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Autore: _Sherazade_    31/07/2016    2 recensioni
Nel ventiduesimo secolo, il mondo è stato sconvolto dalla rivoluzione di Caliel Justice, decisa a porre fine alle lotte e ad ogni forma di intolleranza.
Ma il potere si sa, corrompe anche l'anima più pura.
Qualche secolo dopo, Rexa, la nostra protagonista sta vivendo il declino di quella società governata da sole donne, nella quale solo i ricchi possono dire di vivere la propria vita.
Lei pensava che avrebbe potuto vivere la propria esistenza nei bassifondi, lavorando assieme ai suoi vicini nei campi, o facendo qualche altro mestiere umile. Ma quel venerdì, Rochel la notò.
Rexa aveva sempre pensato che la sua vita avesse toccato il fondo nel momento stesso in cui era stata messa al mondo. In realtà, lei era sempre stata sull'orlo di quel precipizio, e Rochel le aveva appena dato una spinta.
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Storia partecipante al contest "Coppie su Coppie" indetta da Alexalovesmal sul forum di Efp.
6^ classificata al contest "AAA Cercasi capolavoro" indetto da La_Dama_Del_Lago sul forum di Efp e giudicato da Elettra.C
Genere: Angst, Science-fiction, Suspence | Stato: completa
Tipo di coppia: Shoujo-ai
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
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L'angolo di Shera♥


Salve a tutti, in genere lascio le note in fondo alla storia, ma in questo caso, era doveroso farle all'inizio.
Il genere Shojo-ai, o anche la controparte maschile, Shonen-ai, non sono dei generi che mi piacciono o interessano. L'unica storia a tematica omosessuale che io abbia mai scritto era una fanfic dedicata a Xena. Non sguazzo in questi generi, ma ho voluto mettermi alla prova.


In questo racconto, si può dire che il panorama mitologico greco mi è stato di grande aiuto.
Mi son chiesta, dopo aver anche letto in rete alcuni discorsi di ferventi femministe: Come sarebbe il mondo se a governare ci fossero principalmente donne?
In passato ci furono culture matriarcali, e da quello che ho letto, non erano molto diverse da quelle patriarcali.
La società che andrò a descrivere, è una versione futuristica di quella delle amazzoni.


Il tema del contest per il quale ho scritto questa storia, doveva essere quello delle coppie.

Ma io ho pensato: Non esistono solo amori meravigliosi, non esistono solo coppie perfette, esistono, purtroppo, anche amori corrotti e malati. Amori non contraccambiati.
E la cronaca ci riporta spesso di queste storie finite in tragedia.
Io ho voluto avventurarmi proprio in questo tipo di racconto, tutt'altro che allegro e felice, ma che riflette ciò che purtroppo a volte succede nel mondo là fuori.
L'amore ha mille sfumature, l'amore è fatto di luci e di ombre.
 



 
Tainted Love




Giocherellai con un misto di impazienza e di frenesia con il telecomando.
Bastava solo che sfiorassi l'interruttore posto al centro del piccolo oggetto, e finalmente sarei stata libera.
Avevo atteso quel momento per anni.


Chi avrebbe mai potuto dire che la Grande Rivoluzione del ventiduesimo secolo, avrebbe portato a un tale sfacelo? Chi avrebbe mai potuto prevedere che quelle lotte, un tempo giuste, avrebbero portato a una tale divisione di caste?
Leggendo i libri, rivedendo i discorsi della leader, Caliel Justice, che aveva portato a quella divisione, si intravvedeva un qualcosa di marcio.
Caliel, come il nome dell'angelo che incarnava l'essenza della giustizia e dell'amore. Tutto l'opposto della nostra leader.
Inizialmente quella donna era mossa dal desiderio di eliminare le costanti vessazioni che le minoranze avevano dovuto subire, di abbattere le distinzioni di sesso, razza o orientamento sessuale.
Lo fece. All'inizio.
Eravamo tutti uguali, tutti sullo stesso piano. Fu una grande conquista, e per un certo periodo fummo tutti felici e liberi.
Poi, però, le cose cominciarono a cambiare. La corruzione, e la sete di potere, possono corrompere anche l'anima più incontaminata.


