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Autore: _Blanca_    29/07/2016    0 recensioni
«Mi segue» disse Anna.
«Di che cosa parlate, miss Hawkins? Chi vi sta seguendo?»
«La morte.»

Ottobre 1875. Dalle coste della Nova Scotia, Anna Hawkins si imbarca per l’Inghilterra, dove vivrà con gli zii Woodhams, ricchi borghesi del Kent. Anna sa che vivere nel cuore dell'Impero, tra i bianchi sudditi della regina Vittoria, non sarà semplice. Lei è una Metis. È figlia di un inglese, che ha fatto fortuna come cacciatore di taglie, e di una donna della Prima Nazione. Ma Anna sa anche di non poter tornare indietro. Il suo viaggio è una fuga. Una fuga dalla solitudine, dalle responsabilità, da un destino che la terrorizza. La nuova esistenza nel Kent, tuttavia, si rivelerà diversa da qualsiasi speranza o timore. Anna dovrà affrontare i segreti di una vecchia casa e di una stanza che non deve mai essere aperta; dovrà tenere testa a una zia decisa a odiarla e a uno scrittore di racconti del terrore, capace di dare un’impronta fin troppo realistica agli incubi di carta e inchiostro. E, sullo sfondo del tutto, toccherà a lei risolvere l’enigma di un misterioso suicidio.
Genere: Horror, Mistero, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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X. Ellsworth House





King Street, lontana dagli effluvi del Medway, dai fumi dei fabbricati e del chiasso di chi, per vivere, era costretto a insozzarsi le mani, si trovava in una zona della città considerata vanto e desiderio di ogni famiglia dabbene.
Anna aveva avuto un primo contatto con l’elegante quartiere ai tempi di Seaver, poiché Gabriel’s Hill precedeva King Street di due traverse, e adesso guardava la strada, ampia e battuta dalla pioggia, oltre il vetro rigato della carrozza. Le villette si susseguivano, nel giallo chiarore dei lampioni, abbracciate dall’ombra di parchi e giardini alberati.
La carrozza si arrestò davanti a una casa a tre piani. La facciata di mattoni rossi era coperta dall’edera, gli infissi e cornicioni erano bianchi e un terrazzino incoronava lo stretto portico, sorretto da quattro compatte colonne; al pian terreno, al di là delle tre vetrate di una maestosa finestra a bovindo, si agitava una danza di sagome nebulose: Ellsworth House era viva, e affollata.
La carrozza percorse il diritto e levigato viale che conduceva al portico. Lo zio Woodhams, munito di ombrello, condusse a braccetto la moglie al riparo del portico. E Anna li seguì, arrangiandosi da sé. La sveltezza con la quale la porta venne spalancata le sottrasse la possibilità di osservare il giardino: sulla soglia c’era un uomo, con una livrea blu, i capelli grigi e il volto cavallino.
«Buonasera, Ledford!» salutò lo zio Woodhams, con entusiasmo bonario.
Il maggiordomo, mentre si spostava per farli entrare, rispose con un rigido inchino e una frase di benvenuto pronunciata con voce stentorea. Una cameriera era già lì; e si adoperò per raccogliere i soprabiti.
Anna, intanto, era mezza accecata dalla luminosità dell’ingresso.
Dopo il viaggio nel buio della campagna, le infiocchettate lampade a gas diffondevano una luce che le sembrava sul punto di dare fuoco al vivido color crema della tappezzeria. E bruciava, contro l’oro delle massicce cornici: una processione di quadri saliva lungo la parete, costeggiando la scala, ripida e lucida, del colore delle castagne mature. Sul fondo del ingresso, stava una porta doppia, chiusa; la porta sulla destra, invece, era socchiusa: dallo spiraglio fluiva un allegro cicaleccio e sporadici scoppi di risa.
