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Autore: Milla Chan    26/07/2016    3 recensioni
Aveva maturato uno strano sentimento nei confronti degli umani. Non c’era più paura, ma non c’era nessuna rabbia, solo un misto di disgusto e indifferenza. Quella situazione, però, non gli pesava quanto i suoi genitori pensavano che avrebbe dovuto; o almeno così sembrava. Kenma passava gran parte delle sue giornate a giocare ai videogiochi, e quando sua madre gli chiedeva se avesse qualcosa da raccontarle, passandogli la mano tra i capelli scuri, lui la guardava con una sorta di senso di colpa negli occhi.
[KuroKen + altre coppie secondarie] [Tokyo Ghoul!AU, ma non è necessario seguire l'opera]
Genere: Avventura | Stato: in corso
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Koutaro Bokuto, Kozune Kenma, Tetsurou Kuroo, Tooru Oikawa, Un po' tutti
Note: AU | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza
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"Mischiati a noi umani, in questo mondo, vivono i ghoul.
I ghoul sono molto simili agli umani. Il loro aspetto fisico e capacità intellettive sono praticamente uguali. Cambia la loro dieta, la loro mentalità e la biologia interiore.
I ghoul possono nutrirsi solo di carne umana. Non possono digerire altri cibi a causa di un particolare enzima che produce il loro corpo. Anche se non possono mangiare i cibi considerati normali, possono bere il caffè e l’acqua.
I ghoul hanno grandi capacità rigenerative e un corpo molto resistente. L’origine della biologia dei ghoul e dei ghoul stessi è attualmente ignota, ma si sa che le
cellule Rc hanno un ruolo importante: i ghoul hanno una Fattore Rc dieci volte più alto di quello umano. Sono in possesso di un organo chiamato kakuhou, da cui fuoriescono le cellule Rc che, solidificandosi, creano il kagune, una protuberanza simile a un muscolo che viene usata come arma. A seconda del tipo di kagune e dal tipo di Rc, può assumere diverse forme.
Un altro tratto distintivo dei ghoul è il 
kakugan, che consiste nella manifestazione temporanea di occhi con le pupille rosse e la sclera nera.
I ghoul sono considerati criminali e non hanno alcun diritto. Per questo, durante la caccia, i ghoul tendono a nascondere il volto.
Per contrastare i ghoul e indagare sui loro omicidi, nel 1890 fu fondata la
CCG, la Commissione per le Contromisure ai Ghoul. Gli investigatori di questa agenzia federale, chiamati “colombe” dai ghoul, combattono con l’uso di quinque, armi create dal kakuhou di un ghoul."
[Fonte]