All'inizio del governo di Caliel, il lavoro era meritocratico, uomini e donne collaboravano insieme, e solo chi era davvero in gamba, riusciva a fare carriera. Come era giusto che fosse.
Cominciarono allora ad esserci le prime differenze.
La donna faceva sempre più carriera, mentre all'uomo venivano sempre più affidati ruoli umili, lavori di manovalanza o simili.
Gli uomini, con le loro famiglie, cominciarono ad avere redditi sempre più bassi, mentre le donne di potere, erano sempre più in alto.
Non passò molto tempo che venne eliminata la classe intermedia: o facevi parte dell'élite, o eri povero.
Loro amavano passare nei nostri quartieri, ricordarci come noi fossimo in fondo alla catena; noi non contavamo niente.
A volte ci mostravano atti di pietà, ci offrivano del cibo o dei vestiti dismessi. Degli “straccetti”, come li chiamavano loro.
Ci guardavano, come se fossimo state formiche.
Arrivammo a un tale divario che ci furono delle ribellioni, sedate in fretta, con centinaia e centinaia di morti della nostra classe. Anche loro ebbero delle perdite, ma avevano vinto la guerra.
La nostra situazione peggiorò sempre di più.


Fin dalla nascita, i nostri corpi venivano marchiati: “Non dovete mai scordarvi chi siete e chi dovete servire”, diceva la leader.
Era un atto così violento che molti neonati non riuscivano a sopportare tale dolore, e per questo, dopo quasi vent'anni, decisero di marchiarci una volta raggiunta l'età prepuberale.
Gli uomini finirono per rappresentare la classe povera, nessun uomo era presente nella classe alta. Nessuno.
Inizialmente la classe alta aveva pensato di eliminare il genere maschile, ma la necessità di riproduzione fece sì che non li sterminassero. Un paio di volte al mese arrivavano nei bassifondi, facevano una cernita degli uomini che ritenevano migliori, li caricavano sui carri, e li portavano alla loro clinica. Prendevano da loro quello che gli serviva e li rimandavano a casa.
A volte alcuni non tornavano più, lasciando le loro famiglie nella disperazione più totale.
La paura era la nostra padrona, e noi non potevamo nemmeno provare a ribellarci a quella orribile dittatura, fondata sul principio della giungla: Il più forte vince.


La classe d'élite a volte ci concedeva una scappatoia: offrirci come loro schiave.
Schiava non era la parola che loro utilizzavano, ma era ciò che rendeva meglio l'idea di quello che saremmo diventate se avessimo accettato.
All'inizio si trattava di fare per loro dei lavori, come domestiche.
Arrivavano la mattina a prelevare le donne, le caricavano sui mezzi e le riportavano a casa la sera, dopo aver sgobbato incessantemente per ore.
Quelle donne sostenevano che lo facevano per una giusta causa, per permettere a qualche donna povera di sentirsi meglio, per elevarle dal pattume dal quale provenivano.
La verità era che a quelle donne altolocate piaceva vedere i propri simili ridotti in quello stato di miseria. A loro piaceva sentirsi superiori.
All'inizio sembrava davvero una felice scappatoia per noi, ma poi si rivelò un incubo, e cominciarono gli abusi.
Quelle donne sofisticate e intelligenti, cominciarono a picchiare e ad abusare fisicamente di quelle poverine. Le poveracce arrivavano a casa la sera ricoperte di ecchimosi, con le labbra spaccate, e a volte anche con le ossa rotte.
Nessuno si offrì più, temendo ripercussioni.
Ma non avevamo capito nulla!
Dopo un mese che nessuna si offriva, la nuova leader impose a tutte noi di farci trovare in strada ogni primo venerdì del mese.
Loro sarebbero arrivate, ci avrebbero studiate, e se accendevamo il loro interesse, ci avrebbero portato via.
Chi veniva preso non faceva più ritorno.


