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Autore: Mary_la scrivistorie    31/07/2016    3 recensioni
Terence Hewitt è un bambino cresciuto in un modo un po’ speciale: erede dei lasciti di un nonno scrittore, ha trascorso una vita tra carta e penna. Da quando il nonno ‒ il suo Mentore ‒ è morto, ha abbandonato questa sua passione per dedicarsi esclusivamente all’Alchimia. C’è qualcuno che però non si trova d’accordo con questa sua reclusione e gli lascia strani messaggi: è un segno del Destino quando cadono lettere dal cielo?
[Prima classificata al contest “C’è posta per te!” indetto da iaia86@; seconda classificata e vincitrice del “Premio Calliope” al contest “[Multifandom & Originali] Lucky Star Contest” indetto da BlackIceCrystal; ha partecipato, inoltre, al contest “E all’interno cosa c’è?” indetto da milla4 sul forum di EFP.]
Genere: Fantasy, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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L e t t e r e   d a l   c i e l o
 
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Capitolo III - Un messaggio dal Tempo
 
 
Due anni dopo ancora [di nuovo].
 
 
*
 
Era pronta.
Terence strinse la fiala fra le dita, facendo tintinnare il cristallo lucido contro l’unghia dell’indice: lanciò un’occhiata guardinga all’orologio. Erano le undici e mezza di mattina.
Era ancora troppo presto per testare la sua invenzione nuova di zecca, ma decisamente l’ora per godersi il tepore di un buon caffè nel bar “Hourglass” [7].
Uscì dal suo appartamento dieci minuti più tardi, mentre si sistemava il colletto del maglione e giocherellava con le chiavi, privo dell’allegria con la quale qualunque altro uomo avrebbe compiuto quel suo gesto. S’avviò con placida lentezza verso il viottolo dietro casa sua, studiando con minuzia i dettagli delle foglie decidue che s’innalzavano in aria quando erano sopraffatte dalla sferzante e gelida brezza autunnale. Era una scia infinita che si estendeva per chilometri disegnando spirali accese della luce del Sole e rilucenti d’oro. Perso nella venerazione di quel piccolo idillio, proseguì nella sua avanzata fiera ed audace ‒ come non lo era mai stata.
Raggiunse il locale in cinque minuti ‒ la mano in tasca a sfiorare possessiva l’ampolla del Destino di cui aveva recentemente fabbricato il contenuto ‒ e chiese con distacco la sua abituale bevanda. Il bar era una locanda angusta dove regnavano aloni rossastri di luce che incitavano una sensazione d’intimità che, per un ragazzo come Terence, non potevano guastare. Era un posto frequentato più che altro dagli anziani imprenditori di immobili della zona che approfittavano dei comodi sofà di cui era provvisto il bar per sostare una mezz’oretta e concedersi un breve ozio. Il numero di giovani era piuttosto esiguo: ve n’erano forse una dozzina ‒ perlopiù turisti che non conoscevano il luogo e si erano lasciati invitare dall’insegna trabocchetto che da fuori preannunciava una sorta di Anti-paradiso. Terence era immobile nella sua postazione: intorno a lui aleggiava l’aroma del sudore e dei cocktail che, miscelati insieme, producevano un odore nauseabondo.
Le persone s’accorsero di chi era appena entrato e cominciarono a parlottare fitto. Terence Hewitt, lAlchimista autistico, asociale, psicotico... era stato definito in molti modi ed aveva ancora da capire come certe idee potessero sorgere nella mente delle persone.
La gente non ne voleva sapere d’accettare la motivazione che lui se ne stava da solo perché era un tizio solitario. No, no e no: meglio additarlo come un sociopatico da manicomio; o come ragazzo affetto da una grave patologia; o come un criminale con i documenti falsificati ed un passato in carcere alle spalle... Se fosse stato uno scrittore, avrebbe riconosciuto che quelli erano in realtà ottimi spunti per tessere un’allettante trama su un «antagonista».
Ma non lo era più.
Si limitava a scrollare il capo dinnanzi a tanta stoltezza e a sorseggiare il suo caffè amaro ‒ senza dolcificanti ‒ quando l’eco del suono della campana della chiesa di St. Mary-le-Strand [8] sopraggiunse  al suo orecchio.
Era mezzogiorno.
Trrence pensò al volto di Beatrix che aveva riposto fiducia in lui; a quello di Calliope che l’aveva ammaestrato all’Arte; a quello del nonno che gli aveva impartito fino alla morte le più severe lezioni di Vita ‒ e anche oltre. Pensò che quelle erano state le Cause che lo avevano imbrigliato a Terra fino a quel giorno.
Assaporò un’ultima sorsata, posò la tazza vuota e bollente sul banco, e via col vento.
 