Anna continuava a osservare la scala. L’attrasse, per prima, la statua acquattata sulla colonnina in fondo alla balaustra: sedeva come un gatto, e di un felino aveva effettivamente il corpo, ma la testa era umana, femminile, e due ali da rapace erano ripiegate sulla schiena. A calamitare, poi, di prepotenza l’attenzione di Anna fu il primo quadro ai piedi della scala. Era un ritratto a mezza figura: un gentiluomo seduto di traverso su di una sedia; un braccio appoggiato sopra il basso schienale intagliato; alle spalle, una parete scura e i drappeggi scarlatti di una tenda. Anna tentò di indovinarne l’età: quaranta anni, forse. Non più di cinquanta, di certo. Era bello ― lineamenti regolari, capelli nerissimi, ricci e folti; un naso lungo e aquilino ― ma la fronte contratta, le labbra rosa, sottili come una ferita, e gli alteri occhi azzurri ispiravano antipatia più che ammirazione. Il taglio degli occhi, però, le era familiare. Molto familiare.
La voce della signora Woodhams, ridotta a un sibilo di vibrante rimprovero, interruppe le riflessioni.
«Anna!»
Gli zii si stavano spostando verso la porta socchiusa, Anna li raggiunse e Ledford fece scorrere i battenti.
Eccole, le sagome dietro le tende: sebbene nella stanza fossero radunate non più di una quindicina di persone, ad Anna parve una folla spaventosa, immersa nella medesima sfrigolante luce dell’ingresso. E nel caldo. Il caldo del camino, delle lampade, delle carni seppellite sotto le gonne pesanti, le strette cravatte, le camicie inamidate. Il chiacchiericcio si affievolì ma non si interruppe; e tutti volsero gli occhi agli ospiti appena entrati. Al che, Anna avrebbe giurato che il corsetto stesse cercando di farle vomitare entrambi i polmoni.
Venne loro incontro una donna dai capelli rossi, di bell’aspetto, vestita di bianco dalla punta dei guanti a quella degli stivaletti. Era Augusta Hall: padrona di Ellsworth House, non più nel fiore della giovinezza ma lungi dal dirsi vecchia. Si lasciò baciare la mano dal signor Woodhams e stringere gli avambracci dalla signora Woodhams. Sorrideva; e Anna non poté far a meno di notare che i sorrisi calorosi poco sembravano adatti alla compita bellezza di Augusta Hall.
Lo zio Woodhams si voltò verso di lei, rimasta prudentemente alle sue spalle, ne cercò la mano e la presentò.
«È un vero piacere incontrarvi di persona» asserì Augusta.
Anna si barricò dietro un sorriso serrato. Chinò il capo e fletté le ginocchia. «Il piacere è mio, signora Hall. Vi sono molto riconoscente per l’invito» recitò, meccanicamente. Era sotto esame: poteva sentire lo sguardo della zia Woodhams su di sé, gradevole come una lama che scortica la pelle viva.
La signora Hall sciorinò un altro sorriso e, da quell’istante in avanti, parve escludere Anna dalla sua considerazione, prendendo a discorrere con i Woodhams: espresse rammarico per il brutto tempo e interesse per le condizioni del viaggio.
Anna, a testa bassa, con gran piacere si lasciò rapire dalla contemplazione delle cuciture dei guanti. Non poteva, però, impedirsi di tendere l’udito, nel tentativo di strappare voci conosciute e frasi di senso compiuto al chiacchiericcio generale.
E mentre la signora Woodhams assicurava che il tragitto in carrozza, a dispetto della pioggia copiosa, non aveva subito intoppi, si avvicinò loro un uomo. Il suo aspetto colpì Anna: somigliava in modo impressionante al ritratto nell’ingresso. Eppure ― era palese ― non poteva trattarsi della stessa persona: era più giovane almeno di una decina d’anni. Un secondo scambio di convenevoli, rivelò ad Anna che egli altri non era se non Clifford Hall ― il quale mostrò per lei un interesse pari a quello sfoggiato dalla moglie. Dopo le frasi di rito, concluse con l’augurio che la signorina Hawkins fosse in ottima salute, iniziò a parlare con il signor Woodhams. Gli interessava sapere se il viaggio a Londra era stato fruttuoso, in relazione ai nuovi contratti d’esportazione. «Me ne accennava poco fa il signor Arden» informò: aveva una robusta voce di petto, che si accordava a una figura atletica, dalle spalle larghe e il portamento eretto.