 
‘Tis the eye of childhood that fears a painted devil

Kenma guardava i quadri sulle pareti bianche del corridoio mentre teneva per mano sua madre, con il gatto che li seguiva a passo svelto. Quella mattina in casa si respirava un’atmosfera agitata, quasi preoccupata. Era il suo primo giorno di scuola.
Kenma era un bambino minuto e timido, e preferiva non muoversi troppo. Era sorprendentemente sensibile, pigro e non molto loquace. Per tutti questi fattori, prendersi cura di lui non era così facile come sarebbe potuto sembrare ad una prima occhiata. Ma Kenma era anche un bambino tranquillo, educato e molto intelligente; inoltre, aveva un sesto senso non indifferente, anche se ancora lo usava per scopi all’apparenza futili, o comunque comuni per un bambino di sei anni, come ad esempio trovare i bocconcini che sua madre nascondeva.
I suoi genitori erano soliti parlare di lui come il loro piccolo gioiello e lo presentavano ai loro amici con il petto pieno di orgoglio.
La sua era una famiglia benestante. Vivevano in un grande appartamento a Tokyo ed entrambi i suoi genitori avevano un ottimo lavoro. Benché fossero una famiglia di ghoul, convivevano tranquillamente tra gli umani. Certo, la maggior parte dei loro amici erano ghoul, e spesso organizzavano insieme cene a casa di uno o dell’altro, o andavano in eleganti ristoranti, ma a causa del lavoro avevano continui contatti con gli umani. Avevano imparato a nascondere in modo eccellente la loro vera natura, e in generale non nutrivano alcun odio eccessivo nei confronti degli uomini.
I suoi genitori avevano discusso a lungo se riservargli un’istruzione privata o farlo andare a scuola con gli altri bambini. Avevano già evitato la scuola materna, in quanto non obbligatoria, ma alla fine erano giunti alla conclusione che, per le elementari, fargli frequentare una scuola pubblica e farlo vivere a così stretto contatto con gli umani già da una così tenera età sarebbe stato ottimale per giungere ad una integrazione pressoché totale. La loro scelta era stata influenzata anche dall’indole naturalmente calma del piccolo Kenma e dalla sua riservatezza.
In molti li avrebbero senz’altro additati come pazzi per aver deciso di lasciare da solo loro figlio di soli sei anni, in mezzo a tanti umani. C’era un alto rischio che le sue abilità si manifestassero, anche involontariamente, che il suo istinto prendesse il sopravvento, e se fosse successo le conseguenze sarebbero state catastrofiche per la loro piccola e pacifica famiglia. Ma i genitori di Kenma conoscevano loro figlio e sapevano che non avrebbero dovuto ascoltare quelle voci pessimiste -realiste?-, sapevano che era quella la via giusta per l’integrazione di loro figlio, per fornirgli una vita tranquilla e sapevano che stavano crescendo loro figlio nel modo giusto.

-Cosa devi fare se ti viene fame prima dell’ora di pranzo?- gli chiese la madre. Era da settimane che gli spiegava come comportarsi nelle varie evenienze e Kenma sapeva a memoria tutte le procedure.
-Prendo un respiro profondo e mangio le mie caramelle.- rispose flebilmente, guardandola dal basso.
-Bravo. Mi raccomando, le tue caramelle. Lo sai bene che il cibo degli umani non va assolutamente mangiato. Il cibo nel tuo bento è tuo e basta, così come quello nel bento degli altri è loro e basta. Anche se ti sembra invitante, non lo devi mangiare.-
Kenma annuì. Non faceva altro che ripeterlo e il bambino aveva iniziato a maturare una lieve preoccupazione all’idea di andare in quel luogo misterioso. Sarebbe stato in mezzo a decine di altri umani, sembrava parecchio pericoloso. Lo vedeva alla televisione quanto erano cattivi, gli umani, quanti ghoul cacciavano e uccidevano solo perché non volevano che vivessero. Anche se li aveva già visti tante volte, e ci aveva parlato spesso perché erano colleghi dei suoi genitori, gli mettevano una certa paura.
Ma questo solo perché era ancora troppo piccolo per capire che invece erano gli umani ad aver paura di quelli come lui.

La scuola era composta da un grande edificio bianco e grigio, e fuori dal cancello, proprio come lui, c’erano tanti altri bambini che salutavano i loro genitori tra gli alberi tinti di rosa. Il brusio di così tante persone lo spaventò un po’, e strinse con la mano la gonna di sua madre. Alzò su di lei gli occhi grandi e lucidi, ma la donna si inginocchiò e gli accarezzò i capelli scuri con gentilezza.
-Andrà tutto bene, solo qualche ora e poi torniamo a casa. Sono sicura che ti farai moltissimi nuovi amici e quando ti verrò a prendere, proprio qui, avrai da raccontarmi tantissime cose belle!-
Kenma non era altrettanto ottimista, ma decise di ingoiare il nodo che gli chiudeva la gola e di sorriderle. Non poteva di certo sbagliarsi. Ricevette un grande bacio sulla guancia e si voltò per seguire la fila che entrava a scuola.
Era la prima volta che stava via da casa tutto solo per così tanto tempo. La scuola non sembrava tanto male: bisognava stare in silenzio e ascoltare, e non era necessario che altri bambini lo toccassero, quindi era più che sopportabile. Qualche problema era iniziato a sorgere quando il maestro lo aveva chiamato per nome e gli aveva chiesto di presentarsi, o quando un paio di bambini gli si erano avvicinati per fare amicizia. Gli umani non sembravano così cattivi, anche se il loro cibo aveva un odore che faceva rivoltare lo stomaco.

