Ciao! Questo è il primo capitolo della mia nuova storia "Freedom In Letting Go". Se il capitolo ti piace, ricordati di recensire e condividere la storia in giro: magari piace anche ai tuoi amici!
La sveglia.
Quanto
odio la sua fredda e tremenda puntualità la mattina. Ogni giorno, sempre
alla stessa ora, cerca di svegliarmi finchè la batteria glielo permette.
Ogni mattina, sempre alla stessa ora, deve ricordarmi che ho una vita e
che stavo sognando, anche stanotte.
Inizio a ringhiare contro quel display come una belva feroce. Non ne ho voglia. So che non ne avrò comunque. "Ma Patrick, i soldi sono soldi",
ricorda la mia coscienza. E io le ricordo volentieri che può anche
andare a farsi fottere, per quello che mi riguarda in questo momento.
Sbadiglio,
mentre i miei occhi chiedono di essere stropicciati ancora una volta.
Sbadiglio nuovamente mentre scosto le lenzuola dal mio corpo nudo e, ancora,
appena infilo le ciabatte ai piedi, pronto a lasciare definitivamente
quel posto perfetto, la patria della mia calma notturna, per dirigermi
in cucina: posto ben meno accogliente. Passo dopo passo, lentamente,
arranco nella penombra dovuta alle tapparelle abbassate. Continuo senza
energie, sorreggendomi con una certa forza alle strutture dei divani,
poi al muro, al tavolo e, finalmente, al ripiano della cucina. Il
problema non è certamente il buio, ma le poche energie rimastemi. Ultimamente proprio non
ho voglia di fare nulla, nemmeno di andare a lavoro. Se non fosse
perché il mondo gira grazie ai soldi, non mi farei forza ogni mattina
per gettare via il pensiero di licenziarmi e darmi alla vita del
clochard. Diventare un emarginato non è esattamente la mia aspirazione
attuale, in effetti, e anche l'affitto non si paga certamente da solo.
Rimango a
pensare alla mia situazione, fissando il vuoto tra la caffettiera e il
fornello della cucina. Dopo l'ennesimo sbadiglio decido che forse è ora
di preparare l'arnese per il suo quotidiano compito di "estrattore di
linfa", come lo chiamo io. Lo so, sono una persona strana, ma, per me, è
proprio quello che fa. Parte dalla semplice acqua, la trasforma nella
più leggera delle forze magiche e la sfrutta per generare dal nulla energia a
rapido utilizzo, la linfa delle mie mattine, l'elisir di non licenziamento.
Accendo il fornello e mi avvicino alla finestra, mentre attendo che la
magia sortisca il suo effetto. Le mie narici si accorgono subito dell'inizio del
processo, inebriando per qualche minuto il mio corpo immobile. Così, mentre alzo le tapparelle della
finestra principale, l'aroma del nettare nero si fa largo per casa,
risvegliando i miei sensi ancora intorpiditi dal sonno e dalla
precedente, monotona, assurda giornata di lavoro sfiancante. Tocca poi
all'udito percepire il liquido sfiorare il bollore, tentare la fuga dai limiti metallici della macchina che lo ha riportato al
mondo, che lo ha generato in così poco tempo. Spengo in fretta il
fornello e, con un cucchiaino, inizio a girarlo dentro alla
caffettiera. Tocca infine alla mia tazzina completare l'opera,
accogliere il liquido nero, mescerlo con un po' di zucchero e, infine,
attrarsi alle mie giovani labbra e sfiorare con delicatezza i centri del
mio tatto prima e del mio gusto poi. Così, con tutti i cinque sensi
risvegliati, sorso dopo sorso, la mente smette di essere annebbiata e
chiarifica la situazione, ritrovando la forza di organizzare i miei
impegni ancora una volta. Sbadiglio un'ultima volta, prima di osservare
l'orologio appeso alla parete davanti a me. Sono le 6:30 del mattino. Ho
tutto il tempo di fare una doccia, trovare lentamente i vestiti, uscire di casa e andare a lavoro. Solo... ancora non ne ho la
minima voglia.
Torno in camera,
lasciando che il vento di inizio luglio accarezzi dolcemente tutto il
mio corpo. Mentre frugo tra i cassetti alla ricerca di ogni singolo
pezzo d'abbigliamento che, al momento, non ho il minimo interesse ad
indossare, ogni centimetro della mia pelle si ritrova rinfrescata e al
contempo ridestata. Usando l'avanbraccio sinistro come un appendiabiti,
inizio a impilare i tessuti. Un paio di jeans, una camicia bianca tra le
più leggere che ho, gli immancabili calzini e i boxer più comodi che
riesco a trovare. Inizio a ritrovare un po' di forze, grazie agli
effetti miracolosi del caffé, mentre mi reco a passo un minimo più
deciso verso il bagno. Lascio tutto sopra il mobile vicino alla doccia,
sempre sgombro per l'occasione, prima di sistemare anche l'accappatoio
e, molto rapidamente, chiudere il vano doccia e aprire il rubinetto.
Schivo i primi getti, lasciati appositamente poveri d'acqua per evitare
l'ibernazione, mentre sposto sifone e manopola, nell'attesa che la
temperatura sia quella che voglio. Passato poco più di un minuto,
sistemo nuovamente il sifone al suo posto e ingrosso il getto d'acqua.