Anna seguì il movimento del capo del signor Hall: accanto alla finestra, spiccava per altezza lo zelante Mordecai Arden, intento a conversare con un altro ospite.
In quel momento, Ada Hall sorprese il gruppetto alle spalle. Vestiva anche lei di bianco; e portava perle al collo e alle orecchie. Salutò i Woodhams, salutò Anna e poi disse: «Ho il permesso di rapire vostra nipote, signori? Vorrei presentarla ai nostri ospiti.»
«Naturalmente» rispose lo zio Woodhams. «Ma non sciuparla: mi raccomando. È pur sempre la mia unica nipote.»
La signora Woodhams parve schiava della necessità di schiacciare le labbra, fino a far quasi perdere loro colore, mentre lo zio Woodhams stringeva affettuosamente la mano di Anna, come se gli costasse una reale fatica separarsi dalla nipote.
Anna venne affidata alla signorina Hall e i Woodhams si divisero: lo zio, seguito da Clifford, portò la conversazione al signor Arden; la zia venne accompagnata da Augusta sul bel canapè color cipria, già occupato dall’unica altra donna abbigliata di scuro del parlour, e che doveva avere all’incirca la stessa età della signora Woodhams.
Per Anna fu un valzer di inchini e sorrisi, prodigati e ricevuti, davanti a volti maschili e femminili, giovani, meno giovani e anziani, tutti inequivocabilmente inglesi. Una cascata di nomi le riempì le orecchie: colonnello Cross, dottor Easton, signor Ellis, scapolo fresco di Cambridge, fratello minore di James Ellis, il quale era ufficialmente fidanzato con la signorina Margareth Honeycutt, nipote – quest’ultima – della Lady Barnes con la quale la signora Woodhams era in fitta conversazione. C’erano, poi, le figlie minori di Lady Barnes: due bionde colombelle, dal profilo alla francese, di nome Gladys e Ruth. Infine, una Lisa Lawson, amica d’infanzia di Ada, non bella come le Barnes, ma dagli occhi castani luminosi e intelligenti.
Di William Hall nemmeno l’ombra.
E Anna si guardò bene dal chiedere ad Ada perché il fratello avesse rinunciato alla cena.
‘Poco male’ ragionò, mentre si aggrappava ai precetti della zia Woodhams: sorrideva molto più di quanto parlasse, rispondeva solamente alle domande dirette con frasi tanto cortesi da sfiorare l’impersonale. In cuor suo, sentiva di star recitando la parte di una bambolina inebetita: una parte che le andava ancor più stretta del corsetto. Si rallegrò soltanto di un particolare: nessuno pronunciò il minimo accenno a suo padre, a sua madre, o alla Nova Scotia. Anna accarezzò la speranza che i padroni di Ellsworth House non avessero fatto circolare troppe informazioni. Forse, per una volta, avrebbe potuto godere del privilegio di venir ignorata ma non additata, né apertamente, né alle spalle. ‘Oppure’ pensò ‘nessuno osa dire nulla, qui e ora, perché i miei zii sono presenti.’
Ledford venne a sussurrare qualcosa ad Ada, in merito al menù, e lei dovette allontanarsi, lasciando Anna in compagnia di Margareth Honeycutt, che aveva già trovato una paziente ascoltatrice in Lisa Lawson. Portava avanti un semi-monologo sul proprio desiderio di tornare a Parigi, fosse stato solo per poter assistere una terza volta all’allestimento de Les Deux Orphelines. «Per apprezzare davvero una pièce» asserì, col piglio dell’esperta, «si deve necessariamente vedere e ascoltare l’opera nella lingua in cui è stata pensata dall’autore. Trovo inutile e ignorante sostenere il contrario.»