Sua madre mantenne la promessa: quando la campanella suonò, uscì dalla scuola e la trovò nel punto esatto in cui era quella mattina. La abbracciò e le raccontò la giornata con le guance leggermente più rosate del solito, nonostante di norma non fosse un amante delle novità e non gradisse in modo particolare passare del tempo lontano da casa e dai suoi genitori. Era felice di vedere quello sguardo orgoglioso e sereno negli occhi di sua mamma.
-Visto che sei stato così bravo, io e papà abbiamo una sorpresa per te.- disse la donna non appena rientrarono a casa, tirando fuori un pacchetto dalla sua borsa.
Gli occhi di Kenma iniziarono a brillare. Prese il regalo tra le mani e iniziò timidamente a scartarlo. Trattenne il respiro quando vide la maschera a forma di muso di gatto. La prese tra le mani e alzò la testa su sua madre con un sorriso che le scaldò il cuore.
-È per me?-
Lei rise.
-Certo che lo è. Così puoi venire con noi al ristorante.-
Kenma pensò che quello fosse appena diventato il giorno più bello della sua vita.

Quello stesso giorno, da qualche parte a Tokyo, due bambini sporchi e incredibilmente magri mangiavano voracemente quel che restava di un cadavere in un vicolo buio.
Generalmente, i bambini orfani non avevano una grande aspettativa di vita. La maggioranza moriva presto. Un’esigua parte veniva raccolta da qualche gruppo dalle intenzioni caritatevoli o per aumentare la cerchia di adepti di qualche banda. A Kuroo e Bokuto era capitato la peggior ipotesi nel migliore scenario. La loro casa era uno scantinato ben nascosto, gestito da un vecchio acido che dava un posto per dormire ad una decina di bambini di varie età. Per quale motivo lo facesse, a nessuno era lecito saperlo con certezza. Alcuni dicevano che fosse troppo vecchio per procacciarsi cibo, o addirittura per compiere più di tre passi, e sfruttava i bambini per riuscire a mangiare.
I bambini passavano la maggior parte delle loro giornate per strada, cercando di individuare qualche preda abbastanza debole per venir abbattuta da una manciata di piccoli ghoul. La loro zona era molto limitata- d’altronde, gli altri ghoul non lasciavano certo che venissero invasi i loro territori di caccia. Cacciare da soli era altamente sconsigliato, quasi proibito da una regola non scritta, o forse dal buonsenso. Erano troppo piccoli, troppo inesperti, troppo deboli e magri per affrontare una battaglia al pieno delle forze. Ma insieme erano come uno sciame di cavallette.
Certo, se si fosse riusciti ad uccidere una persona da soli, o al massimo in coppia, sarebbe stata una bella scorpacciata. Era proprio questo ciò che era successo quel giorno a Kuroo e Bokuto. Avevano trovato un senzatetto addormentato tra i bidoni della spazzatura e Bokuto aveva dovuto mordersi il labbro inferiore per non esultare ad alta voce mentre strattonava il braccio di Kuroo.
Nessuno dei loro compagni poteva nominare uno senza citare anche l’altro. Giravano costantemente assieme dal giorno in cui Bokuto era arrivato, due anni prima. Kuroo invece era lì da sempre, a detta dei bambini più grandi.
Entrambi avevano sette anni. Kuroo era un piccoletto dall’aria furba e sorniona, ma costantemente all’erta; l’altro era molto più emotivo e incredibilmente volubile, spesso impulsivo e in costante bisogno di attenzioni. Kuroo non sapeva cosa gli fosse successo prima di venire lì, ma non doveva essere stato qualcosa di piacevole. Nonostante Bokuto fosse più robusto di lui, Kuroo lo vedeva fragile, in qualche modo che non sapeva spiegarsi razionalmente, e ciò a volte lo rendeva insicuro su come comportarsi. Per la maggior parte del tempo, però, Bokuto era il bambino più simpatico che gli fosse mai capitato di conoscere. Si trovava straordinariamente bene con lui, avevano instaurato una complicità rara e problematica per chiunque si imbattesse in loro due. Non erano egoisti, né tantomeno cattivi, ma non resistevano agli scherzi infantili né all’istinto di autoconservazione. Kuroo era sicuro di avere al suo fianco un fratello, forse perché Bokuto glielo ripeteva spesso con un grande sorriso.

