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Autore: Mary_la scrivistorie    31/07/2016    2 recensioni
Terence Hewitt è un bambino cresciuto in un modo un po’ speciale: erede dei lasciti di un nonno scrittore, ha trascorso una vita tra carta e penna. Da quando il nonno ‒ il suo Mentore ‒ è morto, ha abbandonato questa sua passione per dedicarsi esclusivamente all’Alchimia. C’è qualcuno che però non si trova d’accordo con questa sua reclusione e gli lascia strani messaggi: è un segno del Destino quando cadono lettere dal cielo?
[Prima classificata al contest “C’è posta per te!” indetto da iaia86@; seconda classificata e vincitrice del “Premio Calliope” al contest “[Multifandom & Originali] Lucky Star Contest” indetto da BlackIceCrystal; ha partecipato, inoltre, al contest “E all’interno cosa c’è?” indetto da milla4 sul forum di EFP.]
Genere: Fantasy, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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L e t t e r e  d a l  c i e l o


 
*


 
Note introduttive:
Premetto che introdurre questa storia un po’ mi emoziona: l’ho scritta velocemente e ferocemente e, a prescindere dal risultato, l’ho amata. Anche se ho inserito gli elementi Fantasy. Anche se ci sarà un sacco di gente che non concorderà.
Ho amato scriverla e buttarla giù, e questo primo capitolo è il frutto di una meditazione attenta della mia stessa mente ‒ vi avverto: non mi assumo la responsabilità di ciò che ci frulla in questi giorni.
Dai, un po’ di follia non guasta mai. Alla fine troverete una sfilza di note dal testo: già impreco al pensiero di dover stilare tutta la lista. XD
Un ringraziamento speciale a chi ha recensito la storia che introduce questa [JulyChan e Amaranthine] e spero che neanche questa vi dispiaccia!
Un caro saluto ai miei lettori: dai, la monotonia sarà breve, dal capitolo II comincia l’azione!
Un bacio dalla vostra fedele e svampita Mary.


 
Capitolo I - Un messaggio dalle nuvole
 
*
 
«One of these days the sky’s gonna break and everything will escape and I’ll know
One of these days the mountains are gonna fall into the sea and they’ll know...[...]
»