E aggiunse dell’altro che Anna non udì.
Aveva appena visto William Hall entrare nella stanza: lo scrittore era in compagnia di un giovanotto biondo. Parlavano.
Ma Anna  non badò allo sconosciuto. Lei fissava William. Ne fissava il profilo, osservando il modo in cui le palpebre calavano sugli occhi chiari, animati da un’attenzione presente ma distaccata. Era impaziente di scoprire come lo scrittore avrebbe guardato verso la zia Woodhams. O verso di lei.
«Miss Hawkins?»
Margareth Honeycutt la chiamava.
Anna la fissò. Capì che le era stata rivolta una domanda. E non aveva idea di quale fosse l’argomento.
«Mi chiedevo» ripeté la signorina Honeycutt, «com’è la scena teatrale, in Canada?»
«Non saprei. Io non sono mai stata in un teatro.»
Un misto di sorpresa e contenuta ilarità si accomodò sul sorriso della signorina Honeycutt. «Che gran peccato» disse. Ma sembrava voler intendere: ‘che gran rozzezza!’
Si udì un rumore simile a un soffio cupo e sordo.
Era stata aperta una porta scorrevole.
Ledford si fece avanti.
«Signore, signori – la cena è servita.»
Ci fu un movimento generale: chi era seduto si levò in piedi e, come fosse stata la cosa più naturale del mondo, in un attimo ogni donna fu al braccio di un gentiluomo. La signora Hall, accompagnata del signor Arden, guidò il corteo, seguita dal marito, che scortava Lady Barnes. Ada era con lo zio Woodhams e la signora Woodhams in compagnia del colonnello Cross.
Anna, intenta a fissare la parata, rimase nelle retrovie, felicemente dimenticata e libera di riprendere fiato.
La libertà durò poco.
Stava sistemando il laccio del ventaglio attorno al polso, quando William comparve al suo fianco e Anna a stento trattenne un sussulto, sopprimendo la sorpresa in un battito di ciglia.
Lo scrittore le porse il palmo, coperto dal guanto bianco. Nell’innalzarsi di un sopracciglio, e nel debole sorriso, si leggeva la preghiera di accettarlo come accompagnatore.
Riluttante, Anna affidò le dita alla mano di William. E in silenzio si spostarono nell’adiacente sala da pranzo. Là, per via dei pannelli di legno alle pareti, regnava una luce più soffusa. Sulla tovaglia di damasco, tripudio di pizzi bianchi, c’erano candelabri a tre braccia e coppe di vetro colorato, traboccanti felci e rose, bianche e gialle.
William condusse Anna al posto a lei riservato: l'ultimo, sul fondo della tavola. Lo scrittore spostò la sedia, lei ringraziò con un cenno del capo e lui subito si allontanò. Anna lo vide prendere posto accanto alla zia Woodhams sul lato, e sull’angolo, opposto del tavolo.
A capotavola c'era Clifford, con Augusta alla sua destra e Lady Barnes alla sua sinistra. Su entrambi i lati, signore e gentiluomini si alternavano; e accanto ad Anna finì l’uomo che aveva visto parlare con William. Il giovane, destinato a restare il suo unico interlocutore, considerata la disposizione dei posti, mise da parte la cerimoniosità e si presentò da sé: George Merrik, giornalista per il Maidstone Journal and Kentish Advertiser.