 
*
 
 

 
 
Terence piombò in casa e chiuse la porta a chiave in fretta e furia. Gettò bruscamente sul letto il suo marsupio ed estrasse senza indugio la sua preziosa provetta dalla tasca. Osservò bramoso la superficie di vetro che lo divideva dalla sostanza che aveva creato dopo tutti quegli anni di fatidici studi e desiderò che quel confine maledetto non esistesse più. Stava per oltrepassarlo, disse a se stesso per trovare una rassicurazione.
Ipnotizzato dal colore innaturalmente argenteo del miscuglio, passò le dita sul cristallo alla ricerca di un contatto con l’esito del suo arduo lavoro. Ce laveva fatta.
In quegli anni Terence aveva dato finalmente adito alla lettera del cielo e si era impegnato a rispettare le ultime volontà di Calliope e di suo nonno. Aveva studiato per il piacere di farlo ma aveva spremuto le meningi ‒ attingendo a tutto il suo bagaglio delle conoscenze ‒ al fine di innovare, come gli avevano insistentemente suggerito i propri mentori.
E alla fine c’era riuscito: il piccolo miracolo era sopraggiunto anche per lui e gli aveva regalato la giusta dose di fortuna ed illuminazione che l’aveva, nel suo poco, sradicato nel profondo. Tutte le sue convinzioni erano state capovolte: da erede della Conoscenza e seguace di questa in tutte le più svariate forme era diventato un abile traduttore. Traduceva il linguaggio del sapere in labirinti di possibilità e svicoli: il suo compito era esplorare, scavare a fondo nelle terre della Fantasia per trovarvi sbocchi che avrebbero potuto rivelarsi brillanti.
Ed ora era lì, con in mano un infuso bollente e con un mucchio di sogni infranti ai piedi. La decisione da prendere era banale e forse per questo motivo tanto importante: provare o no?
Per tutta la sua vita aveva evitato ogni sorta di rischio, preferendo sigillarsi nel cristallino tepore delle rassicurazioni e delle certezze ‒ nonostante come persona non ne avesse mai avute. Addentrarsi in quell’oceano di dubbi ‒ non molto diverso da quello in cui s’era immerso per salvare la lettera del cielo ‒ era stato come una boccata d’aria: aveva avuto paura ed aveva trattenuto il respiro, ma alla fine aveva concluso che tentar non nuoceva. Anzi, offriva alla sua vista solamente una grande e magnifica moltitudine di portali immaginari.
Terence ‒ sebbene la giovane riscoperta della creatività ‒ non aveva ripreso a scrivere: era davvero terrorizzato all’idea. Era stato diverse volte sul punto di regalare di nuovo la luce al suo stilo sepolto e alle parole che aveva sigillato nel proprio cuore, ma non ce l’aveva fatta: quello era troppo complicato. Non riusciva ad affrontare dirimpetto l’assenza di suo nonno Daniel e di Calliope: gli incubi ed il rimorso l’avrebbero assillato sino a renderlo folle. Non voleva, non poteva.
In quel momento, tuttavia, Terence sapeva chi era: un Hewitt. Avrebbe lottato sino alla fine dei suoi giorni al costo di difendere i valori del proprio nobile lignaggio.
Perciò, quando alzò la fiala che scintillò sotto i barlumi del sole che filtrava dalla finestra, non esitò ad abbeverarsi di tutto ciò che aveva creato, di tutto ciò che era.
 