 
Terence Hewitt era assorto, come la maggior parte del tempo: se ne stava , meditabondo sotto il suggello della pioggia che gli lambiva prepotentemente la pelle che sbucava dalla giacca, seduto sulla pietra imperlata di cristalli d’acqua dei gradini di casa sua, cingendosi le spalle con le braccia magre ed eburnee, come a proteggersi da un gelo invisibile ‒ anche se la sua costituzione corporea era pressoché ipotonica ed era quindi un rimedio inutile.
Non che gli importasse più di tanto del suo aspetto fisico: il suo chiodo fisso, da quando suo nonno se ne era andato in cielo, era scavare nei più ottenebrati meandri della scienza ed esplorarli insistentemente fino a raggiungere il progresso. Il momento della “metamorfosi” era l’unica speranza che gli faceva proseguire il suo cammino in quella selva oscura e tenebrosa [1] che era la vita. Terence combatteva più che altro per la causa dell’umanità che per quella individuale: reduce di marchi invisibili ma vibranti d’Amore, s’era rifiutato di ridursi ad essere un artista tossicodipendente com’era stato in gioventù suo nonno Daniel e aveva scelto il percorso della Scienza, costellato di una grande varietà di risposte ‒ Terence ne aveva un frustrante, disperato bisogno.
La Scienza lo ammaliava molto ma era ancor più stregato dalle meno note “vie di mezzo”, le scienze che ricercavano la metodologia della logica per applicarla in tutt’altri settori del sapere. Uno degli ambiti che più lo intrigava era l’Alchimia: miscuglio dei temi di Fisica, Chimica, Astronomia e ricca di sfaccettature della dottrina dell’Orfismo [2], era un’arte densa di sottigliezze che stuzzicavano inevitabilmente la sua inestinguibile sete di conoscenza.
Terence si era informato dettagliatamente riguardo ai circoli d’Alchimisti di Londra e ne aveva frequentato anche qualcuno; tuttavia si era trovato costretto a ripudiarli poiché erano perlopiù affascinanti farse che avevano lo scopo di attirare quanta più gente possibile e di organizzare festini e orge per i tizi più eccentrici e folli. Nessuna di quelle sette studiava l’Alchimia vera e propria, quella che interessava a lui.
Aveva dunque cominciato a formarsi da autodidatta, sfogliando le letture che trovava in biblioteca e nella libreria di casa sua: aveva rimediato spunti interessanti per le sue indagini, soprattutto in merito alla questione di Sulphur et mercurius [3]. Terence si impegnava metodicamente in quella materia sconosciuta che l’appassionava così tanto ed era capace di divorare intere serie di tomi in una singola giornata: spesso era così coinvolto da quelle tesi filosofiche da trascorrere notti insonni piegato sulle pile di libri, ad aspirarne la fragranza cartacea e ad assimilare ogni concetto contenuto in quelle sacre pagine. Spesso gli s’offuscava parzialmente la vista durante la lettura ed era questo il principale ‒ e fastidioso ‒ motivo per cui interrompeva i suoi studi, per concedersi appunto una manciata d’ore fra le braccia di Morfeo. Il mattino dopo si ridestava all’alba per continuare il suo lavoro con smaniosa perizia. Nell’arco di un mese, Terence Hewitt aveva imparato già tutte le nozioni essenziali dell’Alchimia, e ne era assurdamente compiaciuto: nonostante i suoi occhi fossero solcati da livide occhiaie e la sua pelle fosse innaturalmente smunta, il suo volto sprizzava gioia da tutti i pori e questo rassicurava la madre che, in cuor suo, era segretamente preoccupata per la mania del figlio per l’Alchimia. Lui se n’era accorto e credeva che forse le ricordava troppo il proprio padre.
Terence non si era più confidato con nessuno da quando era deceduto il nonno: aveva perfino smesso di frequentare la libreria, il soave luogo d’incontro fra lui e la sua dolce Musa. Per anni era stato solito entrare in quel luogo fiabesco e riemergerne più fresco e vivo che mai, reduce dell’incantesimo del fatale bacio dell’Ispirazione. Per anni aveva seguito la via del nonno, come un apostolo fiducioso, riponendo nella scrittura la sua assoluta dedizione ed abbracciando ogni volta il divino intervento di Lei, che sbucava tra gli scaffali o negli alvei più sfavillanti dei suoi sogni di mezz’estate.
Quando suo nonno se n’era andato, tuttavia, tutta la sua passione era scemata via dalle sue membra, raggiungendolo in cielo, via per sempre. Come aveva fatto tanti anni prima il suo mentore, aveva allora riposto in un cofanetto la sua penna stilografica, dove ancora giaceva intatta: si trattava di un eterno giuramento, una promessa stretta sotto lo scintillio degli astri, sotto la luce del firmamento. Terence Hewitt non era più uno scrittore.
In quegli anni, aveva avuto nostalgia di afferrare lo stilo e di riempire le sue pergamene di caratteri traslucidi ed aure invisibili; di vivere nella carta e nelle effimere eco delle parole. Gli era mancato ascoltare ogni giorno le dritte di nonno Daniel ‒ che aveva riportato con fedeltà e cura in un’agenda tascabile dalla rilegatura di cuoio logoro ‒ e i suoi instancabili tentativi di applicarli immediatamente: Terence era stato uno scrittore molto impaziente. Suo nonno l’aveva talvolta reguardito in merito a questa sua caratteristica, che aveva definito come il suo «difetto fatale». Ogni scrittore, secondo suo nonno, ne possedeva uno; «E il tuo?», aveva chiesto più volte lui durante quei felici anni d’infanzia. La risposta era stata: «La superbia, figliolo. E, credimi, è una gran brutta bestia.»
Terence s’era domandato più volte se non fosse stato il «difetto fatale» del nonno ad averlo allontanato a suo tempo dalla scrittura, ma non ebbe mai il coraggio di chiederglielo. S’accingeva a scrivere, rendendolo fiero di lui, buttando giù tutte le parole che gli venivano in mente ed esprimendo ogni suo stato d’animo. Si era sentito nudo, privo di vincoli ‒ la libertà nelle sue sfumature più pure ‒ così come di barriere che lo difendessero dalla maestosità dell’aldilà, degli sconfini dell’“oltre”. Si era sentito a tutti gli effetti umano, vittima dell’immensità delle parole e viva preda degli istinti più ancestrali e primitivi. Aveva concentrato le sue energie più nello smarrimento in quella criptica seconda vita, piuttosto che a porsi degli esiti: dopotutto era stato bambino anche lui, attratto dall’idea di un universo parallelo più che di un labirinto di risposte. Quantera stato sciocco.
Terence Hewitt aveva preferito l’Alchimia alla Scrittura, e con questa scelta aveva ricevuto un altro sigillo da parte del Destino. Stavolta non intendeva perderlo: avrebbe dedicato quante più ore possibili al suo nuovo “svago” e avrebbe acquisito le competenze che presupponeva il mestiere da cui era così deliziato.
Le soffuse eco che sopraggiunsero al suo orecchio gli rammentarono il tepore dei ricordi in cui la voce ‒ morbido velluto tessuto d’amarezze ‒ del nonno gli scaldava il cuore quando soleva riprenderlo con cipiglio paziente ed amorevole; o quando gli arruffava i capelli con quei indimenticabili sorrisi raggianti per i quali in quel momento Terence avrebbe pagato; o quando si bloccava a metà strada con gli occhi velati smarriti nel passato ed il nipote si ritrovava a invidiare quel mondo estraneo che gli rubava talvolta l’anima del nonno; o quando gli raccontava delle splendide persone che lo avevano sostenuto durante la sua vita, persone insignificanti ma indelebili come la signora Jordan e il misterioso Z. Persone che suo nonno Daniel non aveva mai dimenticato, neanche quando il tumore ‒ che era fatto di lui ‒ aveva invaso lentamente ogni centimetro del suo corpo ormai deturpato ed arrendevole.
Terence, quella notte d’inverno, aveva perso non solo un nonno al quale era tanto affezionato ma anche il suo Mentore, colui che gli aveva insegnato fondamenta di Vita. Colui che lo aveva condotto nei sentieri della conoscenza e che lo aveva guidato verso la via della Redenzione.
Daniel Hewitt però era scomparso. Di lui non rimaneva altro che un vecchio e consumato stilo, interminabili papiri di parole totalmente distaccate dalla sua esistenza e un malandato taccuino che citava solamente i suoi discorsi intrisi di saggezza e vecchiaia ‒ di Vita.
Lui portava quel piccolo diario sempre con sé, perché quel minuscolo e tiepido rigonfiamento in tasca ‒ all’altezza del cuore ‒ lo rassicurava quanto bastava per andare avanti: era come un marchio, quasi a dire «Io sono sempre con te, Terence», quasi a illuderlo di poter ancora assistere a quelle preziose lezioni di Vita che gli erano state sottratte da un po’.
Estrasse dal taschino l’agenda e la consultò senza indugio: un sorriso malandrino, che non fioriva su quelle labbra da molto tempo, illuminò il volto del ragazzo che s’abbandonò alla lettura di quelle parole maledettamente vere.