Ora che si stava degnando di prestargli attenzione, Anna notò che si trattava di un uomo attraente: una sorta di Apollo, con i capelli da cherubino e labbra da far invidia a una ragazza. Si mostrò prodigo di sorrisi e complimenti: «Non giudicatemi sfrontato, ma devo confessarvelo: voi rassomigliate in modo straordinario a certe bellezze che prima d’oggi ho ammirato solo nei quadri di quei pittori che si sono avventurati in Oriente. Siete come una incantevole odalisca turc–»
«Grazie tante. Ma io non sono turca. Men che meno un’odalisca» disse Anna. ‘E non sono nemmeno la fantasia lasciva di un pittore.’ C’era un che di mellifluo, nell’atteggiamento di Merrick, che la infastidiva come l’avrebbe infastidita sentirsi bussare continuamente sul braccio. Per di più, quando gli disse di essere arrivata «dalle Americhe», Merrik non le diede tempo di specificare e si gettò in una forbita narrazione dei suoi viaggi negli Stati Uniti. Più lui parlava, più Anna si chiedeva se fosse prolisso nella scrittura quanto nella conversazione. Tra la prima portata – zuppa di pesce – e la seconda – arrosto di carne contornato da patate e verdure – Merrik tenne strette le redine della conversazione, tant’è che Anna rinunciò a interromperlo. Un’odalisca muta come una mummia, tuttavia, non poteva tenere viva la fiamma di Merrik, che pian piano riversò attenzione, e annessi complimenti, all’altra sua commensale: Gladys Barnes.
Con gran sollievo di Anna.
Lei studiava gli intarsi floreali delle posate, sorseggiava a più riprese il Madeira dal calice di cristallo e, tra il tintinnio delle forchette, prestava orecchi agli argomenti che animavano la cena. Udì pettegolezzi, mascherati da educati vaniloqui, che avevano per soggetto gente a lei sconosciuta. Forse, si parlava dei Lord della Camera. Forse, dei vicini di casa. Qualcuno tirò in ballo il tempo e qualcun altro le condizioni delle strade. Non mancò la politica: Disraeli e i conservatori, Sua Maestà e «i terribili irlandesi sempre sul piede della rivolta.»
Ma Anna non riusciva a resistere: la maggior parte dei suoi sguardi, pur rapidissimi e di sottecchi, finiva in direzione della zia Woodhams e di William. Li colse spesso a discorrere tra di loro, a voce contenuta; il che le impedì di capire di cosa parlassero. Ma il loro atteggiamento era irreprensibile. Non uno sguardo, non un gesto, non uno sfioramento in grado di suscitare alcun sospetto.
Intanto, le portate continuavano, interrotte dalla pausa del ghiaccio al limone, fin quando vennero portate un numero spropositato di gelatine alla frutta e un pudding freddo alle mele. Fu allora che Anna iniziò a intravedere il miraggio di abbandonare la sedia. Era piena come un uovo, le doleva il fianco destro e temeva di aver esagerato con il vino, perché anche la testa le faceva male: il cranio prudeva e pizzicava sulla nuca e al centro della fronte.
Dopo quel che le parve un tempo infinito, la cena venne ufficialmente dichiarata conclusa.
Per permettere agli uomini di fumare liberamente e bere cognac, le signore si spostarono in salotto: la stanza in fondo all’ingresso. Il salotto era più arioso del parlour e, nonostante il fuoco acceso, si percepiva un filo di umida frescura.
Per Anna, fu un sollievo. Andò accanto alla finestra, sperando in qualche spiffero, mentre agitava il ventaglio. Teneva una mano pressata sul fianco indolenzito e respirava affondo e lentamente. Nessuno, nemmeno Ada, si interessava a lei.
La signora Woodhams e lady Barnes si erano accomodate sul divano, vicino al camino; le altre si radunavano attorno al pianoforte verticale. Margareth Honeycutt, sollecitata dalle compagne, sedette sullo sgabello imbottito. Le dita sottili saltavano sui tasti bianchi e neri, intessendo una melodia lenta, dolce, simile a una ninnananna. La musica si fuse alla pioggia, che picchiettava contro i vetri e gorgogliava giù per le grondaie. Poi, Margareth iniziò a cantare, sfoggiando una voce piena e intonata, da cantante di operetta.
