla di Thorin, a parte le cose che lui le diede; è per quello che non ha nessun ricordo di Frerin. Troppo dolore, il suo cuore non è abbastanza grande.

Ma Gimli farà buon uso dei suoi doni, lei non ne ha alcun dubbio, e si merita di averli per tutta la gioia che le ha portato. Perché le sue canzoni e il suo rispettoso affetto che sono abbastanza per bilanciare la tristezza per qualche breve momento. Per tutto l'amore che Dís ha per lui.

E, ancora una volta, il pensiero la colpisce improvvisamente e lei deve allontanarsi, via dalla felice celebrazione. Sguardi preoccupati e compassionevoli seguono la sua ritirata silenziosa, ma per una volta lei non vi presta attenzione, obbligando il suo corpo a camminare.

Quando arriva nelle sue stanze le sue mani sono strette nelle sue gonna e le sue labbra tremano tanto che le deve mordere. La sua gola è serrata e lei non riesce a rispondere a nessun saluto che le viene porto. È solo quando le porte si chiudono dietro di lei che riesce a lasciarsi andare e fare un tremante respiro. E un altro. E un altro.

Le si riempiono i polmoni e i tremiti smettono, ma i suoi occhi sono umidi di lacrime che non può versare.

Lei si credeva senza cuore, fredda e vuota. Solo un guscio, una fornace esaurita piena di vecchie ceneri. Pensava... che non ci fosse più speranza per lei e che la morte fosse l'unica cosa a cui poteva sperare. Si credeva incapace di provare ancora.

Ma poi, quei bambini... quel brillante ragazzo e la sua bellissima sorella...

Quei bambini che ama.

Che lei può amare.

Oh dolce, pietoso Mahal.

Lei può ancora amare.


È testimone a Gimrís e Bofur che fanno i loro giuramenti – come lo è la Compagnia, Re Dáin e metà della Montagna. Metà degli ospiti sta piangendo per le loro possibilità perdute nel fare la corte a un giovane Nana mozzafiato, metà di loro ridono delle facce sciocche che fa Bofur quando non riesce a contenere la sua gioia.

Lei li osserva e si sente vuota solo a metà.


Moria.

Ovvio, Moria, che altro? Un altro buco oscuro nel quale affondare le loro speranze, un altro pozzo pieno del sangue e le lacrime del suo popolo, della sua famiglia... suoi.

Lei non chiede a Balin di rimanere. Lui sa cosa la sua partenza le farà e se ciò non lo fa ripensare e fermare questa follia, nulla che lei può dire lo farà. Non lo giudica nemmeno, non gli indica tutti i motivi per cui questa è una causa persa.

«Mi lascerai anche tu» dice solo una sera, una settimana prima che le truppe che è riuscito a reclutare siano pronte per la marcia.

Sono in piedi sui bastioni, il tramonto caldo cade sulle piane come un dolce tocco del cielo, rosa e viola e azzurro. Gli occhi di Balin sono pieni di dolore, il suo volto rugoso è dolce... la sua voce è strozzata quando le va accanto e parla.

«Non sei sola» una discussione che hanno avuto molte volte prima «Hai amici, Dís, e una famiglia attorno a te. Non sei sola.»

Lei scuote la testa allora, con un piccolo sorriso amaro. «Lo sono» dice «E lo sarò sempre più più il tempo passa.»

«Dís...»

«Il tempo si è fermato per me, Balin. Si è fermato con quella lettera. Per me è ancora inverno, sta ancora nevicando e quel fiume è ancora coperto di ghiaccio e del sangue dei miei figli»

Lei piange allora, con le braccia di lui attorno a lei. Piange come non ha pianto per anni, decenni, da quella dannata lettera indirizzata a lei a Ered Luin.


Quando lui cavalca alla testa della colonna, lei rimane sui bastioni e guarda. I suoi occhi sono asciutti.

Potrebbe essere una premonizione, o solo un'oscura esperienza, ma in qualche modo Dís sa che non rivedrà mai più suo cugino.


Dáin, per fortuna, le dà un paio di giorni per piangere prima di saltarle addosso come una volpe salta su un topo indifeso.

Le sue proteste e le sue minacce e le dita che gli stringono la barba non valgono nulla alla fine.

La rende Primo Consigliere.

Per giorni spera che la marcia di Balin verso Moria si nella pioggia e nella miseria, e l'unico genere di sollievo le è portato quando i Signori dei Colli Ferrosi la vedono nel primo Consiglio, seduta nei suo abiti blu Durin e argento alla destra del Re. Non sorride, ma i suoi occhi brillano di soddisfazione.


Orla ha il suo secondo figlio e poi il terzo. Gimrís ha il primo. Ben presto ci sono tre piccoli terrori che corrono per tutta Erebor, costantemente in mezzo eppure impossibile da catturare. Combinaguai del genere che la Montagna non vede da molto tempo.