I giorni scorrevano, tutti uguali e tutti diversi . C’era chi si concentrava sul vivere in segreto tra gli umani, e c’era chi lottava per sopravvivere, mai in pace, e questa tipologia era di gran lunga la più numerosa.

A undici anni, Kenma aveva perso gran parte del già debole entusiasmo che aveva accumulato il primo giorno di scuola elementare.
Si piegò di nuovo, seduto sulle ginocchia con una mano sulla pancia e l’altra convulsamente aggrappata al gabinetto in cui vomitava per l’ennesima volta. Tossì e cercò di placare il respiro affannoso. Si appoggiò una mano sulla fronte, stravolto, chiedendosi perché l’avesse fatto, e soprattutto come fosse riuscito a trattenersi fino a quel momento. L’odore del cibo degli umani ne rispecchiava perfettamente il gusto, ora ne aveva la conferma definitiva. Per consolarsi, si disse che mangiare i dolcetti che aveva portato la sua compagna di classe per il compleanno era stata, nonostante l’esito, una mossa efficace per sradicare ogni possibile dubbio sulla sua natura. Passare anni a mangiare solo e unicamente dal proprio bento sarebbe potuto risultare sospetto. Oppure, forse, tutte quelle giustificazioni erano solo patetiche scuse per nascondere il fatto che, sì, nonostante la puzza nauseabonda, quei cosi tremendi avevano dei colori bellissimi ed un aspetto terribilmente invitante e, per un attimo, si era davvero convinto di poterli mangiare. Se ne era pentito al primo morso.
Aveva maturato uno strano sentimento nei confronti degli umani. Non c’era più paura, ma non c’era nessuna rabbia, solo un misto di disgusto e indifferenza. Quella situazione, però, non gli pesava quanto i suoi genitori pensavano che avrebbe dovuto; o almeno così sembrava. Kenma passava gran parte delle sue giornate a giocare ai videogiochi, e quando sua madre gli chiedeva se avesse qualcosa da raccontarle, passandogli la mano tra i capelli scuri, lui la guardava con una sorta di senso di colpa negli occhi. Le voleva bene e non avrebbe voluto deluderla, ma sempre più spesso non poteva fare altrimenti: gli importava il modo in cui gli altri lo vedevano, gli importava cosa pensavano di lui. Gli importava ma non riusciva a trovare la forza di cambiare la situazione.
-Stasera- disse quel pomeriggio suo padre, togliendogli la console di mano con un sorriso -Andiamo tutti e tre in un bel ristorante.-
Kenma lo guardò cupo solo per farsi ridare il suo gioco.
-Uno nuovo?-
-Nuovissimo.-
Si sforzò di mostrarsi interessato, ma la sua espressione risultò essere piuttosto la manifestazione di una noia indignata.

