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Autore: _Blanca_    30/07/2016    3 recensioni
«Mi segue» disse Anna.
«Di che cosa parlate, miss Hawkins? Chi vi sta seguendo?»
«La morte.»

Ottobre 1875. Dalle coste della Nova Scotia, Anna Hawkins si imbarca per l’Inghilterra, dove vivrà con gli zii Woodhams, ricchi borghesi del Kent. Anna sa che vivere nel cuore dell'Impero, tra i bianchi sudditi della regina Vittoria, non sarà semplice. Lei è una Metis. È figlia di un inglese, che ha fatto fortuna come cacciatore di taglie, e di una donna della Prima Nazione. Ma Anna sa anche di non poter tornare indietro. Il suo viaggio è una fuga. Una fuga dalla solitudine, dalle responsabilità, da un destino che la terrorizza. La nuova esistenza nel Kent, tuttavia, si rivelerà diversa da qualsiasi speranza o timore. Anna dovrà affrontare i segreti di una vecchia casa e di una stanza che non deve mai essere aperta; dovrà tenere testa a una zia decisa a odiarla e a uno scrittore di racconti del terrore, capace di dare un’impronta fin troppo realistica agli incubi di carta e inchiostro. E, sullo sfondo del tutto, toccherà a lei risolvere l’enigma di un misterioso suicidio.
Genere: Horror, Mistero, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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XI. La morte nello specchio





Anna avrebbe riconosciuto un colpo d’arma da fuoco anche in mezzo a una tempesta.  Tirò via la mano, raccolse malamente la gonna e corse su per i ripidi scalini, incurante di William, che prima la pregò di fermarsi, poi si vide costretto a tenerle dietro. In cima alla prima rampa di scale, era quasi buio; l’unica lampada accesa, tuttavia, rivelò la presenza di una persona, nel corridoio. Era una cameriera: si torceva le mani, davanti a una porta chiusa. Trasalì, accorgendosi della presenza di uno dei padroni.
«Susan, che cosa fai qui?» domandò William, avvicinandosi alla domestica.
Anna lo seguì.
«Ero a metà della scala di servizio, quando ho sentito quel gran botto, signore. Così sono corsa su, ma non ho trovato nessuno. Solo... ecco...» Indicò la maniglia. «Vedete: lo studio è chiuso a chiave.»
William corrugò la fronte, ma non si scompose. Fronteggiò la porta e testò la veridicità delle parole della cameriera: strinse la maniglia, provò a ruotarla; scuotette e strattonò.
Ma la porta era davvero chiusa.
«Va a prendere una copia delle chiavi, per favore.»
La cameriera obbedì, sfilando in fretta, e a testa bassa, accanto ad Anna.
«Ma non sentite questo odore?» disse lei, impaziente, a William. «È polvere da sparo. Avete armi, in casa?»
«Armi? No... assolutamente.»
«William! Che cosa sta succedendo? Cos'era quel rumore?»
Clifford aveva appena fatto irruzione nel corridoio, seguito dalla fazione maschile dei suoi invitati. In un attimo, il corridoio si riempì e Anna si ritrovò vicino alle scale, allontanata con galante prepotenza dalla porta. Sentendo borbottare di tubi del gas scoppiati, inspirò, strinse il ventaglio e morse un labbro. Si accorse che lo zio Woodhams non era salito. Ma udiva distintamente l’agitato vociare di voci femminili, levarsi dall’ingresso, e immaginò che fosse rimasto con le signore.
Passi frettolosi, su per le scale, annunciarono l’arrivo di Augusta Hall. Ledford e la cameriera di poco prima la seguivano. Tra le mani inguantate della signora Hall tintinnava un mazzo di chiavi. Gli uomini le cedettero il passo, lei raggiunse il marito e a lui affidò a lui le chiavi.
Anna udì lo scatto della serratura.
Poi, silenzio.
La porta era stata aperta, ma il muro di gentiluomini non permetteva ad Anna di vedere lo studio, per quanto si sforzasse di allungare il collo. Nessuno parlava. Nessuno si muoveva. Infine, un lieve scricchiolio: qualcuno, forse Clifford, doveva essere entrato nella stanza.
Una voce femminile urlò. Fu un grido a pieni polmoni, di strazio, di orrore, da far gelare il sangue. Un crescendo di mormorii agitati riempì il corridoio, e un coro di allarmati «Che succede?» giunse dal piano inferiore. Gli uomini, ammucchiandosi sulla soglia, finirono col bloccarne l’accesso. E Anna, in preda a un sussulto di angoscia, perdette la pazienza e si fece largo fino allo studio a suon di gomitate. Raggiunse la soglia. Entrò. Fu William ad afferrarla per un gomito, nell’istintivo, quanto inutile, tentativo di risparmiarle la vista.
Non c’era luce nel piccolo studio, all’infuori del tremulo chiarore dei lampioni in strada. Là, nella penombra, Walter Woodhams giaceva supino sul pavimento, in tutta la sgraziata e cruda goffaggine della morte: il capo riverso, la bocca aperta, gli occhi spalancati; nella mano destra stringeva una rivoltella. Il sangue inzuppava il tappeto, diramandosi attorno alla testa, come una macabra aureola. Ma non c’era solo sangue in quel grumo nero tra i soffici capelli bianchi; e non era solo sangue quel che macchiava la parete alle spalle dello zio.
Anna non urlò. Né accennò a un qualsiasi movimento. Stava lì, a fissare il corpo dello zio, incosciente del dolore al petto e del bruciore agli occhi: non respirava, non batteva le palpebre, non udiva nulla. Lo scroscio della pioggia, i singhiozzi di Augusta Hall, che nascondeva il viso contro il petto del marito, le espressioni di orrore e incredulità: le vorticavano attorno ma non raggiungevano la sua coscienza.
Non vide neppure l’unica persona abbastanza coraggiosa da avanzare nello studio: Merrik aveva intravisto qualcosa, abbandonato sullo scrittoio. Era la chiave dello studio; ed era appoggiata sopra a un foglio, sul quale il giornalista lesse una frase. Una ― una soltanto.
Vivian, tua è la colpa.