Piccolo Thorin (e guarda come è circondata da Thorin da ogni lato, il nome di suo fratello abbastanza popolare da diventare comune, ma mai per lei) è, sorprendentemente, il più saggio del branco, forse in grazia di essere il maggiore o forse solo per il sangue di sua madre nelle vene. Ha la possibilità di seguire i passi dei suoi genitori come comandante serio e responsabile. Suo fratello, Balin, è un bambino silenzioso, con un'espressione permanentemente inespressiva (ancora una volta, il sangue di sua madre), ma con occhi intelligenti e curiosi. Il ragazzo guarda tutto attorno a lui in silenziosa meraviglia e trova ovvio piacere nel capire come funzionino le cose. Dís vede un creatore in lui, un abile creatore di qualche tipo, e non ha dubbio che qualsiasi arte scelga, sarà un Maestro.

Gimizh è un incubo di capelli rossi annodati e lentiggini tenere, e un'innocenza che sa fingere in un attimo quando la situazione lo richiede. Tutti sembrano paragonarlo a Gimli, ma Dís ha una sua opinione a proposito. Nell'occhio della sua mente un altro volto si sovrappone a quello del ragazzino, una sfumatura di oro fortunato illumina i suoi capelli rossi e quando batte le palpebre lei vede una minuta luce blu nei suoi occhi. È il suo peso silenzioso, vedere ombre di coloro che ha perduto ovunque lei guardi, non ne parla mai a nessuno.

Ma, soprattutto, Dís vede più di Gimrís nel ragazzo che di Gimli – la sua rabbia accesa e incapacità di sedere ferma quando ci sono cose da fare. Potrà diventare un buon Nano, Dís lo sa, un ragazzo meritevole di rispetto quanto suo zio e sua madre. Se solo riesce a sopravvivere ai suoi anni di combinaguai.

Dís, in grazia di essere vicina alla famiglia di Glóin, viene a contatto con i piccoletti più spesso di quanto le sarebbe piaciuto. Non riesce ancora a sforzarsi di chiamare il più grande per nome, optando per un molto più ambiguo “caro” invece. Ma dato che lo fa con lui, sarebbe troppo ovvio se si fermasse lì, così ben presto ogni Nanetto che le passa davanti è un “caro” o un “tesoro” o un “piccolo”... e prima di rendersene conto, lei è la prozia di quasi una dozzina di Nanetti – grandi o piccoli, tutti meravigliati da lei e sempre beneducati.

Persino Gimizh, sorprendentemente, perché l'unica cosa di cui il ragazzo sembra aver paura è la disapprovazione di suo zio, e a Dís ricorda talmente tanto Thorin e la loro nonne che è divertente a un certo modo. Ovviamente tutti avevano avuto rispetto per i più anziani: la loro dolce madre, gentile padre e loro nonno, ma fin da quanto riesce a ricordare l'unica Nana di cui avevano mai avuto paura era la Regina. Solo Hrera riusciva a far comportare bene Thorin solo chinando la testa o con un singolo movimento della mano. Solo il suo sguardo acuto poteva chiudere la bocca a Frerin quando nient'altro sembrava poterlo.

Erano stati tutti così. Sempre più rispettosi delle linee dure sul volto della Regina quando si comportavano male a tavola che di qualsiasi altra punizione i loro guai potesse fargli guadagnare.

È così ora, lei? si chiede Dís. È ora quella parente anziana dagli occhi d'acciaio di cui avere paura?

È divertente in un certo senso. Non si era mai immaginata in quel ruolo – la Regina era troppo inarrivabile, troppo grandiosa, la sua presenza sempre simile a marmo e pietre della miniera più profonda. Solida e meravigliosa e senza pari.

È così lei ora, ai loro occhi? Lei, la Senzacuore? Cosa vedono loro sul suo volto che gli fa rallentare i passi e tirare le mani fuori dalle tasche? Che rende persino il terrore senza paura che è Gimizh smettere si parlare e inchinarsi con tutto il rispetto che sa esprimere.

E, soprattutto, cosa li fa tornare da lei invece di scappare per la paura?

Lei ha così tanti disegni nelle sue sale d'attesa, goffe piccole immagini fatte di gesso colorato e carboncino – disegni di cose felici, di stelle e gioielli e degli eroi della quale la sua stirpe sembra essere fatta. Solo un giorno prima una piccola gattina di bambina, figlia del Lord che lei trova meno fastidioso fra tutti, le aveva portato un disegno di due Nani in piedi in cima a Collecorvo, tenendosi per mano e guardando sulla pianura ai loro piedi – uno scuro e l'altro chiaro, entrambi sorridenti. È un grande sforzo, i dettagli e la prospettiva sorprendenti per una bambina tanto piccola, e Dís non spreca tempo a dirglielo. La ragazzina diventa rossa sopra le basette scure e si nasconde dietro a sua pare, timida come un topolino di campagna.