Anna, sventolando pigramente il ventaglio sotto al mento, in parte ascoltava – la canzone era una supplica a un taglialegna: doveva risparmiare un albero tanto caro al cuore dell’autore – e in parte fantasticava sul momento in cui si sarebbe slacciata il corsetto. Per caso, udì lady Barnes domandare sottovoce alla zia Woodhams se avesse risolto un certo «problema della servitù.» La zia disse che, al momento, riusciva a gestire Bon Fleur Place anche con la servitù ridotta. Anna pensò a Lily: sola, a sgobbare nella buia villa, in compagnia dei due vecchi Blackwell. Inspirò ed espirò. Non vedeva l’ora di tornare da lei. Il commento di lady Barnes – qualcosa in merito alle fatiche di mantenere buona la nomea di una casa – si smarrì sotto l’applauso, breve e spontaneo, che accolse le ultime note di Woodman spare that tree.
Le signorine Barnes suggerirono di continuare con un brano vivace, e dopo aver ronzato qualche minuto attorno agli spartiti, annunciarono che la signorina Honeycutt avrebbe eseguito il Fairy Wedding Waltz. Il valzer fu una tentazione troppo forte per le due sorelle: l’una come cavaliere dell’altra, si misero a danzare, saltellando e volteggiando con allegria infantile in su e in giù per il salotto. Erano appena crollate su una poltroncina, rosse per il movimento e le risate, quando  Merrik, William e i due Ellis entrarono in salotto.
Merrik disse che era una gran sgarberia, da parte delle «belle signore» iniziare a divertirsi senza di loro. La frase rianimò le Barnes. Gladys, in particolare. Merrik le domandò se fosse disposta a concedere ai presenti l’onore di sentirla suonare il pianoforte; in tal caso, lui l’avrebbe «umilmente» accompagnata con il canto. E Gladys Barnes, con un sorrisino e un imporporamento delle gote, si dichiarò onorata. Margareth Honeycutt abbandonò il sedile, senza troppo gaio – notò Anna, che si era avvicinata al pianoforte – e la coppietta prese possesso dello strumento e degli spartito. Si consultarono; e scelsero Come into the garden, Maud.
Gladys suonava, Merrick cantava.
E Anna nascose un poderoso sbadiglio dietro il ventaglio, guardandosi attorno.
L’unica persona a tenersi a distanza dal pianoforte era William: alla finestra, controllava l’orologio, tirato fuori dal taschino, e teneva l’altra mano sulla tenda, come se l’avesse appena scostata per guardar fuori.
Anna chiuse il ventaglio. Marciò verso William e lo affiancò, con la precisa intenzione di risultare molesta. Mal di capo, Madeira e una sorta di languida sonnolenza anestetizzarono la già gracile maschera da educanda.
«Non vedete l’ora che la serata finisca?»
William ripose l’orologio nel taschino e si voltò, prontamente munito di sorriso.
«No. Affatto.»
«Eppure, siete annoiato» sussurrò Anna.
«No davvero» disse lo scrittore, con piatta gentilezza, adeguando il tono a quello di lei.
«Sì, invece. Avete la faccia di uno che sta crepando di noia.»
William sospirò. «Ebbene: sia come desiderate voi.»
«Non fate l'accondiscendente con me» soffiò Anna, battendo il ventaglio sul gomito dello scrittore. «Siete il genere di uomo che sopporta al massimo una riunione di tre persone: è chiaro come il sole.»
«Avete capacità di deduzione rimarchevoli. Potete illuminarmi su altri aspetti del mio carattere?» La calma di William rimase intatta, ma il sorriso e la gentilezza si raffreddarono; guardava verso il pianoforte, come se dividesse la propria attenzione tra Anna e la musica; le mani dietro la schiena e il mento diritto.
«Vi piace soffrire.»
«Ah. E che cosa ho fatto per meritarmi questa accusa?»