 
*
 
Tempo. Terence ne percepiva i rintocchi, mentre il vortice in cui era immerso mulinava attraverso le correnti dell’oceano e lo trasportava aldilà delle coste ‒ alla deriva. Attorno a lui, il mare della Cornovaglia ‒ uno scenario che gli era ormai caro ‒ brillava delle rosee sfaccettature del tramonto che in esso si rispecchiava. Eppure Terence rammentava che nella sua realtà fosse l’ora del mezzodì, e non pomeriggio inoltrato.
La risposta gli arrivò istantanea nel frattempo che il turbinio elettrico che lo lambiva lo scorrazzava di qua e di là: non si trovava in un universo in cui il tempo era scandito con rigore, ma si trovava in un piccolo squarcio dell’entità incorporea che era il Tempo. Poteva benissimo essere il tramonto o l’alba: questo altro non era che una nota passeggera della melodia che lo trascinava indietro.
Si guardò intorno e scorse nelle onde che sopraffacevano gli scogli immagini fioche del proprio passato, talmente flebili che pensò che fossero una mera allucinazione: nell’acqua di zaffiro fu in grado di distinguere scorci della propria infanzia, di Calliope e del nonno che gli insegnavano la Vita.
Terence sospirò, sfiancato da quella corsa infinita, e si rassicurò affermando che almeno il suo esperimento non era fallito ‒ stava viaggiando nel tempo. Avrebbe ben presto vissuto i momenti del passato sotto la guida di un’altra delle Muse ‒ Clio, la protettrice della Storia [9] ‒ e avrebbe assaporato i brividi della conoscenza spiritica di un contesto temporale antecedente alla propria nascita ‒ alla propria vita. L’idea lo mandava in uno stato di estasi catartica: era da sempre stato uno dei suoi sogni, totalizzare la propria saggezza personale e conformarla alla vastità del mondo che si offriva alla sua indagine. Era sempre stato uno dei suoi sogni, conoscere i principi di ogni cosa e studiare i collegamenti causa-effetto che si erano sovrapposti nel trascorrere delle epoche.
Perciò, quando s’appigliò al vortice con ogni briciolo della sua forza, il Tempo raddoppiò la sua danza e accelerò.
Un battito di cuore furioso e spaurito tradì la sicurezza di Terence: si sentiva sì in parte come se stesse governando quel mondo parallelo ed immaginario ma al contempo vittima della fatale breccia che quell’Entità stava aprendo sulla via del Destino. E se non avesse ben calibrato gli equilibri spazio-temporali? E se non avesse analizzato a dovere le controversie di una visita nelle vicende storiche? E se non fosse sopravvissuto?
Ormai era troppo tardi pensarci: Terence non era più nella realtà e non poteva rivalutare la sua creazione ‒ sebbene avesse una tremenda nostalgia di casa.
Si disse che era qualcosa che doveva fare: per se stesso, per l’ipnotica Calliope ‒ , per l’ombra ancora vivida di Daniel Hewitt.
S’aggrappò ancora di più alla bufera che lo sovrastava con la sua mortale nebbia argentea e osservò il panorama di fronte a lui che si era intanto radicalmente trasformato: come per incanto, il mare sembrava essere sfociato in un immenso lago ‒ sempre riflettente le eco superstiti del tramonto dorato e purpureo che sormontava con tutta la sua incandescenza l’acqua profonda e gelida ‒ che si trovava alle falde di un’imponente montagna che somigliava al Monte Fuji del Giappone, costellato da lande floride di vegetazione e da un prominente ghiacciaio.
Se non fosse stato a pochi chilometri da quella meraviglia, Terence non ci avrebbe mai creduto: il monte si stagliava sulla distesa oceanica quasi come se fosse un’isola a parte.
Era ancora lì, in piedi in mezzo alle furenti raffiche del tornado, con gli occhi dominati d’oblio smarriti nella meraviglia della Rocca del Tempo. La bufera lo trascinò con un profondo impetp ai piedi della montagna dove si trovava un enorme cancello d’oro costituito da clessidre e sormontato da un orologio grande quasi quanto il Big Ben londinese.
Terence ne ammirò le sfaccettature luccicanti e caotiche: i granelli delle clessidre si mescolavano continuamente gli uni con gli altri, confondendo l’orientamento delle lancette che si muovevano ininterrottamente in direzioni contrapposte e creando una cascata di sabbia che confluiva nell’oceano con ineccepibile armonia. Sembrava che il Tempo compisse una danza ultraterrena prima di stabilire il suo equilibrio universale, quasi come se i suoi “sottintendenti” si consultassero prima di definire il loro scorrimento.
Fu in quel momento che il cervello del ragazzo andò in tilt e lui crollò dinnanzi allo sconvolgente scenario di quella scrosciante pioggia d’oro.
 