«Non è niente...» mormora con un pugno premuto contro le labbra «Solo... solo ho pensato... ho fatto un sogno... e ho pensato che ti sarebbe piaciuto, Lady Dís...»

Quello è tutto ciò che sente da lei prima che le campane suonino lontano e il Lord prenda in braccio sua figlia e, con una scusa e un sorriso, la porta via prima che inizi il Concilio.

Dís porta il disegno nelle sue stanze e cerca di non guardarlo spesso – ma non lo butta mai via.

«Non so come fai» le dice Orla un giorno.

Stanno andando ai campi d'addestramento dove la Nana Nerachiave ha un gruppo di nuove reclute da addestrare, e Dís la segue perché Lord Maruzh è un vecchio imbecille e a meno che lei stessa non veda che alle truppe non servono altre nuove spade lei non sarà d'accordo con lui nemmeno sul colore del cielo. Se Dwalin dice che servono altre spade, allora le spade servono, fine della discussione.

«Fare cosa?» chiede Dís, da tempo abituata al modo in cui la sua amica inizia le conversazioni con affermazioni piuttosto che domande.

«Far comportar bene i ragazzi solo con la tua presenza» è una frase lunga per Orla e non è accompagnata da nessun genere di espressione, quindi forse è stata detta per gelosia, meraviglia o anche solo semplice noia.

Effettivamente, Dís ricorda, c'era stato una specie di incidente due giorni prima che aveva a che fare con una pala, una torta e una dama d'attesa della Regina terrorizzata, che era stato abbastanza interessante da riecheggiare per tutta la Montagna. Nessuno aveva visto i perpetratori, ma tutti sapevano di chi fosse la colpa in ogni caso.

«Non so perché lo chiedi» ribatte «Si comportano bene anche in tua presenza.»

«Il mio maggiore e il mio minore, sì» Orla annuisce, e non sfugge a Dís che la silenziosa concessione per il suo lutto è ancora una volta resa nella forma di non fare nomi «Ma il resto lo fa per paura. Non hanno paura di te.»

È un'ammissione semplice dalla seria guerriera, senza traccia di rimpianto o orgoglio, e Dís è d'accordo. Orla è una Nana imponente, la sua serietà rende alcuni nervosi, altri spaventati, idem per il suo rifiuto di andare in qualsiasi luogo priva di armi. Mentre la burberità di Dwalin invita comunque scherzi e battutine, nessuno mai ha osato fare uno scherzo a sua moglie. Anche se, avendone la possibilità, Dís sospetta che i suoi ragazzi ci avrebbero potuto provare solo per testare le acque...

«Esperienza?» suggerisce mentre passano oltre numerosi membri delle gilde e artigiani sulla lor strada. I campi di addestramento sono nelle profondità della Montagna, vicino alle forge, nella speranza di contenere il rumore in una parte di Erebor. Funzione per la maggior parte; l'unico difetto è il sapore di metallo nell'aria che ricorda sempre a Dís dei giorni che spendeva nascosta dietro a porte e panche, guardando i suoi fratelli che combattevano, troppo piccola ancora per unirsi a loro, ma annotando le lezioni nella mente nella speranza che quando fosse arrivato il suo tempo, sarebbe stata pronta. «O forse è il mio sangue? Mia nonna era una Vastifascia, sai.»

Quello sembra catturare l'attenzione del Capitano, perché un sopracciglio tatuato si alza e uno sguardo speculativo è lanciato nella sua direzione. Dís prevede la prossima domanda con uno sbuffo indegno di una Principessa.

«No, non so fare la zuppa»

L'interesse di Orla cade come un carbone acceso.

Ebbene, un'altra cosa che i libri di storia e i poemi non diranno di Dís, figlia di Frís: che non sa cucinare per niente. Le sue abilità culinarie non erano mai state più che passabili, facilmente alla pari con quelle di Thorin – e il suo cucinare in genere consisteva nel buttare del pane e della carne sull'orlo del fuoco nella sua forgia, cuocendoli nella polvere e limatura. Fortuna che Dwalin visitasse ogni tanto, così almeno i suoi figli non dovevano vivere di carne cruda e pappa d'orzo bruciata.

Si chiede se Dwalin faccia ancora lo stufato del cacciatore che cucinava per la sua famiglia ogni inverno, fra il suo borbottare di Nane inutili e morte di fame. Probabilmente no, ha più compiti ora e c'è probabilmente un cuoco nella sua casa che se ne prenda cura mentre lui e Orla lavorano, ma... lei spera che lo faccia ancora. Era buono, pieno di salsiccia e cavolo e funghi selvatici, e i suoi ragazzi lo amavano.