-Kuroo! Bokuto!-
Entrambi alzarono la testa e si guardarono con aria stranita. Quel tono di voce non prometteva nulla di buono, pensarono mentre una ragazzina dai capelli scompigliati, più grande di loro di qualche anno, li raggiungeva e si appoggiava al muro del vicolo con una mano per riprendere fiato.
-Iwaizumi non si trova.- disse preoccupata. -L’abbiamo cercato dappertutto, voi l’avete visto?-
Kuroo alzò le spalle e scosse la testa.
-Ma dai, tornerà tra qualche ora.- commentò Bokuto con un sorriso tranquillo, seduto su un cassonetto. Capitava abbastanza spesso che qualcuno sparisse, ma solo raramente non si riusciva più a trovare, e si perdevano del tutto le sue tracce. Iwaizumi non era uno sprovveduto, né uno stupido.
-È meglio se torniamo tutti a casa, Yuki mi ha detto che ha sentito certe voci sulle colombe. Girano in questa zona per qualche gruppo a quanto pare, ma non si può dire che non incontrino qualcuno di noi.-
Il sorriso di Bokuto si congelò e in un attimo fu in piedi, con gli occhi agitati. Kuroo lo guardò preoccupato e decise di non dire niente. Sperava con tutto se stesso che non stesse per fare ciò che temeva.
-Non se ne parla, io lo cerco.- disse con voce ferma, e con un paio di salti sparì sopra un tetto.
-Bokuto!- lo chiamò Kuroo alzando gli occhi al cielo e seguendolo a ruota sotto lo sguardo terrorizzato della ragazzina.
Lo inseguì per qualche minuto, finché non riuscì ad afferrargli malamente il braccio. Bokuto si girò con un’espressione contratta, come se non avesse capito che lo stava seguendo per fermarlo.
-Non puoi fare certe cazzate, bisogna tornare a casa.-
-Ma Iwaizumi non si trova!-
Kuroo alzò le sopracciglia e allargò le braccia magre, incredulo. -Sei tu che hai detto che sarebbe tornato da solo!-
-Sì, perché fa così praticamente sempre, lo sai com’è. Esplora, esplora, esplora! Ma ci sono le colombe!-
-Se hai paura che possa fare una brutta fine, forse ti sarebbe utile pensare che anche noi abbiamo buone possibilità di finire nei guai se non ci mettiamo al sicuro! È troppo pericoloso, siamo esposti e ci stiamo allontanando dal nostro territorio.-
Kuroo guardò con disapprovazione Bokuto mentre metteva il broncio e saltava sull’altro tetto.
-Lo so che anche tu senti questo odore. Torna qui e…-
Non fece in tempo a finire la frase. Qualcosa esplose accanto a Bokuto, lo vide cadere, ma non riuscì a dire niente perché un attimo dopo anche lui stava precipitando in caduta libera. Cercò inutilmente di aggrapparsi a qualcosa con il suo kagune e interruppe la sua caduta contro il cofano di una macchina, la quale frenò bruscamente, facendolo rotolare sulla strada.