«Non ho altre parole per descrivere qualcuno che desidera spendere di proposito del tempo in compagnia di mia zia. A parte mio zio, ma lui è intrappolato dal matrimonio. Non può evitarlo.»
Anna sorprese William a far guizzare gli occhi verso il divanetto: la signora Woodham e lady Barnes ascoltavano l’esecuzione al pianoforte.
«Mi rincresce che abbiate poca stima di vostra zia» mormorò lo scrittore.
«Forse siete voi che la stimate troppo.»
William parve irrigidire la mascella. Anna lo vide stringere i denti. E se ne rallegrò, in modo sottile, quasi sadico.
«Ho letto il vostro racconto.»
William portò lo sguardo su di lei, voltando il capo il minimo indispensabile.
«Come lo giudicate?»
«Non so un bel niente di letteratura. Non pretendo di giudicare nessuno.»
«Un’opinione personale, allora.»
«Be’– più leggevo e più avevo voglia di leggere. Quindi, suppongo sia una buona storia. Fa quello che dovrebbe fare un racconto: intrattenere. Ma l'eroina, Annalee, non mi piace.»
Lo sguardo di William si tinse di interesse genuino, seppur trattenuto.
«Posso saperne la ragione?»
«Tre volte le appare lo spettro del Cavaliere. E tutte e tre le volte, lei sviene. La prima volta è comprensibile. Ma ancora – e ancora? Sembra che perda i sensi solo per lasciare la scena al vostro Alistair.»
«Io posso soltanto affermare di aver tentato del mio meglio, per rendere i personaggi realistici.»
«Non lo metto in dubbio. Ma perché Annalee deve sempre svenire? Non penserete mica che, nella realtà, l'unica reazione di una donna, davanti al pericolo, sia stramazzare a terra? – Dite un po’: quante donne reduci da un incontro con un fantasma avete conosciuto, in vita vostra?»
«Nessuna, miss Hawkins. I fantasmi non esistono.»
«Allora, cambio la domanda: quante donne reduci da un incontro pericoloso avete conosciuto, in vita vostra, da rendervi sicuro della reazione più probabile e realistica?»
«Temo che la mia risposta non cambi.»
«Per gran fortuna delle donne nella vostra cerchia di conoscenze.»
William si voltò interamente verso Anna. «Vedo che affrontate l’argomento senza timori» disse, a voce bassissima. «La mia domanda non vi scandalizzerà. Aiutate uno scrittore a infoltire la propria conoscenza delle nature umane: come reagireste voi, se vi trovaste tormentata da – non so – un Ambrosio?»
«E chi è Ambrosio?»
«Un monaco lussurioso. Perfido. Depravato. Disposto a vendere l'anima al diavolo, pur di strappare via la virtù della giovinetta di cui è ossessionato.»
«Dipende dalle pallottole.»
«Pallottole?»
«Sì. Se Ambrosio è resistente o meno alla pallottole, dopo aver venduto l'anima al diavolo. Da noi, all’Ovest, abbiamo scoperto che un proiettile ficcato nel posto giusto risolve una straordinaria varietà di problemi.»
William sorrideva, ma non abbastanza da nascondere un germoglio di fastidio. «A sentir voi, non c’è nulla in grado di farvi paura. Non sarete come quei bambini che, per orgoglio, giurano di non aver paura dell'uomo nero?»
«Signor Hall, ho imparato che è dell’uomo bianco che c’è da aver paura.»
William non poté rispondere solo perché in quel momento Merrik tacque e Gladys tolse le mani dai tasti del pianoforte; mentre con perfetto tempismo, due cameriere entravano nel salone con i vassoi del caffè, seguite a ruota dagli altri uomini. Si formò un campanello attorno al camino.
William tardava a spostarsi, perché attendeva che fosse Anna a muoversi per prima. Ma Anna non era intenzionata ad avvicinarsi, priva del coraggio di infilare anche il caffè giù per lo stomaco. Piuttosto, guardando la porta spalancata, chiese: «Dov'è mio zio?»