Prima di tutto, noi artisti siamo uomini che vogliono essere inumani [4]. Lo diceva Apollinaire e lo dico io. Per quanto possiamo provarci, Terence, quelli come noi non appartengono alla razza umana; siamo eredi piuttosto del lignaggio quasi estirpato dei figli dellArte. Viviamo dei nostri talenti e della nostra vanità ‒ pura superbia, come ti ho già detto tante altre volte. Impara questo, e saprai ben presto chi sei.

Leggendo, Terence ritrovò le risa che erano andate perdute insieme a suo nonno. Tuttavia, un sapore dolceamaro tornò a infestargli la memoria: non era più un Artista, lui. Aveva scelto di essere qualcos’altro, un intellettuale, un rigoroso seguace del sapere. L’Arte non faceva più parte di lui: era sfuggita al suo controllo e s’era rintanata in qualche altra anima.
La sua era ormai già saldamente imbrigliata a Terra, senza avere l’opportunità di volare. L’espressione di Terence si era fatta vacua ed intorpidita, mentre il ragazzo rifletteva su chi era in quell’istante. Era forse una mente in metamorfosi, o brancolava nell’incertezza delle tenebre? Sfogliò bramosamente altre pagine del taccuino, volgendole alla sua vista e confrontando le memorie che corrispondevano a ciascuna proposizione. Leggeva, anziché scrivere, come soleva fare di recente.
Ancora non aveva recapitato la lettera del cielo.
*
 