Kenma sgranò gli occhi e si artigliò contro il sedile dell’automobile non appena quell’urto improvviso e violento incrinò il vetro. Suo padre inchiodò e il ragazzino non si rese neanche conto della velocità con cui i suoi genitori scesero dalla macchina, lasciandolo congelato sul sedile posteriore.
Si slacciò la cintura e aprì con incertezza la portiera. Sentiva qualcosa che non aveva mai sentito prima e quello lo spaventava. Fu investito dall’aria frizzante di quella sera di aprile e alzò la testa verso il cielo, socchiudendo gli occhi per cercare di vedere meglio tra le luci artificiali.
Delle figure stavano lottando tra i palazzi, le vedeva saltare, vedeva i loro kagune e i pezzi di cemento che si staccavano e cadevano a terra, vicino ai passanti che urlavano. Il traffico si era fermato, la gente scendeva dai veicoli e cercava di capire cosa stesse succedendo, o provava a scappare.
Kenma guardò i suoi genitori mentre si parlavano concitatamente e raccoglievano da terra il corpo che aveva quasi distrutto il loro parabrezza.
-È morto?- chiese con voce malferma, con gli occhi sbarrati e spaventati, fissi su quel corpo pieno di escoriazioni, sangue e graffi.
Sua madre lo afferrò per il braccio e lo spinse in macchina quasi di peso, la faccia scura, serissima mentre stendeva accanto a lui l’altro ragazzino. Kenma si rannicchiò il più possibile lontano da quel corpo magro e spostò più volte lo sguardo da lui ai suoi genitori, che erano risaliti in macchina in tutta fretta.
-No.- rispose finalmente la madre con un sospiro, aggiustandosi i capelli raccolti in una pettinatura elegante che ormai stava cedendo.
-È un umano?- chiese ancora il ragazzino, accoccolato con i piedi sul sedile, contro la portiera.
-Certo che no, se un umano fosse caduto da quell’altezza sarebbe un pasticcio di carne.-
La donna gli rivolse un sorriso nervoso dallo specchietto retrovisore ma Kenma non riusciva davvero a sorridere, aveva il cuore che quasi gli usciva dal petto.
Suo padre ingranò la marcia e in qualche modo riuscì ad uscire da quell’ingorgo.
-Cambio di programma, niente ristorante stasera.-
-Ma va?- mormorò suo figlio con ironia e un velo di inquietudine. Guardò fuori dal finestrino, dietro di sé, per cercare di vedere ancora quello spettacolo che l’aveva scosso così nel profondo, ma ormai erano troppo lontani e sentiva solo le sirene della polizia. Non gli era mai capitato di vedere dal vivo una cosa del genere. -…Cosa facciamo ora?- continuò, un po’ più calmo, con la mano contro il vetro.
-Torniamo a casa. In silenzio. Senza attirare l’attenzione di nessuno.-
-Abbiamo un ragazzino mezzo morto in macchina.- osservò un po’ perplesso. -Perché l’avete preso?-
Sua madre si voltò e lo guardò duramente. -Perché non potevamo lasciarlo lì, è un bambino, sarebbe stato ucciso da qualcuno.-
Kenma socchiuse la bocca e spostò un po’ il volto, quel tanto che bastava per guardare con la coda dell’occhio il viso leggermente incavato che gli stava così vicino, sdraiato sul sedile. Capiva quella logica e non poteva dar loro torto, ma…
-Quindi ora lo teniamo con noi?-
I suoi genitori si guardarono e Kenma capì che neanche loro erano del tutto sicuri di quello che avrebbero fatto. Avevano agito repentinamente, sotto pressione, e, anche se Kenma non se n’era del tutto reso conto, avevano scampato una situazione incredibilmente pericolosa, tenendo conto che anche loro tre erano ghoul. Bastava che qualcuno si accorgesse del loro odore perché tutto degenerasse.
-Troveremo una soluzione.-