Una volta scelsero una donna sposata, con due figli piccoli, la conoscevo, abitava nel mio stesso condominio. Era una donna molto dolce e sensibile.
Il marito si oppose con forza, aggredendo una delle donne soldato che stava trascinando via quella donna, Masha.
Fu un gesto inutile: lo freddarono con una pallottola, proprio davanti alla stessa Masha e ai loro figli. È uno di quei ricordi che ho stampato in testa, a volte mi sveglio di soprassalto di notte: sento ancora le grida straziate di Masha e dei suoi bambini.
Insieme, ci prendemmo tutti cura di quegli sfortunati orfanelli. Loro non avrebbero mai più potuto riabbracciare né il padre né la madre. Masha si era tolta la vita la sera stessa che giunse in città.


Ogni primo venerdì del mese, io me ne stavo tra le ultime file, sperando che non mi notassero.
Vedevo la loro pelle curata, i capelli sempre in ordine, e i bei vestiti, notavo le loro maniere in apparenza impeccabili, fino a che non cominciavano a squadrarci, come se fossimo state delle bestie.
Le odiavo.
Odiavo ogni singola donna che scendeva nel nostro quartiere per studiarci e per sceglierci.
Speravo con tutto il cuore che un'esplosione ci liberasse di tutte loro.
Pregavo ogni singola sera che quel loro mondo così perfetto, secondo loro, potesse rivoltarglisi contro.


Quel maledetto venerdì, però, una di loro mi notò, e quando mi chiese di fare un passo avanti, mi sentii come paralizzata.
Avrei voluto fuggire, ma avevo le gambe incollate al terreno.
- Allora? Non mi hai sentita? - chiese lei con arroganza.
Una delle guardie mi trascinò con forza fino al suo cospetto. Mi tastò il corpo, e d'istinto le tirai uno schiaffo.
Quella donna sorrise, e la guardia mi piantò un pugno così forte nello stomaco, che rimasi piegata a terra per svariati minuti.
Se mi avessero giustiziata, mi avrebbero fatto solo un grosso favore.
Ma non ebbi quella fortuna. Loro non ebbero alcuna pietà per me.
La donna rise, e disse candidamente: - La prendo. - come se fossi stata un vestito di una boutique, o un pezzo di carne dal macellaio.
La prendo... quelle parole, il suo tono di voce... avrei voluto vederla morta.


Lavorai per lei come domestica per svariati mesi, provai a ribellarmi all'inizio, ma le punizioni che mi infliggeva erano talmente dure che alla fine mi arresi. Ma non fu quella la cosa peggiore: lei cominciò a pretendere da me dell'altro...
Ti amo, mi diceva. Ma non era vero, non era vero amore. Lei amava unicamente se stessa.
Odiavo che mi toccasse.
Odiavo che mi baciasse.
Odiavo tutto quello che mi faceva.
Ma dovevo farlo, o mi avrebbero punita. Imparai allora a fingere.
Ma il mio odio non era cessato, e io stavo solo aspettando il momento giusto per punirla.


- Sono a casa, amore. - disse lei quella sera, tornando dal lavoro.
- È andata bene oggi in ufficio? - le chiesi baciandola. Ogni volta era dura trattenere i conati di vomito.
Era una sera come tante in apparenza. I soliti stupidi e futili discorsi.
Invidie fra colleghe, pettegolezzi vari e sciocchezze inutili.
Lei mi amava, me lo diceva sempre.
E col tempo capii che lei si era davvero innamorata. Anche se il suo era un amore corrotto e malato.
Se mi puniva, era perché mi amava, a detta sua. Perché non poteva permettersi di perdermi. Questo mi diceva.
E io cominciai a crederle, mi dimostrava il suo affetto, anche se il suo era un sentimento ossessivo.
Una volta, quando una sua collega venne a trovarci con una ragazza che conoscevo, mi soffermai a parlare con quest'ultima, chiedendole se sapeva qualcosa dei miei genitori.
La serata si era svolta in totale tranquillità, ma quando le due se ne andarono, Rochel, il nome della mia padrona, mi punì selvaggiamente.
La implorai, riferendole quello che io e la mia amica ci eravamo dette, ma la sua gelosia era folle, e non mi ascoltò. Le cicatrici che hanno marchiato il mio corpo, a volte mi fanno ancora male.
- Ti amo, non parlare mai con nessuno se non con me. – il suo attaccamento per me, era così morboso che cominciai ad avere paura, e da allora non potei più avere contatti col mondo esterno.
Per paura che io potessi in qualche modo tradirla con le vicine, ci trasferimmo ai margini della città, ai confini del bosco.
Fingere fu quella cosa che mi permise di sopravvivere.