Quando arrivano al campo di addestramento, ci sono già due dozzine di nuove reclute che aspettano il loro Capitano in una formazione ordinata che è stata probabilmente la prima cosa che gli venne messa in testa all'inizio dell'addestramento. Orla non ha mai sofferto l'incuria.

Nemmeno Dís, a pensarci, così si separano con un piccolo cenno e il Primo Consigliere va a cercare il Mastro delle Armi, una serie di domande che le spingono i ricordi nostalgici fuori dalla mente per ora.


Passa di fianco al campo più tardi quel giorno, soddisfatta con le risposte che ha trovato, appena in tempo per vedere un giovane Nano mandato per terra in una nube di polvere da nessun altro che Orla stessa. Il volto del Capitano è inscrutabile mentre porge la sua lunga ascia, con la lama in avanti, così che il suo studente possa agganciarvi la sua ascia e le permetta di tirarlo in piedi. È un bel gesto, qualcosa che il ragazzo ringrazia con un cenno rispettoso. Fa un passo indietro e si mette in posizione e in quel momento Dís vede la ragione per cui è caduto.

«Piedi più larghi» dice ad alta voce senza nemmeno pensarci. La colpisce di essersi intrusa solo quando due dozzine di occhi la guardano e l'occhiataccia di Orla non è nemmeno il peggiore. No, il peggio è quando l'interessato lascia perdere qualsiasi genere di posizione e si inchina a lei con uno strozzato: «Mia Signora.»

Con la volontà nata dal sopportare il Consiglio di Dáin, lei lo ignora e continua, ma non si avvicina. Orla sembra già abbastanza irata per lanciarle qualcosa in testa.

«Sei alto» dice al ragazzo, perché quello è, anche se è due pollici più alto di lei «E la tua portata è maggiore, ma la paghi con l'equilibrio. Il tuo centro è più alto e dovrai sempre affidarti ai tuoi piedi più di qualsiasi altra cosa.»

Queste sono le parole che aveva sentito così spesso dal vecchio Fundin in passato. È alta per una Nana, il sangue di Durin le ha dato quello, più alta anche di molti Nani, ed è una lama a doppio taglio per un membro della sua razza. Loro non sono fatti per movimenti rapidi che salvino il loro equilibrio quando le cose si fanno troppo pericolose – la loro forza più grande è nelle spalle e nella schiena, e nel modo in cui i loro piedi si aggrappano al terreno. Ma alcuni di loro devono imparare in ogni caso. Lei aveva imparato e anche il ragazzo lo avrebbe fatto.

«Sì, mia Signora» balbetta, quasi facendo cadere la sua arma «Grazie per il consiglio, mai Signora.»

Lei considera brevemente cercare un sorriso per lui, ma decide di non tentare il fato. C'è già un gruppo di bambini che le vengono fra i piedi, non le serve un branco di soldati meravigliati che la seguono.

Ovviamente, come molte cose nella sua vita, la decisione le è strappata dalle mani quando Orla la chiama. Beh, parla ad alta voce, più che altro, ma si assicura che lei la senta.

«Dwalin mi ha detto» dice tranquillamente «che eri una spadaccina un tempo.»

Dís si ferma.

Sa che sta venendo sfidata e sa che può rifiutarsi di abboccare all'amo, è abbastanza vecchia, abbastanza saggia. Ma è anche curiosa, perché non è nello stile della Nerachiave sfidare qualcuno per il gusto di farlo. È anche una Durin, sfortunatamente.

«Ero?» Si volta con un suo sguardo truce.

Dwalin avrà un altro occhio nero per questo, lo giura.

L'area di addestramento si svuota mentre le reclute fanno un passo indietro, quasi inconsciamente facendole spazio, ed è solo Orla che rimane nel cerchio, appoggiata alla sua strana ascia, con aria rilassata e calma e, più sorprendente di tutto, soddisfatta.

Ebbene, sembra fosse un amo a cui valesse la pena abboccare.

«Addestra i tuoi ragazzi» dice «Ti vedrò qua quando avrò finito con il Consiglio.»

Se ne va, passi duri ed echeggianti, come il battito del suo cuore.


Quando torna indietro la sera, non stranamente, il campo è ancora più o meno pieno; i curiosi fingono di addestrarsi e allungarsi, occhi e orecchie aperti in eccitazione per un potenziale duello fra il loro Capitano e l'ultima Durin. Dís non lascia che la cosa la innervosisca. Orla è quasi nello stesso punto dove l'aveva lasciata e Dís sente un primo nervosismo causato dalla chiara confidenza della posizione della sua amica. Lei è vecchia, non ha lottato per sport in anni... c'è la possibilità che si sia arrugginita.

Ma poi le sue mani si posano sulla spada al suo fianco e ogni dubbio svanisce.