*
 
 
«You’re coming back for me
 
Terence si risvegliò con la faccia immersa nel fango: in genere ne sarebbe rimasto disgustato, ma quella era tutt’altra occasione. Aveva ancora bisogno di riprendersi dalla bizzarra vicenda a cui aveva appena assistito e che avrebbe dovuto essere soltanto uno scorcio della sua avventura, se tutto era andato bene. Era perciò più rapito dalla valanga di quesiti che s’affollarono nella sua mente che da altro.
Si guardò intorno e non riconobbe il luogo dov’era finito: sembrava tutt’altra città rispetto a Londra. Regnava un forte odore di smog ‒ proprio come nella sua città madre ‒ , questo era vero, ma lo scenario era, se possibile, ancor più deleterio: era finito in una terra di fabbriche circondate da mucchi di pattume disordinato e dal marciume dei rifiuti organici buttati per strada. Somigliava più ad una discarica che ad un complesso industriale.
Lui si rialzò a fatica, esausto da quel viaggio che l’aveva scombussolato, e osservò ripugnato le scorie ammuffite che aveva appena calpestato. Ottimo, stava camminando nella merda ‒ letteralmente.
Tentò di non guardare in basso e di non annusare quell’infimo putridume mentre s’avviava cautamente verso una catapecchia aperta a ridosso di una delle fabbriche minori. Non sapeva perché ma era incondizionatamente attratto da quel rottame di porta: un impeto d’animo gli suggeriva di addentrarsi in quel capanno e di scovare il segreto che cercava lì.
Esitò un attimo, allertato da quell’impulso sospetto, ma decise di scacciare via quell’inquietudine e di proseguire. Quando s’avvicinò alla baracca e fu in grado di sbirciare al suo interno, constatò che era in rovina esattamente come aveva immaginato: la stanza era squallida, a soqquadro e priva perfino di un briciolo di dignità. Regnava un fetido odore di spazzatura che invase le narici di Terence facendogliele contrarre fastidiosamente: cercò di trattenere più possibile il fiato e di non respirare quell’aria marcia. Le pareti erano a tratti lignee a tratti brunite ‒ in prossimità dell’ingresso ‒ , percorse da venature screziate di mille sfumature di marrone ‒ da un tiepido color argilla ad un mattone intenso.
Con suo sommo stupore, s’accorse che dentro c’era una persona. Era immobile, accomodata su una sedia reclinabile, con la pelle imperlata di sudore e con i capelli quasi del tutto rasati appiccicati sulla nuca.
Quando Terence s’avvicinò di soppiatto, la figura misteriosa si voltò verso di lui. Quel viso era deturpato dall’età e dai marchi di Vita: la sua pelle era bronzea e rugosa, i suoi occhi cangianti di limpide sfumature verde mare e le sue labbra raggrinzite in un’eterna smorfia di dolore.
Non appena piantò gli occhi su quelli del ragazzo, si aprì in un minuscolo, fatidico sorriso e bisbigliò con voce spezzata e debole: «Fa sempre piacere ricevere visite dal futuro. Non è così, Terence Hewitt?».
Tutte le sue supposizioni crollarono dopo aver recepito quelle parole: e così quell’uomo sapeva.  Sapeva chi era, sapeva da dove veniva: incredibile quanto l’anzianità contrapponesse una consolidata arguzia alla decadenza fisica. Terence fissò la sua pelle scheletrica con autentico orrore, spaventato dall’eventualità che potesse sparire da un momento all’altro dalla sua visuale.
Quel vecchio era decisamente decrepito.
Nonostante il suo corpo dovesse aver prosciugato ogni sua energia solo per sostenersi autonomamente e non cadere inerte, il vecchio raccolse fiaccamente un respiro e proferì: «Sì, so chi sei. La ragione è un’altra storia. Tu sei qui per me e per i nostri fati intrecciati.»
Terence si domandò cosa diavolo potesse lui aver a che fare con un vecchio rachitico conosciuto nel passato, quando una minuscola breccia d’illuminazione si dischiuse nella sua mente. Oh. Quel vecchio rachitico era Z, il personaggio che suo nonno aveva celebrato più volte nelle sue opere e che non aveva mai scordato. Un vecchio folle che gli aveva lanciato un anatema d’amore ma a cui aveva voluto tanto bene. Quand’era scomparso dalla vita di nonno Daniel, quest’ultimo aveva a lungo sofferto per l’assenza dell’amico.
«Hai sempre avuto un cervello lampante, non è così? Hai già capito chi sono. La Musa Calliope ha tentato di persuadere anche te: sei l’erede di tuo nonno e guardacaso porti anche lo stesso cognome.»