Lascio che la sinfonia delle gocce che cadono accompagni i miei
movimenti, mentre la loro danza riscalda lentamente la pelle. Mi lascio
inebriare da quelle sensazioni, dal mio purificarmi dai resti della
giornata di ieri, dalla storia testimoniata da smog, polvere e cellule
morte che sto lavando via dalla tela che è la mia pelle. Lavo lentamente i capelli, poi il collo, le
spalle, le braccia e il petto. Accarezzo con la spugna anche i miei
addominali, scendendo sempre più in basso. Sfrego attentamente nei punti difficili
da lustrare, mi sposto sulle cosce, poi sui polpacci e, infine, sfrego
anche le punte dei piedi. Attendo che l'acqua passi a disciogliere anche
il velo di sapone che mi ricopre, torni a bagnare i capelli umidi e a
riscaldarli ancora, attraversandoli con tocchi leggeri. Pronto alla
vestizione, non mi resta che tornare asciutto. Apro lo sportello della
doccia e, posizionandomi sul tappeto immediatamente davanti, prendo
l'accappatoio e lascio che assorba le ultime gocce in fuga. Accendo
l'asciugacapelli per rimuovere il velo di vapore che appanna lo
specchio, e scoprire in che condizioni mi presenterò a lavoro. I miei
capelli corvini sono i primi a rivelarsi, seguiti dal mio sguardo
stanco. Le iridi grigie si fissano attraverso il sottile strato vitreo,
le guance ricoperte da un sottilissimo accenno di barba si rivelano alla
visione periferica. Appena mi accorgo di non aver più bisogno di tenere
l'accappatoio addosso, lo lascio cadere senza grazia sul tappeto,
ritrovando la libertà della mia privacy prima di coprirmi ancora.
Asciugo i capelli lentamente, cercando di modellarli un minimo, in modo
che non vadano ovunque nel processo. Non voglio sembrare un'istrice
davanti al mio capo e non sarebbe la prima volta che succede, se oggi
decidessero di non volerne sapere.
Mi giro, iniziando a
vestirmi. Chiuso l'ultimo bottone della camicia, prendo l'accappatoio da
terra, lo appendo dietro alla porta e torno in camera per prendere le
ultime cose. Metto le scarpe di sempre, solo leggermente scalfite dal
marciapiede e dall'asfalto del parcheggio. Sono ancora nuove, a un primo
sguardo, tanto che perfino andando a cercare con minuzia i graffi viene
difficile trovarli tutti immediatamente. Fatto l'ultimo nodo ai lacci
mi sposto in ufficio, prendo la borsa con il portatile e torno in cucina
a rimettere la tazzina nel lavello, in modo da non lasciare caos in
casa. Chiudo le tapparelle della finestra in salotto, prima di cercare
le chiavi nello svuotatasche. Come al solito, per la fretta, dimentico
la regola principale del mio ufficio: presentarsi con la giacca. Non è
una regola scritta, ma tutti lo fanno. Chiunque sia colto nell'atto di
uscire dall'ascensore privo del "pregiato" capo viene accolto
immediatamente con gli anatemi più impegnati e le occhiate più fredde.
Poggio un attimo la borsa per infilare la giacca blu a due passi dalla
porta di casa. Preso nuovamente tutto il necessario, inizio a chiudere le porte e
le finestre più vicine, nella speranza che nessun altro le apra in mia
assenza. Così, pronto a partire anche oggi, mi blocco, mentre un senso di
inerzia mi impone di stare lì, fermo, a pensare a un'alternativa.
"Il tuo lavoro non si farà certo da solo" dice una parte della mia coscienza.
"Ma può sempre farla qualcun altro..." risponde prontamente l'altra.
"Sai che nessuno ti verrà incontro, stavolta... come sempre...".
"Ma possono anche fare uno strappo alla regola, no?".
"Sai che non è possibile. Vuoi ricevere una chiamata dal capo? Sei sicuro?".
"No, non c'è bisogno che mi ricordi cosa è successo l'ultima volta...".
"Ecco,
bravo. E poi sei pronto. Sei vestito, profumato, pulito. Pronto a
sudare come un maiale anche oggi, perchè il riscaldamento non funziona, i
ventilatori hanno la stessa utilità di un foglio di carta velina come
ventaglio e la collega che ti sta vicino pare appena uscita dalla sagra
dell'aringa...".
"Riuscirò a sopportare tutto questo?".
"Non lo fai da sei anni, più o meno? Dovresti essere abituato, no?".
"Non lo si è mai abbastanza...".
"Hey, lo senti?".
"Cosa? Che dovrei sentire ancora..." rispondo interiormente, seccato.
"Il
richiamo del tuo prossimo stipendio... danaro sonante. Dindi pronti a
essere conservati, impiegati, investiti... magari in una cena... magari
con una ragazza... o anche un uomo...".
"Sono così disperato?".
"Forse... chi può saperlo... Ma non cambia la situazione...".
"Cioè?".
"MUOVI IL CULO, GENIO!".
Proprio in quel momento interrompo la mia conversazione interiore. Un suono ormai da tempo dimenticato mi riporta alla realtà, mentre la chiave è infilata nella serratura, mentre la mia mente torna ad evitare il delirio della solitudine mattutina. Un richiamo lontano nel tempo e nell'esperienza... una senzazione che non provavo da tempo. Il mio corpo fremeva... Qualcuno aveva suonato il campanello di casa mia.
Ti è piaciuto il capitolo? Allora recensiscilo per farmi sapere cosa ne pensi! Se ti va puoi anche condividere la storia in giro: per me è molto importante.
- MercuryMike -