Gli occhi scuri di Orla osservano la sua gonna con un luccichio di vaga confusione – a Dís non è mai piaciuto mettersi i pantaloni e così non l'ha mai fatto se poteva evitarlo. Si è messa gonne dal momento in cui poteva stare in piedi, mai felice di null'altro, così innamorata della grazia di sua madre e della statura elegante di sua nonna che non aveva mai nemmeno considerato prendere una strada diversa. Non importa quante volte la moglie di Fundin avesse sbuffato e sbottato durante l'addestramento, e quante gonne fossero andate in pezzi, Dís aveva imparato a muoversi in esse come se il tessuto fosse un'illusione.

Quindi ora ha solo cambiato gonna per una meno elegante e più vecchia, una che non si preoccupa di rovinare qua e là. Orla fa spallucce vedendo il suo sguardo di sfida, e tutto sembra tranquillo... finché i suoi occhi non cadono sul fodero al fianco di Dís e le sue sopracciglia nere si alzano.

Sì, è un gran lavoro.

Un oggetto rappezzato di legno e pelli bollite e acciaio e gemme economiche, con incisioni su incisioni e intarsi su intarsi, abbastanza pesante per essere un'arma di tutto rispetto da solo. E lei non lo vorrebbe diverso per nulla al mondo.

È brutto; qualsiasi artigiano decente ci piangerebbe sopra prima di appenderlo al muro come una sorta di strano pesce che nessuno al mondo ha mai visto prima. Ed è stato fatto esattamente per quel motivo dal suo figlio dorato, il suo amato ragazzo.

Perché l'unica cosa che si può dire con sicurezza della spada larga che lei ne estrae – è che è certamente larga e certamente una spada. Ha visto mattoni più decorativi e rami caduti più aggraziati. Ci sono probabilmente pozze di fango più affascinanti che la sua arma prescelta.

Ma non c'è spada che lei abbia mai tenuto nella sua presa che le sia mai sembrata tanto giusta quanto quella fatta da suo fratello. Nessun'altra arma che canta nelle sue mani come questa.

Sopracciglia si alzano, sussurri seguono, perché una spada simile non è certo degna di una Principessa; persino le sopracciglia di Orla si aggrottano leggermente in confusione, perché i Nerachiave decorano ogni cosa che possono; e anche se i loro disegni colorati sono in contrasto con i rigidi dettagli Longobarbi, c'è sempre almeno qualcosa da paragonare.

A Dís non importa.

Il primo passo è suo, Orla la lascia attaccare, seria e concentrata, cercando di esaminare la sua abilità. Dís non si trattiene, è vecchia e fuori forma, quindi decide che il privilegio dell'età giustifichi mettere un po' più di forza in un colpo di quanto non sia strettamente necessaria. Orla para il colpo con il manico dell'ascia, i muscoli delle sue braccia si gonfiano e i suoi occhi si allargano leggermente in sorpresa, ma lei è una Nana forte e il colpo seguente non la scuote nemmeno.

Dís ha l'altezza e la pura dannata forza dalla sua, mentre il Capitano ha l'esperienza del guerriero e la giovinezza dalla sua parte. Ma poi, Orla ha combattuto quasi tutto il giorno mentre insegnava ai suoi pupilli, e Dís è rimasta seduta in una comoda sedia, annoiata a morte. Ciò in qualche modo le mette più alla pari.

Le lame si schiantano con fracasso, il suono passa sopra al campo di addestramento che è diventato silenzioso e immobile mentre le reclute e qualche guerriero esperto si fermano per fissare senza vergogna le Nane che duellano. Se fosse stato qualcun altro a combattere, ci sarebbero stati incoraggiamenti e risa, e avvertimenti, scommesse sarebbero state fatte in fretta e soldi sarebbero passati di mano. Ma non stavolta.

Dís ha un momento per chiedersi se Orla combatta mai per sport o se il silenzio attorno a loro sia risposta sufficiente.

È non molto più tardi che inizia a sentirsi stanca; il suo corpo non è abituato a muoversi in certi modi, ma i movimenti che le sono stati inculcati per decenni non falliscono, tenendo lei al sicuro e Orla attenta. Ma i muscoli dei suoi arti sono duri e stressati, sentirà questa lotta domani, lo sa.

Orla è un avversario forte, concentrata e rapida sui suoi piedi, ruota la sua grande ascia lunga in aria come se non pesi nulla e la abbassa con traiettorie calcolate attentamente che non lasciano mai un'apertura. Dís si chiede chi abbia insegnato alla Nana Nerachiave a combattere tanto bene; le sue posizioni sono troppe buone per averle imparate da sola, i suoi movimenti troppo rapidi, c'è un ritmo a questa danza e lei ne eccelle.