La sua voce era così flebile che Terence ebbe l’assurdo istinto di afferrargli saldamente le mani e tenergliele. Riconobbe devastato che erano soltanto le eco del ricordo della sofferenza del nonno ammalato e dei piccoli gesti che faceva per rasserenarlo quand’era con lui in ospedale. Non riuscì a reprimere un singhiozzo strozzato.
Come aveva sempre fatto, esiliò il pensiero con fredda spietatezza e si concentrò sulla risposta da dare all’uomo: «I miei genitori sono divorziati da quando sono nato e ho mantenuto il cognome materno, tutto qua.»
Z s’illanguidì in uno stanco sorriso a fior di labbra: «Tuo nonno è un eroe. Mi ha salvato dalla strada, regalandomi ciò che di più caro possedeva: il cuore. Si è offerto di darmi ausilio e così facendo è diventato un mio amico ‒ lamico. Ho scoperto che se ne è andato ed è per me un messaggio infinitamente luttuoso. Ricorda, Terence: anche gli eroi muoiono
Sembrava un infimo spregio che mirava a giustificare qualcosa. Anche gli eroi muoiono.
Sembrava una frase messa lì a caso, come a vanificare tutto ciò che era stato suo nonno ‒ un maestro di Vita. Anche gli eroi muoiono.
Sembrava l’ennesimo plagio di una riedizione di aforismi stucchevoli inventati da chissà quale stolto. Anche gli eroi muoiono.
Terence non voleva crederci: non era in grado di immaginare un mondo in cui l’ombra di suo nonno fosse un altro marchio destinato ad estinguersi nell’oblio, non era in grado di digerire il fatto che suo nonno fosse destinato a bruciare come qualsiasi altra creatura del pianeta; non era in grado di accettare che lui non ci fosse più.
Una volta per tutte, gli occhi gli bruciarono di collera e la sua implosione fu distruttiva. Cominciò ad urlare e a strepitare, sotto gli occhi pacati del vecchio Z; lo accusò perfino di averlo maledetto anni prima e di aver quindi contribuito alla sua lesta partenza; gridò in tutte le lingue che conosceva che gli eroi non potevano morire perché erano invincibili e immortali ‒ e la morte di suo nonno laveva falsamente disilluso.
Si ricordava che tutta la famiglia aveva compianto la perdita di Daniel Hewitt al funerale, ma lui no. Non aveva versato neanche un cenno di lacrima. Sua madre l’aveva ritenuta una cosa innaturale e l’aveva fatto analizzare da uno psicologo. L’esito era stato che il paziente era assolutamente normale e aveva accettato la cosa.
Proprio lui, il nipote preferito di Daniel, quello a lui più affiatato e affezionato!
Gli psicologi non avevano mai capito che una parte di lui era deceduta con il nonno. Tumore ai polmoni da overdose di sigarette, dicevano: il suo era stato più un tumore allanima, sebbene non fosse certo della sua esistenza.
Anche gli eroi muoiono.
Menzogne.
Fandonie.
Bugie.
Z chiuse le palpebre grinzose e le riaprì in fretta, lasciandosi sfuggire un ansimo, come se fosse stato colpito da un dolore improvviso. Si piegò in due e Terence poté scorgere nitidamente una ferita dietro le spalle: somigliava ad una pugnalata.
Avanzò di corsa e fece per aiutarlo a sollevarsi, ma Z lo bloccò: «Fermo, non ne vale la pena. Ormai anche la mia ora è scaduta. Ho lasciato tuo nonno ‒ anche se io lo ricordo come un adolescente ‒ pochi anni fa. Non interferire con la sua vita, te ne prego, ma se puoi accetta il mio dono. Il suo dono.»
Volse un cenno verso il tavolo scombinato ‒ l’ennesimo rottame là dentro ‒ ed il ragazzo vi scorse un piccolo scrigno. Lanciando una rapida occhiata d’insieme, intuì che era l’unica cosa di valore là dentro. Assaporò con il tatto le sporgenze dei cristalli ivi incastonati e si soffermò sulla serratura esitando. Poteva, doveva, voleva?, aprirlo?
Si voltò nuovamente verso Z, con l’intenzione di manifestargli la sua gratitudine, ma non trovò nulla in quella direzione se non dei fogli bianchi e stropicciati. Dovera finito?
Un’altra lampadina: anche gli eroi muoiono. No, no, non poteva essere. Terence tentò di convincersi che non fosse in quella maniera, ma quale altra spiegazione poteva esserci?
Restò lì, con il dubbio, pietrificato sul posto, fino al momento in cui il tornado non tornò a lambirlo dolcemente per portarlo a casa sua, giusto un paio d’anni più tardi.
 