Erano ritornati a casa e Kenma se ne stava seduto sul divano a guardare la televisione mentre sua madre, in bagno, riempiva la vasca di acqua calda. Accanto a lui, sdraiato sul divano, c’era il ragazzino ancora privo di sensi. Kenma vide per caso quel kakugan che lo fissava dal basso. Si alzò in piedi con uno scatto e chiamò sua mamma con un grido. Si sentì afferrare il polso e si ritrovò per terra in una frazione di secondo, la gola chiusa per lo spavento.
-Dov’è Bokuto?- disse il ragazzino con voce roca e i denti stretti.
Il padre di Kenma lo sollevò di peso e lo mise di nuovo sul divano. -Ehi, ehi, tranquillo!-
Il ragazzino lo guardò in cagnesco. -Chi siete?- chiese un po’ più calmo, ma anche più confuso, forse perché aveva iniziato a guardarsi in giro dopo quella reazione istintiva.
-Ti abbiamo salvato la vita, sei caduto da un grattacielo durante una lotta tra ghoul e colombe.-
Kenma si stava guardando il polso che gli era stato afferrato con tanta violenza, ma nel sentire quella parola sollevò la testa con la bocca socchiusa. Era convinto che ci fossero solo ghoul.
Suo padre continuò a spiegargli cosa fosse successo e alla domanda “Come ti chiami?”, finalmente fece sentire nuovamente la sua voce.
-Kuroo Tetsurou.- rispose infatti, poco convinto.
Non sapeva davvero se poteva fidarsi o no, gli sembrava incredibilmente strano che dei ghoul avessero avuto l’istinto di salvarlo. Dove l’avevano portato? Quella era la loro casa? Esistevano ghoul che vivevano in quel modo? Forse avrebbe voluto chiederglielo, ma rimanere in silenzio e all’erta sembrava la soluzione migliore, per il momento.
-Tetsurou.- disse la madre di Kenma, apparendo dalla porta del bagno. -Piacere di conoscerti. Lui è mio marito, Kozume Hiroshi, e io sono Mizuki. E lui…-
Si avvicinò a suo figlio e gli appoggiò una mano sulla schiena. -Lui è il nostro bambino, si chiama Kenma. Tu quanti anni hai?-
Kuroo guardò finalmente l’altro ragazzino. Non sembrava molto in vena di parlare o particolarmente entusiasta di averlo lì.
-Dodici.-
-Magnifico, hai solo un anno in più di lui, sembravi più grande! Sono sicura che diventerete amici.-
Kenma la guardò dal basso, un po’ imbronciato. Non era esattamente tra i suoi piani.
-Vuoi venire con me? Ti ho preparato un bagno caldo. Posso chiamarti Tetsu-chan?-
Questa volta fu Kuroo a guardarla con una forte esitazione.
-Se ti lasci lavare, dopo ti do qualcosa di buono da mangiare.- lo tentò, alzandosi in piedi.
Dopo quella rivelazione, Kuroo prese un respiro profondo e si portò le mani allo stomaco.
Era stanco e ferito. Digiunava da settimane e ciò aveva influito sulle sue capacità di rigenerazione. Non aveva ancora ben capito come fosse finito lì, non era sicuro che  ciò che stava facendo quella famiglia di ghoul fosse del tutto disinteressato, ma non poteva che fidarsi di loro. Avrebbe voluto cercare Bokuto, assicurarsi che stesse bene, ma non sapeva dove fosse né da dove iniziare a cercarlo, non sapeva chi avrebbe incontrato nel tentativo di tornare a casa, né se ci fosse arrivato vivo. Quel luogo sembrava piuttosto sicuro e infinitamente più confortevole e pulito dello scantinato in cui aveva sempre vissuto, quindi decise di mettere da parte tutta la sua diffidenza almeno finché non si sarebbe ripreso e seguì Mizuki a passi incerti e un po’ imbarazzati, sotto lo sguardo inespressivo del ragazzino più piccolo.