Ma a Dís fu insegnato dai vecchi Fundin e Dwerís, fu insegnato da suo padre e suo fratello, da una vita più dura di quanto la nuova generazione di Erebor possa mai immaginare. La sua spada è perfettamente bilanciata e le stringe il palmo come... come se fosse la mano di qualcuno. Può quasi giurare di udirli, tutti i suoi insegnanti, quando il mormorio del sangue le sale nelle orecchie, quando il mondo si chiude sul campo di battaglia, attorno a lei e alla sua rivale. Può sentirli... mormorii, parole di incoraggiamento dimenticati, calmi ricordi di tenere i suoi piedi in movimento e i suoi polsi flessibili... può quasi sentirlo, suo fratello, che le fece la spada, mettendo tutte le sue abilità in questo pezzo di metallo che non l'ha mai, mai tradita sinora.

L'acciaio è forte, ma la carne è vecchia – Dís se ne ricorda quando il colpo pesante di Orla fa cadere entrambe le loro armi in terra, le lame sepolte nella sabbia. È solo allora che sente il dolore che le sale per le braccia e la schiena, la rigidità che già le prende le anche. Il suo respiro è rapido e irregolare, l'esatto opposto della Nana Nerachiave che non sembra nemmeno affaticata. C'è qualche goccia sul volto di Orla mentre Dís può sentire la sua pelle umidiccia e il sudore che le scende dal mento.

È un pareggio, ma chiaramente solo perché il Capitano ha deciso di fermarsi lì. Se avessero continuato il braccio di Dís avrebbe esitato e il suo corpo si sarebbe arreso, e quello è qualcosa dalla quale la sua amica voleva risparmiarla. Soprattutto di fronte a un pubblico... anche se il pubblico, nel silenzio meravigliato in cui è, probabilmente non gliene avrebbe dato torto.

«Sembra tu non abbia una maestria solo con l'argento» dice Orla, chinando la sua testa in rispetto.

Dís rinfodera la spada nel fodero e si inchina a sua volta, come detta la tradizione. «Sono una Nana dai molti talenti» risponde. Ma la sua mente sta già decidendo che questo non sarà l'ultimo duello. Si è lasciata andare nella sua miseria, i suoi nuovi compiti le hanno rubato molto tempo, è finita fuori forma e deve trovare il modo di riprendersi.

Dís ha la sensazione che le sue abilità potrebbero tornarle utili prima di quanto lei non pensi. Spera che stavolta sia solo quel dannato pessimismo Durin.


«Hai visto?»

Orla guarda suo marito, mani piene del suo figlio minore. Dwalin è in pedi sulla soglia con un sorriso sul volto e un curioso luccichio umido nel suo unico occhio. Ovviamente deve aver già sentito del duello, le sue truppe sono dei pettegoli peggiori dell'intera Gilda dei Tessitori messa assieme.

«Ho visto» dice lei e guarda il sorriso di lui che si allarga.

«Cosa ne pensi?»

Cosa ne pensa?

«All'inizio pensavo fosse un attizzatoio» Anche se l'attizzatoio che sua nonna aveva avuto in cucina era ornato a confronto della spada dell'ultima Principessa Durin.

Dwalin ride forte e lei si permette un piccolo sorriso alla sua allegria. È una cosa piuttosto divertente, in effetti.

«Ma è una buona lama» continua, seria «Il filo è duro e l'acciaio suona bene.»

«Certo» Dwalin annuisce, vistosamente d'accordo con il suo parere «Lui avrebbe fatto un cucchiaino da tè e ci avresti potuto uccidere mannari. Mi ha fatto un'ascia da lancio, una volta, l'ascia migliore che io abbia mai avuto, volava nell'aria come se avesse avuto ali sue... ma, per la barba di Mahal, era così tremendamente brutta che dovevo tenermela nella scarpa!»

«Questi Durin» dice lei gentilmente «Sembrano persone strane.»

Lei gli traccia il volto con lo sguardo, il sorriso che improvvisamente diventa morbido e nostalgico, il vecchio dolore nel suo occhio che non è mai diminuito e probabilmente mai lo farà.

«Non ne hai idea» dice lui, la voce addolorata e affettuosa allo stesso tempo.

Ma potrei pensa Orla fra sé e sé.

Pensa alla sua amica, la solitaria Principessa di Erebor che non ha mai davvero visto sorridere; la Nana dura che alcuni chiamano Senzacuore che veste gli anelli di sua madre e le giacche di suo fratello e lotta con un zelo che è quasi pazzia.

E pensa che potrebbe avere un'idea che genere di persone erano la famiglia che suo marito amava come la propria.


Lei sogna, a volte.

Sogna di camminare per i lunghi corridoi della Montagna, di scendere un numero infinito di scale, più in profondità di quanto non sia mai stata.

Lo sente, il suono di un cuore che non è il suo. È troppo lento, troppo regolare, è ovunque attorno a lei e lei sa cos'è. Con la sicurezza di un bambino che sente la voce dei genitori, lei può riconoscere quel suono anche se l'ha visto solo una volta, brevemente, nel passato.