 
*
 
 
Terence diventò uno scrittore a tutti gli effetti.
Dopo l’esperienza nel Tempo, aveva finalmente compreso che la sua “stella fortunata” non era l’Alchimia ‒ bensì la Scrittura.
Il giorno dopo il suo viaggio nel tempo prese il suo cofanetto e liberò da quella prigione la sua penna stilografica ‒ quella che era appartenuta a suo nonno ‒ con un’indescrivibile gioia: realizzò anche da quei suoi sentimenti quanto anelasse di ritornare a scrivere.
Non ci fu bisogno di fare acquisti: lo scrigno lasciatogli da Z era un set da scrittura completo di pergamene antiquate e stili obsoleti che francamente lo facevano impazzire.
Z si chiamava Zarijan. Aveva condotto ricerche su Internet e, risalendo agli archivi anagrafici, lo aveva individuato. Zarijan Alcott. Era un peccato non poter informare il nonno della cosa: si era a lungo interrogato sull’identità del suo amico Z ed era morto senza mai scoprirlo. 
In quel momento, Terence sorseggiò un po’ d’acqua dalla sua borraccia e osservò con tanto d’occhi la ragazza bionda che gli era appena sfilata davanti. Sorrise come un bracconiere che ha appena carpito la propria preda e si lanciò all’inseguimento.
Non si sarebbe mai riavvicinato a Beatrix ‒ non poteva innamorarsi: era un precetto degli Scrittori ‒ ma nulla vietava di contemplarla a debita distanza, no?
Stava appena entrando in farmacia: a giudicare dalle narici arrossate e dalla tosse fastidiosa, una brutta influenza. Tentò di non preoccuparsi troppo, convincendosi che era autonoma e capace di prendersi cura di se stessa. Non doveva interferire.
Quando lei uscì, notò che s’era nel frattempo legata i capelli ordinandoli in una lunga treccia. Era bellissima. Stava sbuffando controllando lo scontrino e imprecò sottovoce su quanto fossero bastardi i farmacisti per il prezzo di una stupida bustina di Fluimicil.
Se avesse potuto, sarebbe immediatamente corso da lei. Abbassò il proprio berretto, raccolse da terra la sua ventiquattrore ‒ non gli era necessaria ma lo rendeva un tizio più interessante e serio: cosa potete fare contro la stravaganza di uno scrittore? ‒ ed imboccò un vicolo a caso.
Contemplò le terrazze dove rampicavano piante d’edera e la nebbia londinese che gli penetrò i polmoni con la sua freschezza.
Anche gli eroi muoiono.
Era la verità: presto anche lui sarebbe morto ‒ e non era decisamente un eroe. Forse poteva commemorarli in un altro modo, tuttavia.