«One of these days letters are gonna fall from the sky telling us all to go free
But until that day I’ll find a way to let everybody know that you’re coming back,
you’re coming back for me.
»

La lettera gli arrivò una notte di mezz’estate, qualche mese dopo, mentre stava contemplando l’orizzonte in riva al mare. In remota lontananza, una tempesta si stava avventando sulla landa scura dell’oceano. Lui era rannicchiato su una piccola sporgenza del promontorio, con le mani incrociate sulle ginocchia e lo sguardo smarrito nella danza delle onde, accompagnata da un dolce crepitio dovuto allo scontro con gli scogli: era uno spettacolo di sconvolgente bellezza. Se fosse stato un artista, avrebbe volentieri celebrato come meglio poteva le sensazioni che gli suscitava quello scenario d’incanto; avrebbe seguito senza esitazioni la penna che avrebbe ben fluito sulla carta sotto i suggerimenti del canto del mare; avrebbe intriso la pergamena degli scorci di Vita che quell’idillio gli regalava; avrebbe fuso cuore e mente fino ad esprimere al meglio il significato di quel mistico rituale della Natura.
Ma non era più uno scrittore.
In quei mesi, Terence s’era impegnato ad approfondire ossessivamente i suoi studi d’Alchimia. Sua madre, apprensiva, s’era a lungo preoccupata per il suo aspetto scarno e malaticcio e l’aveva costretto a raggiungere la famiglia alla loro villa al mare nel distretto di Kerrier, in Cornovaglia.
Lui aveva sempre odiato le vacanze al mare: non gli piaceva l’acqua, neanche un minimo, se non per osservarla e ispezionarla. Aveva raccolto vari campioni e condotto analisi in laboratorio per esaminare l’elemento secondo le teorie degli Alchimisti – ma questa è un’altra storia. Ciò che era certo era che Terence Hewitt era diventato un maniaco dello studio e della conoscenza: sapeva ormai ogni cosa riguardo quell’ambito. Era fiero di tutto ciò che aveva imparato sui libri e dall’esperienza che aveva acquisito con la pratica degli esperimenti consigliati dai suoi volumi.
Ormai era diventato un Alchimista esperto: la cosa gli piaceva. Era ormai molto versato in quel frangente: sapeva destreggiarsi tra i fattori numerici e quelli astrali e riconoscerli subito.
Stava appunto meditando compiaciuto sulle sue competenze, quando alzò gli occhi verso le stelle notturne ‒ sempre dedito alla sua silenziosa venerazione ‒ e uno scintillio catturò la sua attenzione. Barlumi di candore si distinsero nel cielo notturno: qualcosa stava aleggiando nell’ombra, precipitando dolcemente verso il mare. Terence mise a fuoco corrugando la fronte ed in una manciata di secondi riconobbe l’oggetto volante: si trattava di una lettera, con tanto di sigillo di ceralacca ‒ a giudicare dal piccolo cerchio rossastro sul colore inequivocabile della carta.
Dopo una serie di leggiadri fruscii guidati dagli spifferi dal vento, che la trascinava a destra e a manca, la lettera calò in picchiata verso la superficie dell’acqua. Avido di curiosità ‒ quel demone che si nascondeva nell’animo del ragazzo e gli prosciugava tutta la sua linfa vitale ‒ Terence si alzò di scatto e si sporse più del dovuto oltre la scogliera. Troppo tardi.
La lettera aveva già superato l’invalicabile confine della linea parallela all’altezza a cui si trovava lui: stava svolazzando sempre più in basso precipitando con maggior velocità. Il ragazzo si piegò aggrappandosi alla roccia estrema del dirupo ed osservò la lettera trasformarsi in un punto minuscolo e argenteo che alla fine, sempre più distante e fioco, accarezzò l’acqua con un armonioso sibilo d’aria.
Terence studiò per breve i lievi movimenti della lettera ormai impregnata del sigillo marino, poi fece due calcoli e decretò che la distanza fra lui e l’oceano non era poi così spropositata: si trattava forse di dieci metri o giù di lì. Se fosse stato impavido, si sarebbe senz’altro rallegrato dell’opportunità di una tale avventura e, senza tante esitazioni, si sarebbe tuffato per acciuffare quella maledetta lettera. Chiunque l’avrebbe fatto, e lui aveva bisogno di svelare il contenuto di quel messaggio: la sete di sapere gli stava letteralmente divorando lo stomaco. Percepiva l’insaziabile languore di quell’avidità farsi strada fra le sue membra ed appropriarsene gradualmente, facendo leva sull’arrendevolezza dei suoi muscoli e del suo cuore.