Sembrava la solita sera sciapa, ma Rochel mi lanciò addosso una bomba che non potevo scansare in alcun modo. Non potevo più perdere tempo.
- Sai, oramai sono sei anni che stiamo insieme, - sei anni che mi tieni segregata, pensai, - potremmo mettere su famiglia.
La forchetta che stavo per portare alla bocca mi cadde rumorosamente nel piatto.
Fare un figlio? Non in quelle condizioni, non per lei!
Non avrei mai portato a termine una gravidanza, perché tra le due, quella che avrebbe dovuto portare in grembo il bambino, ero io.
- Non credi che sia presto? - cercai di farle cambiare idea in ogni modo, parlando delle recenti spese, dell'impegno che un bambino richiedeva, ma Rochel fu inamovibile.
- No, ce la possiamo fare. Ho già preso appuntamento in clinica. - sentii una fitta allo stomaco.
Non c'è più tempo, pensai.


Sgattaiolai fuori di casa nel cuore della notte. Lei dormiva pesantemente, non poteva essere altrimenti: aveva abusato di me anche quella sera.
Tirai fuori dallo zaino, che avevo preparato già da alcune settimane, il mio Mapper.
Aveva l'aspetto di una normalissima penna stilografica, in realtà era una ricetrasmittente, e un segnalatore. Era stato un regalo, dai miei misteriosi amici.
Chi viveva nelle periferie ancora non lo sapeva, ma la realtà era che qualcuno, da qualche parte nel nostro vasto mondo, stava cercando un modo per riportare la società sui giusti binari. Riprendere quella che era l'idea iniziale di Caliel, e non lasciarsi sviare dall'odio e dalla frustrazione.
Un giorno stavo sistemando l'orto in giardino, sentii suonare il campanello, ma non feci tempo a raggiungere l'ingresso, che la persona era già sparita.
C'era solo un volantino, con delle istruzioni ben precise.
Loro mi avevano vista, e mi avevano scelta per aiutarli nell'imminente rivoluzione.
Seguii le loro istruzioni, e cominciò la nostra corrispondenza segreta, fino a che non mi lasciarono la penna.
Per quando sarai pronta.
Le loro ultime istruzioni.


Quando eravamo piccoli, anche noi andavamo a scuola, e io eccellevo in una materia su tutte: chimica. Fu facile per me costruire una bomba a tempo, sfruttando tutto quello di apparentemente innocuo che avevamo in casa.
Giocherellai ancora col telecomando e toccai istintivamente il marchio sulla mia pelle.
È quasi finita.
Mi allontanai sempre più dalla villa, fino a che dovetti arrestarmi, il raggio d'azione della mia bomba era di soli seicento metri, riuscivo a vedere a malapena la casa.
Accesi il Mapper, una voce maschile mi rispose.
Siamo pronti.
Guardai per l'ultima volta quella che era stata la mia cella in questi ultimi sei anni.
È finita, pensai. È finalmente finita.
Presi il cellulare e composi il numero di casa. Rochel tirò su la cornetta, e mi rispose con una tale ansia che sorrisi.
- Rexa, Rexa, sei tu?
- Ci vediamo all'inferno, stronza! - e premetti il pulsante.


 
  
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