Il signor Woodhams non era nel salotto.
«Si starà intrattenendo a parlare con Ledford» rassicurò William. «Lo fa sempre.»
Anna attraversò la stanza. Uscì sull’ingresso. Era vuoto.
In quanto a William, dopo un istante di tentennamento, come per valutare se fosse opportuno seguire la signorina Hawkins, comparve alle spalle di Anna. Ma proprio mentre lui raggiungeva la porta, lo sguardo dello scrittore aveva incrociato quello della signora Woodhams: la donna aveva sorvegliato la nipote molto più di quanto Anna stessa sospettasse. Adesso, con l’occhiata rivolta al giovane Hall sembrava imporre un muto e inflessibile ordine.
«Non mi sorprenderei se il signor Woodhams fosse nel quadrato dei domestici» disse William ad Anna. «Lasciate che chiami una delle cameriere. Voi tornate pure nel salone.» Allungò una mano. Stava per toccare il gomito di Anna, ma lei, ignara, si sottrasse alla presa e si spostò verso la balaustra.
William la seguì.
«Quello è vostro padre, vero?»
Anna indicò il grande ritratto a mezza figura.
«Sì, esatto.»
«Come mai troneggia qui, nell'ingresso? Ha costruito lui la casa?»
«A dir la verità no. Ellsworth House è stata acquistata per mio fratello, poco prima del matrimonio con Augusta. La casa di mio padre, la casa della nostra infanzia, è quella che avete visto sulla collina, non lontano da Bon Fleur Place. — Miss Hawkins, per favore.»
Anna si voltò, abbassando di scatto lo sguardo.
William le stava sfiorando un avambraccio. Le lunghe dita scivolarono verso il gomito, accarezzando il guanto.
Anna dovette resistere all'impulso di tirar via la mano.
Voleva che la lasciasse. Eppure, allo stesso tempo, inconcepibilmente, voleva che continuasse.
William accorciò le distanze di un passo. Guardava Anna come l’aveva guardata sulla strada per East Farleigh. E, come quel pomeriggio, Anna sostenne lo sguardo ceruleo. Ma non si chiese il perché del respiro corto e della testa leggera. Disse soltanto, con durezza: «Cosa c'è?» La disgustava immaginarlo nelle vesti di amante della vecchia zia Woodhams. La irritava che lui fosse anche solo complice o confidente.  Ancor meno trovava sopportabile la seta che separava la sua pelle dalla mano dell’uomo. Avrebbe voluto colpirlo e obbligarlo a dire la verità: sulla nursery, sulla zia Woodhams, sulla fontana. E avrebbe voluto baciarlo, con ferocia, con meno pietà di un lupo che squarcia la gola della preda.
Willliam schiuse le labbra. «Dovete concedermi la possibilità di parlarvi, in modo aperto e onesto.»
«Riguardo a cosa?»
«Riguardo a quel che è—»
Un’esplosione riecheggiò nella casa.











➽ Note.
È stata una settimana piena, ma ce l’ho fatta ad essere puntuale con il capitolo del venerdì. Avevo promesso un doppio aggiornamento: domani pubblicherò il capitolo undicesimo. Di nuovo grazie di cuore a chi legge e a chi commenta! Prometto che a questo giro riuscirò a rispondere alle vostre gentilissime recensioni.
Le tre canzoni nominate nel capitolo (Woodman spare that tree, Fairy wedding waltz e Come into the garden, Maud) sono delle cosiddette parlour songs: un tipo di musica popolare che, come suggerisce il nome, era eseguito nei salotti delle case della classe media, da cantanti e pianisti dilettanti. Il monaco Ambrosio di cui parla William, invece, è un personaggio del romanzo gotico Il Monaco, scritto da Matthew Gregory Lewis alla fine del Settecento.

   
 
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