Li avrebbe fatti vivere sulla carta, nelle sue parole, dovunque avesse posto il timbro della sua anima.
Né Z, né Calliope, né Daniel Hewitt sarebbero svaniti dalla faccia del pianeta. Aveva lui quel poco di Vita che bastava a renderli spettri abbastanza corporei da poter essere ricordati.
Anche gli eroi muoiono.
Non se impressi nell’anima dell’Arte.
 
 
*
 
 
«You’re coming back to me
 
Quando Terence aprì lo scrigno, vi trovò un cumulo di pergamene. Vuote, scritte, abbozzate: tutta quella carta in un primo momento lo disorientò. Sembrava null’altro che l’invito a terminare il lavoro di quegli Scrittori.
Consultò brevemente alcuni appunti, e fugò ogni suo dubbio.
Alcuni scritti di Daniel Hewitt erano andati perduti, allora. Lì si raccontava di un’enigmatica fanciulla incontrata in libreria, tanto bella quanto irraggiungibile: una sorta di donna angelo, per così dire.
Sfogliando instancabilmente quelle bozze, trovò uno schizzo a mano di un volto. Stupefatto, sfiorò la carta e s’appropriò di quel disegno che era già ‒ incredibilmente ‒ presente nelle sue memorie. E così Calliope aveva angustiato anche l’anima di suo nonno, prima della sua.
L’ultimo foglio era ricoperto d’alghe e Terence non stentò a distinguerlo: la lettera caduta dal cielo. Come aveva fatto Z a recuperarla? Mille quesiti gli mulinarono in mente ma si accontentò di leggere le parole intrise d’oceano ed assaporarle come se fosse la prima volta.
Rimaneva un ultimo mistero: scoprire il mittente di quella lettera benedetta.

 
 
FINE
 
 
 
L’Angolo di Mary
Eccoci arrivati al terzo ed ultimo capitolo di questa storia, dopo un intervallo di pausa di dieci minuti. XD
I prompt del contest erano: la citazione già vista, viaggiare nel tempo e anche gli eroi muoiono - credo di poterlo rivelare, ora. Lo ammetto, ero indecisa sul da farsi: alla fine, li ho interpretati in questo modo e spero di non aver combinato un pasticcio. E spero che non sia un esperimento finito male.
Quel che è sicuro è che Mary tornerà, più folle che mai, con qualche altra storia a sorpresa [in verità già le mancate]! Un ringraziamento a chi segue ormai la pazza Mary e a ch leggerà. Le recensioni sono sempre gradite! A presto, miei fanciulli! ♥
 
[7] Hourglass è un bar inventato: significa “clessidra”, mi piaceva: si calibrava al contesto.
[8] St.Mary-le-Strand: chiesa di Londra.
[9] Clio è la Musa della storia.
   
 
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