È il Cuore della Montagna. Il freddo, regolare, eterno battito del cuore della loro casa. Una bussola che li riporterà sempre a questo maledetto, amato luogo dove i ricordi e gli incubi riposano uno affianco all'altro. Come corvi e tordi, loro torneranno sempre.

Lei non lo lascerà mai. La Montagna la ha preso tutto e lei la odia con parte del suo essere, ma un'altra parte non può fare a meno di amare la sua casa. Una Montagna Solitaria, piena di tesori inutili e amore inutile, come lei. Due cuori che battono come uno, vuoti e freddi, e che continueranno a farlo.

Sogna di scendere le scale, attraversare corridoi e camere mentre l'aria attorno a lei diventa ferma e sa di chiuso e il cuore nelle sue orecchie diventa sempre più rumoroso. Sa cosa c'è alla fine della camminata, perché sa cos'è successo all'Archepietra dopo la guerra.

Lei non vuole vederla, e nemmeno le mani fredde che la stringono, non vuole vedere la pietra sotto la quale dormono i suoi amati. Così si sveglia, ogni volta, prima che l'ultima porta si possa aprire davanti a lei.

Si sveglia sempre.


La guerra torna ad Erebor.

Ovvio. C'è ancora una Durin nella montagna, giusto?


Thorin Elminpietra le fa male al cuore riuscendo in quale modo ad essere l'immagine sputata di suo padre, sua madre e del suo omonimo tutto allo stesso tempo. Quell'ultima parte, lo sente, è intenzionale da parte del ragazzo – con le giacche che veste e lo stile in cui porta le trecce che non è esattamente alta moda fra i giovani questi giorni, soprattutto i discendenti dei Colli Ferrosi... ma lui riesce comunque a portarlo con grazia e noncuranza.

È strano e divertente che lo stile di moda ispirato a suo fratello sia così elegante e curato mentre Thorin raramente pensava mai a come vestirsi – i suoi abiti erano più che altro derivati dai loro problemi economici e le sue trecce semplici dalla mancanza di tempo per prendersi cura dei suoi capelli. Barba di Mahal, qualche estate prima Dori le aveva chiesto se sapeva che persino il suo stile rigido era stato notoriamente copiato da molte giovani Nane di classe media. Chi avrebbe mai pensato che la sua mancanza di interesse nella moda sarebbe stata presa come un'affermazione dell'eleganza che si trova nella semplicità (parole di Dori, non sue)?

È ancora strano per lei ogni volta che si rende conto che le persone la ammirano per un motivo o quell'altro. Dame d'attesa, Lord e Lady nel Consiglio, numerosi bambini e gli spadaccini sotto la sua tutela (che Orla le aveva dato controvoglia, con la faccia di qualcuno che dà via il suo prezioso stormo di oche...)... quella vecchia cornacchia di Dáin.

E quando la guerra torna alla Montagna ancora più occhi si girano verso di lei. Perché è vecchia, perché i suoi occhi hanno visto la guerra e più lotte di quante chiunque dovrebbe vedere. Perché lei è una Durin, e anche se Erebor ha un buon Re seduto sul suo trono, che regna con mano sicura da decenni, la Montagna è una casa dei Durin e sono i figli di Durin che continuano a versare il loro sangue per essa.

E Dís ha la sensazione che stavolta non sarà diverso.

Lei è l'ultima, non rimane nessun altro, niente più sangue che dipinga la terra, e a malapena rimane spazio per un'altra tomba nelle profondità di Erebor. C'è solo una lastra di pietra che aspetta un corpo che vi riposi sopra, una solo battaglia che la sua linea deve vincere.

Perché devono vincere, non c'è altro modo in cui può finire. Vinceranno e lei ne pagherà le conseguenze, è così che è sempre stato, no?

Guarda il giovane Thorin Elminpietra, vestito della sua meravigliosa armatura, giovane e serio e severo, e le fa male il cuore. È solo un bambino, solo un ragazzo, non si merita il fato crudele che il loro sangue ha dato loro.

Guarda lui e il suo amore per una rossa arciera, l'amore che ha per il suo vecchio padre e per il suo popolo, e lei sa. Finirà qui. Deve finire qui.

Lei farà del suo meglio perché finisca tutto con lei.


Ma, di tutte le creature con cui potrebbe allearsi, perché quei dannati Elfi?


Lei non può vedere. Può a malapena alzarsi in piedi.

È tutto nebbia e un vago calore e la pietra sotto i suoi piedi le sembra morbida, piacevole.

La sua gola è chiusa e sente ancora un dolore fantasma nel suo addome e nel suo petto dove le lame le hanno tagliato la carne. La sua mente cerca di sposare la sensazione con la conoscenza di ciò che è successo dopo, dell'incontro a malapena comprensibile che ha avuto con quello che poteva essere solo il suo Creatore...