Se fosse stato impavido, non avrebbe indugiato a saltare e a soddisfare la sua sete di conoscenza. Cosa c’era, allora, che lo manteneva sulla terraferma?
La paura, innanzitutto. Era da un sacco che Terence non nuotava; e ancor di più era il tempo dal suo ultimo tuffo: non sapeva neanche se il suo corpo rammentava le basi essenziali. S’era del tutto dimenticato dei meccanismi che il corpo azionava quando si trovava in acqua: non sapeva se sarebbe riuscito a risvegliare in orario le sue terminazioni nervose mai allenate. Non sapeva se sarebbe sopravvissuto a quella bravata adolescenziale.
Non che ne avesse mai combinate: era sempre stato il tipo taciturno e misantropo, che preferiva mille volte contemplare una landa desolata in santa pace che partecipare a una festa caotica e chiassosa. Sua madre in origine ne era stata sollevata; in seguito aveva invece capito che c’erano cose ben peggiori di una crisi di ribellione giovanile. Terence non ne aveva mai avute, tuttavia era stato afflitto da un’altra catena di problemi, di radice più grave e traumatica. Sarebbe stato meglio vivere un’adolescenza comune a ogni altra, piuttosto che rinchiudersi nella propria mente ‒ con il lucchetto ‒ dopo la morte del proprio Mentore.
Terence non aveva mai infranto le regole: s’era sempre comportato da figlio modello, studente modello, uomo modello. Forte, ponderato, brillante: era così che lo vedevano gli altri. E lui, lui come si vedeva? Cercò di pensare a se stesso ma tutto ciò che gli balenò alla mente fu un paio di pupille vitree e inerti, quelle che tante volte aveva esaminato allo specchio ammirando la propria immagine. Era la sola cosa rilevante del suo aspetto: la proiezione dei suoi occhi spettrali, dapprima chiari e luminosi, ora invasi dall’ombra. Era ovviamente tutto celato dal suo animo astruso che non concedeva agli altri d’essere analizzato.
Il ragazzo fissò un’altra volta il mare sotto di lui e pensò che sarebbe senz’altro morto, se si fosse tuffato. Non c’era alcuna garanzia che l’acqua in quel punto fosse profonda abbastanza da permettergli di tuffarsi; non c’era alcuna garanzia che sarebbe uscito indenne da quel manto d’onde; non c’era alcuna garanzia che avrebbe scovato la lettera o che questa avrebbe resistito alle insidie del fondale.
Per un metodico studioso come lui, tutte queste incertezze equivalevano ad un solo esito: mai e poi mai. Stava già per voltarsi quando, al chiarore dell’argento lunare, la lettera ‒ un punto lucente in mezzo alla notte dell’oceano ‒ sfavillò, quasi a reclamare la sua attenzione.
Pensò che era già immerso nelle tenebre fino al collo e ne evinse che una in più non poteva guastare.
Contro ogni sua aspettativa, serrò le palpebre e si lasciò precipitare nel vuoto.
Contrariamente a quanto credeva, non ci fu alcuna sorta di rassicurante buio ad attenderlo. Sebbene i suoi occhi fossero ben chiusi, percepiva la prepotenza della brezza contro la sua pelle: l’accarezzava, la premeva, la spingeva, la graffiava, l’artigliava, la violava. Era una sensazione insopportabilmente fastidiosa: il vento lo inghiottiva a tal punto da non lasciargli il tempo di respirare. Sentì la gola fiacca ed intorpidita e sperò che quell’inferno svanisse al più presto: i suoi polmoni non ce la facevano più a reggere a corto d’aria. Una pulsazione improvvisa gli colse il petto: il dolore fu un effetto collaterale immediato e inevitabile, mentre i suoi organi bruciavano alla ricerca d’ossigeno e l’arsura dei bronchi non veniva placata. Perfetto ‒ sarebbe morto d’asfissia prima ancora d’annegare. Non sapeva se era un bene o un male.
Anche le sue tonsille andarono in fiamme durante la sua interminabile caduta; provò a tossicchiare ma non ce la fece: la sua bocca sembrava talmente stravolta da non riuscire a eseguire i comandi del corpo. Mentre piombava nel vuoto più totale Terence riuscì a reagire e a spalancare gli occhi.
Finalmente vide ogni cosa: l’aria fluì dentro ai suoi polmoni come conseguenza e, un attimo prima di raggiungere l’acqua, distinse i vellutati e immensi confini del mare.