*

La pioggia e l'ora tarda non trattennero un folto campanello di vicini dal radunarsi al cancello di Ellsworth House. La notizia del suicidio del ricco Walter Woodhams si era già sparsa in King Street. All'alba, l'intera Maidstone ne sarebbe stata al corrente.
Le donne della casa, domestiche comprese, avevano avuto bisogno di sali, ventagli e braccia maschili. Alcune erano ammutolite, la maggior parte era scoppiate in un pianto. Tra i gentiluomini, c’era chi aveva cercato vigore nel mobiletto dei liquori.
Ma Anna... Anna era rimasta impassibile. Non era svenuta. Non aveva pianto. Non si era disperata.
Margareth Honeycutt, con gli occhi gonfi e un fil di voce, aveva sussurrato che «quella Hawkins» doveva essere la progenie di selvaggi senz’anima se riusciva a restare di ghiaccio. Anna l’aveva udita, ma non si era presa il disturbo di smentirla. In effetti, Anna non aveva rivolto la parola a nessuno, a eccezione dell’ispettore Barnemann.
L’ispettore ― un magro quarantenne, dai capelli rossicci e i modi pragmatici imposti dal suo mestiere ―  si era presentato a Ellsworth House insieme a un sergente di polizia, Hopper, due poliziotti e un medico legale. Dopo aver esaminato lo studio, mentre nel tinello della servitù, Hooper raccoglieva le testimonianze dei domestici, in salotto l’ispettore Bernemann aveva ascoltato invitati e padroni di casa. La signora Woodhams, crollata in uno stato semi-catatonico, era stata portata in una delle camere e affidata alla sorveglianza del dottor Easton, perciò Bernemann aveva chiesto ad Anna di riconoscere la rivoltella. E Anna la riconobbe. Era il revolver LeMat che lo zio teneva nella vetrina dello studio di Bon Fleur Place.
Era innegabile dunque che si trattasse di un suicidio.
Clifford Hall, il dottor Easton e il colonnello Cross avevano raccontato che il signor Woodhams era rimasto in sala da pranzo di sua iniziativa: voleva terminare il sigaro. Tutto doveva essere accaduto nei pochi minuti successivi: mentre nel salone si suonava e si conversava, il signor Woodhams doveva essere salito al piano superiore; nessun domestico, tuttavia, dichiarò di averlo incrociato all’ingresso. Woodhams era entrato nello studio e si era chiuso a chiave. Aveva scritto un ultimo messaggio al mondo e poi, puntando la canna contro il palato, aveva premuto il grilletto.
Adesso, dietro la finestra del terrazzino, Anna guardava la carrozza nera portare via la cassa. Era sola, lassù, nel corridoio del primo piano, dove quell’unica lampada a gas continuava a sibilare. Anna era immobile: le braccia lungo i fianchi, le labbra serrate, gli occhi asciutti e lo sguardo assente. Ma il cuore non era ghiacciato, no. Era a pezzi. E doleva tanto ferocemente da soffocare la capacità di riflettere. Lo zio Woohams era morto, ma Anna non ce la faceva ad afferrare quella nuova realtà. Il pensiero le scivolava via, come fosse fumo. Persino le voci al piano di sotto somigliavano a voci di spettri irreali. Ma era poi reale il secco scalpiccio di zoccoli che portava via suo zio? Ed erano reali le persone in strada, che si agitavano sotto la pioggia, come ombre inquiete?
Ora, c’era qualcuno dietro di lei. Anna vide il riflesso nel vetro. Ma quando si fosse avvicinato non avrebbe saputo dirlo.
William, in silenzio, le venne vicino fino a fermarsi a meno di un passo.
Nessuno dei due disse nulla.
L’uomo poggiò le grandi mani pallide sulle spalle di Anna: delicatamente, senza stringere, quasi con timore.
Anna non si mosse. Guardava giù, in strada, oltre il terrazzino.
Poi, piegò le labbra in un mormorio atono: «Mi segue.»
William esitò, prima di osare una domanda.
«Di che cosa parlate, miss Hawkins? Chi vi sta seguendo?»
«La morte.» Anna avvertì la presa dello scrittore farsi impercettibilmente più pressante. E continuò: «Non importa quanto io vada lontano, continua a seguirmi. Lo farà sempre. È la maledizione della mia famiglia.»
Da William giunse un altro pesante silenzio.
Anna non seppe mai se fosse stata lei a voltarsi e a cercare l’abbraccio, o se fosse stato l’uomo a sospingerla. Fatto sta che accadde. E William la tenne contro il proprio petto, con la delicatezza di chi maneggia una statuina di cristallo. Anna scorse sé stessa, avvolta nelle braccia nere dello scrittore: fino a quel momento, non si era minimamente accorta del lungo specchio ovale, sulla parete. La sua mente sconvolta riesumò un bizzarro ricordo. Tanto tempo prima, aveva sentito  dire, da gente superstiziosa, che in una casa colpita da un lutto la prima persona a guardarsi allo specchio sarebbe stata la prossima a morire.




   
 
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