Kenma guardò con malinconia i peluche che ricoprivano il pavimento della sua cameretta. I suoi genitori gli avevano preso un letto a castello anni prima, forse nella speranza che un giorno avrebbe invitato un amico a dormire da loro. Non era mai successo e il letto superiore si era progressivamente riempito di pupazzi di animali di ogni dimensione. Kenma aveva infatti preferito di gran lunga dormire in basso: si sentiva come se fosse protetto dall’impalcatura del letto e dalle doghe di legno che sostenevano il materasso sopra la sua testa.
Quella sera, il letto in alto fu sgombrato per dare a Kuroo in posto in cui dormire.
Kenma era già sotto le coperte e, avvolto nel buio della camera, cercò di chiudere gli occhi per prendere sonno, nonostante non fosse così facile rilassarsi con uno sconosciuto che dormiva sopra di lui. Socchiuse le palpebre con un sospiro e si tirò a sedere.
Kuroo non era mai stato sdraiato su qualcosa di così morbido e soffice, talmente pulito da profumare di fiori. Anche lui stesso era pulito. E a stomaco pieno. Avrebbe potuto scivolare in un sonno profondo e ristoratore, eppure, per qualche motivo, era un fascio di nervi. Si mordeva il labbro con insistenza e quando si rigirò per l’ennesima volta tra le lenzuola, vide una figura che lo guardava nei buio.
Sobbalzò e si tirò a sedere, ma vide la testa di Kenma abbassarsi e le mani aggrappate al bordo del letto ritirarsi con uno scatto. Forse Kenma si era spaventato più di lui.
Kuroo allungò il collo per ispezionare. Quel ragazzino lo guardava ancora, assonnato ma incuriosito.
-Chi è Bokuto?- chiese poi, aggrappandosi di nuovo al bordo di legno con una mano. Kuroo gli lanciò uno sguardo interrogativo e stupito, per poi ricordarsi che era stata la prima cosa che aveva menzionato non appena aveva ripreso i sensi.
-Il mio migliore amico.- rispose. -Anche lui è stato colpito ed è caduto, spero che stia bene.-
Kenma assunse un’espressione pensosa e un attimo dopo, con un piccolo salto, raggiunse l’altro sul letto. Si sedette ad una certa distanza da lui e incrociò le gambe. Si sentiva come se stesse approcciando un animale selvatico, ma l’interesse vinceva sull’ansia.
-Mi dispiace. Sono sicuro che i miei genitori ti aiuteranno a cercarlo non appena sarà passato il pericolo delle colombe.-
Kuroo fece una smorfia e si portò le ginocchia al petto.-Perché i tuoi genitori sono così gentili?-
-Non lo so, a volte me lo chiedo anche io. Dove sono i tuoi? Probabilmente saranno preoccupati per te.-
-No, non li ho mai conosciuti. Sono abbastanza sicuro che siano morti quando ero piccolo, a dir la verità.-
Kenma chiuse la bocca e si chiese se per caso avesse toccato un argomento che non avrebbe dovuto toccare. Non sembrava essere molto a disagio, però, quindi si schiarì un attimo la voce e continuò timidamente a parlare.
-Mi dispiace. Vivi da solo allora?-
-Con altri ragazzi. C’è un vecchiaccio che in teoria si prende cura di noi, ma in pratica siamo noi a prenderci cura di lui.- raccontò stendendosi di nuovo, con le braccia incrociate dietro la testa. -Perlopiù giriamo nei vicoli tutto il giorno, dormiamo in uno scantinato. È un po’ scomodo e umido, ma almeno non ci piove in testa. Invece voi vivete tra gli umani, quindi?-
-Già.-
-Dev’essere dura.-
-Io credo che sia molto più dura vivere per strada come fai tu.-
Kuroo ridacchiò e Kenma sentì un piccolo moto di felicità per essere riuscito a farlo muovere in quel modo nuovo.
-Non me la passerò benissimo, non avrò una bella casa, ma almeno non devo sempre nascondere la mia natura.-
Kenma sembrò leggermente indispettito da quel commento. -Forse è questione di abitudine.- 

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Note e chiarimenti

Il titolo della storia è un riferimento a The Waste Land di T.S. Eliot, il quale scrive "Oh keep the Dog far hence, that's foe to men", verso a sua volta ripreso dalla tragedia The White Devil di John Webster, che nell'Atto V fa pronunciare a Cornelia queste parole: "But keep the wolf far thence, that's foe to man". Come Eliot, ho voluto cambiare l'animale in questione: l'ho fatto per adattarlo al protagonista della storia, in modo da sottolineare l'ostilità tra i ghoul (rappresentati da Kenma, il gatto, che nel titolo assume quindi un valore paradigmatico) e gli uomini.
Il titolo del capitolo è una citazione di Lady Macbeth da Macbeth di Shakespeare, Atto II: solo i bambini temono un pericolo fasullo, e allo stesso modo il piccolo Kenma teme gli umani più di quanto dovrebbe.
All'inizio ho inserito una piccola introduzione per permettere a chi non segue Tokyo Ghoul di immergersi nell'ambiente e per rinfrescare la memoria a chi invece lo segue. Spero che sia utile, e spero anche che questa storia vi piaccia, perché ci sto mettendo davvero tutto il mio cuore: per favore, fatemi sapere cosa ne pensate. Ve ne sarei davvero molto grata!
   
 
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