L’istante dopo, stava oltrepassando il portale dell’oceano, per così dire. Si ritrovò annientato dalla violenza delle onde al di sotto della cresta mentre provava a muoversi e a restare a galla. Con un po’ di fatica, ce la fece. Con il busto aderiva alla gelida acqua notturna; s’accingeva intanto a sfregarsi braccia e gambe con urgenza nel tentativo di procurarsi un po’ di calore e sollievo. Tutto inutile: sarebbe morto d’ipotermia se non fosse evacuato al più presto dal mare. Si scostò i capelli fradici e sgocciolanti che gli offuscavano la vista e si guardò intorno: era attorniato dalle onde che danzavano ininterrottamente per tutto l’oceano. Senza più indugiare e con il gelo che gli lambiva la pelle, sondò la landa marina intorno a lui alla disperata ricerca della lettera caduta dal cielo. Gli s’insinuarono spirali di brividi lungo la schiena e ciò lo costrinse a dischiudere pacatamente le palpebre che gli roteavano incessantemente, accolte da un improvviso torpore. Non riusciva a tenere gli occhi aperti: l’Inferno era finito, voleva soltanto arrendersi dinanzi all’immensità del mare che lo aveva fatto prigioniero. Era stato stupido a tuffarsi: davvero uno sciocco, a comportarsi come un qualunque adolescente. Probabilmente aveva creduto di potersi concedere una qualche sottospecie di anarchica rivincita, per una volta. Probabilmente aveva decisamente sottovalutato il suo buonsenso.
Aprendo gli occhi ‒ una boccata d’aria ‒ percepì qualcosa di bianco luccicare a pochi metri da lui, sott’acqua. Concentrò la mente su quel punto e, raccogliendo un bel respiro profondo, s’immerse quel poco necessario per afferrare l’oggetto. Compiendo uno slancio in avanti sotto la cresta dell’onda, con le dita agganciò un angolo della lettera e la sospinse gentilmente verso sé, sottraendola alla presa del mare.
Cera riuscito. Osservò il premio del fatidico lavoro fra le sue mani: la carta era umida e sottile, intrisa della morbida fragranza della brezza di mare. Non c’era tempo, in quel momento, tuttavia, per i sentimentalismi e per la sua insaziabile curiosità: doveva sbrigarsi prima di morire assiderato.
Braccato dall’insostenibile gelo dell’acqua, arrancò verso un piccolo scoglio e vi si arrampicò di getto, cercando di non appigliarsi a sporgenze scivolose. Con un po’ di tentennamenti raggiunse la cima dello scoglio e si strizzò subito i capelli grondanti d’acqua e di salsedine. I suoi vestiti erano completamente fradici, perciò decise di togliersi almeno la giacca e di lasciarla asciugare sul calcare.
Risolta la faccenda più urgente ‒ la sopravvivenza ‒, si concesse circa mezzo minuto per studiare le piccole increspature della ceralacca e per formulare nel contempo ipotesi riguardo la provenienza del sigillo: riportava due lettere ricurve in rilievo, entrambe scritte in maiuscolo e separate da un punto fermo. La calligrafia era sì elegante e sinuosa, come se appartenesse a un autore provetto, ma stravagante: uno stile che Terence non aveva mai visto. Dopo un iniziale stordimento dovuto all’eccesso di ghirigori, fu in grado di decifrare le lettere: erano una “D” ed una “H”. L’unico nome che corrispondeva a quella combinazione era quello che infestava i suoi giorni e le sue notti e che l’aveva reso così algido e sofferente: Daniel Hewitt, suo nonno. L’uomo che per primo gli aveva insegnato ad amare il sapere e a custodirlo gelosamente nella propria mente. L’uomo che gli aveva perfino aperto il cancello del santuario dei sentimenti. Luomo che non cera più.
Con la sua febbrile avidità, Terence scorse sulla carta con le dita e, arrivato al sigillo, si bloccò appena per poterlo rompere con un brusco scatto. La ceralacca, ridotta in frantumi, scivolò a terra mentre il ragazzo sfiorava il biglietto all’interno, che a differenza dell’involucro era costituito da una spessa pergamena color vaniglia. Lo estrasse senza tanta fretta, sfilandolo con una lentezza metodica e quasi insopportabile, desiderando che le sue speranze non venissero infrante dall’asprezza della disillusione. Constatò con sollievo che non era così: la calligrafia somigliava terribilmente a quella di suo nonno.
Rigirò il foglietto fra le sue dita e lesse ad alta voce quelle parole cadute dal cielo:

Il mondo ha milioni di ragazzi prodigio, Terence. La razza umana non evolve perché scarseggia di geni, quelli pieni dinventiva e perché no? ‒ anche di follia. Non basta essere un prodigio, figliolo: diventa un genio, diventa un eroe ‒ trasforma il tuo mondo, lascia unimpronta per chi verrà.

Terence, pronunciata quella preghiera venata di saggezza, si paralizzò sul posto. Percorse con gli occhi malinconici e vacui la successione di quelle parole che si faceva mano a mano sempre più reale e dolorosa, mentre metabolizzava l’unico responso che poteva offrire.
Terence non era più uno scrittore. Non era più un artista e non era più un inventore. Aveva abbandonato la Scrittura tanti anni prima per una valida ragione: ormai aveva scelto e non poteva ritornare sulle proprie decisioni. Come avrebbe potuto dirglielo, se ne avesse avuto l’occasione? Non poteva disonorare in questa maniera le grandi lezioni che il suo Mentore gli aveva impartito; non poteva sigillare in un cassetto l’Arte che il nonno gli aveva affidato e dimenticarla per sempre; non poteva abbandonare le parole che lo reclamavano. Tuttavia l’aveva fatto ‒ aveva disonorato la sua memoria.
Con il volto sfigurato da un’orribile smorfia di dolore e fremendo per quel terribile pensiero, mollò la presa sulla lettera del cielo ‒ che cadde silente a terra ‒ e fuggì. Corse via più velocemente che poteva da quella cruda sentenza; da quella volontà troppo esigente; da quell’atroce dubbio. Corse via da ciò che era stato in passato e che non voleva che ritornasse ad angustiarlo.


 


L’Angolo di Mary
Salve, lettori [se ce ne saranno]! Questo è il primo capitolo, come avrete capito, del sequel di X&Y. La canzone da me utilizzata stavolta è la bellissima Letters From The Sky dei Civil Twilight, che mi ha ammaliato e sulle cui note ho scritto questa fanfic. Potete trovare il testo qui.
Sono di fretta perciò vi saluto – e ringrazio ancora JulyChan e Amaranthine per la recensione al prequel di questa storia.
Questo capitolo è il più noioso e descrittivo perché il personaggio è preda della malia che su di lui esercita la Scrittura.
Spero che qualcuno si fermi a recensire!
Ci vedremo presto con il secondo capitolo! ^^


[1] Selva oscura: sì, si riferisce al primo canto dell’Inferno, esatto! Per chi non lo sapesse {spero nessuno altrimenti la vostra sapientona Mary vi scuoia vivi} è un’espressione utilizzata da Dante Alighieri nella sua Commedia;
[2] Orfismo: movimento religioso sorto in Grecia presumibilmente verso il VI secolo a.C. intorno alla figura di Orfeo. {Fonte: Wikipedia & Mitico Libro di Filosofia};
[3] Sulphur et mercurius: “si tratta, letteralmente, di "zolfo e mercurio", cioè, nel linguaggio simbolico dell'alchimia, di due essenze primordiali viste nel quadro di un sistema dualistico che ritiene qualsiasi materiale come miscela di questi due componenti, vale a dire di un elemento "in combustione" (zolfo) e di uno "volatile" (mercurio), dotati di gradi diversi di purezza e in un diverso rapporto di mescolanza tra loro.” {Fonte: Wikipedia}
Mi sono documentata attentamente prima di affrontare i temi alchemici dato che non ero molto ferrata in materia, e trovando questa nozione mi è sembrato carino inserirla, quantomeno per conferire veridicità al racconto. ^^
[4] Citazione (riadattata) di Guillaume Apollinaire.
   
 
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