Barcolla nella nebbia, cieca e nuda, su piedi insicuri, la mente nel panico e stranamente letargica allo stesso tempo. Dáin, cos'è successo a Dáin? L'ha visto cadere, ma nulla dopo... Era ancora vivo? Lei ricorda di aver visto Dwalin da qualche parte alla sua sinistra e Orla al suo fianco, e una colonna delle sue spade migliori dietro di lei, tutti i ragazzi e le ragazze a cui aveva insegnato a lottare e fingere e pugnalare... tutti i suoi bravi bambini con i volti insanguinati e gli occhi duri per la risoluzione di restare con lei e con il loro Re. Non avevano perso nemmeno un pollice, i suoi bambini, avevano lottato come eroi e lei vorrebbe essere ancora lì per dirgli quanto... quanto è orgogliosa di loro. Ora rimpiange che i suoi complimenti siano sempre stati tanto rari.

Spera che abbiano vinto.

Sa che hanno vinto stavolta. Non ci sono altre opzioni che può accettare, null'altro è possibile, perché lei ha pagato e se non è abbastanza... ebbene, lei è pronta a girarsi e tornare nella nebbia e dire una parola o due ai Valar. Non c'è paura in lei, non ce n'è stata per molto tempo, e per quanto lei ami il suo Creatore, di quello di Lui non ne a paura.

Ma ora può solo barcollare in avanti come una creatura neonata con solo le orecchie che funzionano nell'oscurità pallida, e le ci vuole troppo per riconoscere il suono di passi.

Ma quando sente le voci che li accompagnano, si blocca. I suoi piedi si attaccano al terreno, la sua schiena si irrigidisce e lei allarga le spalle, come per proteggersi.

«Mamma?»

I suoi occhi sono ciechi mentre cercano di tagliare la nebbia, la sua vista l'ha lasciata quando più le serviva. La sua voce l'ha seguita e lei non può rispondere, non può nemmeno sussurrare.

«Mamma!»

Sono loro le dice la sua mente agitata. Sono loro.

Lei barcolla in avanti, ma le sue ginocchia si bloccano e lei cade.

Ma stavolta c'è un braccio dietro la sua schiena, una spalla forte che sorregga il suo peso. È dura e solida, e lei deve toccarla con le dita per sentire che non è un'illusione.

«Tranquilla, namadith, tranquilla» dice una voce bassa e lei boccheggia in cerca d'aria.

C'è un'altra voce, una altra spalla che le scivola attorno, una voce che conosce così bene, che le sussurra dolci frasi senza senso all'orecchio, facendole saltare il cuore di vita improvvisa, con il sangue che ha, ma che l'aveva lascito tanto tempo prima. «Mahalwânakurdu» sussurra «Mio cuore, mia allodola.»

Prima che lei possa rispondere mani morbide le mettono del tessuto attorno, quelle mani amate che le levano i capelli dal volto e le lisciano la barba con una carezza gentile. «Tranquilla, tesoro, non devi piangere.»

«Mia passerotta» dice una voce rombante come una tempesta.

Lei non riesce a respirare.

«Ah, sorellina, sei così vecchia»

«Zitto, Zietto, è di mia madre che stai parlando!»

«Ragazzi, basta litigare e datele aria»

«Sì, scusa, bisnonna»

Ma non c'è abbastanza aria nel mondo per aiutarla ora, per riempire l'abisso nel suo petto, per ridarle la sua voce. È troppo e lei non può nemmeno vedere...!

«Mamma? Stai... bene?»

Il suo dorato, dorato ragazzo. I suoi amati figli. I suoi...

Apre le braccia ed eccoli, due forme che si spingono nel suo abbraccio, afferrandole i fianchi e stringendosi a lei e lei sa cos'è, le è mancato per... per decenni... per ere. E lei li stringe a sua volta, li stringe così forte che nemmeno le poderose mani del loro Creatore non riuscirebbe a separarli da lei. Lei singhiozza i loro nomi e piange, e anche se riavesse la sua vista non riuscirebbe a vedere per le lacrime di cui i suoi occhi sono pieni...

«Ah, namadith, sei sempre stata orrenda quando piangi»

«Oi, è mia moglie di cui parli tu!»

Ma lei lo sa, l'ha sempre saputo. Fa questo brutto suono singhiozzante e solo allora la sua voce sembra tornarle, dopo che ha dato spettacolo di sé. E ancora non riesce a parlare, fa solo un altro suono bagnato e completamente orribile che rasenta l'isteria, ma è qualcosa.

Sente il ghiaccio che le cade di dosso in grandi, luccicanti blocchi, sente il calore che torna ai suoi arti.

E per la prima volta da quando quella maledetta lettera la raggiunse ad Ered Luin, Dís ride.

FINE

   
 
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